Argentina-Colombia 0-5

Qualificazioni sudamericane per i Mondiali negli USA del 1994: l’Argentina ospita a Buenos Aires i colombiani guidati da Valderrama nell’ultima decisiva partita del girone di qualificazione. Per quest’ultimi sarà un trionfo di proporzioni epiche.


Una volta mi hanno detto che in questo secolo ci sono stati tre soli grandi avvenimenti, in Colombia: lo scoppio de La Violencia nel 1948, la pubblicazione di ‘Cent’anni di solitudine’ nel 1967 e la sconfitta per 5-0 dell’Argentina per mano della nazionale colombiana nel 1993. E sapete qual è la cosa peggiore? Che è tutto vero.”
(Gabriel García Márquez)

Dici Argentina e Colombia e in un baleno la mente viaggia da sola, approdando a due mondi profondamente differenti. Da una parte trovi l’estremità meridionale di quello straordinario universo di colori, popoli, sapori e odori che è l’America Latina, sul versante opposto sorge quella che del continente è la porta principale, un lembo di terra aggrappato a Panamá, all’altra America. Argentina-Colombia è una partita da mille scenari che non si riducono al campo di calcio: Argentina-Colombia “..es como decir el país de García Márquez y el país de Borges, la cumbia y el tango, el café y el bife de lomo, Valderrama y Maradona, el Batigol y El Tren, el calor y el frío, el Pacífico y el Atlántico…”.

Le unisce un passato colmo di lacrime, sotto il giogo del colonialismo iberico, di eccidi delle popolazioni indigene, le separa una distanza di tremila kilometri. Condividono un amore viscerale per il calcio, quel calcio che le pone una contro l’altra confinandole in un rettangolo verde. Talvolta capita per la semplice gloria personale, per corroborare un primato di imbattibilità: è il caso di un’ amichevole. Talvolta capita per estromettersi a vicenda nella dura contesa per la conquista di un trofeo: è il caso della Copa América. Talvolta capita per garantirsi il proprio posto nel torneo che ogni calciatore sogna di vincere: è il caso delle qualificazioni ai Mondiali.

5 settembre 1993. Spira un vento gelido, a Buenos Aires, di quelli che fanno a fettine i volti degli impavidi passanti. Fa freddo, fa molto freddo. Al di sotto dell’equatore imperversa ancora l’inverno, le temperature scivolano sotto lo zero. Ma il pallone riscalda gli animi: oggi la nazionale di Alfio Basile raduna tutti i suoi seguaci alla cattedrale del calcio argentino, il “Monumental”, la casa del River Plate, il teatro del primo trionfo mondiale a tinte bianche e celesti. Oggi termina il girone di qualificazione ai Mondiali che saranno ospitati negli Stati Uniti, fatto questo senza precedenti nella storia del calcio: solo la prima classificata potrà levare le mani al cielo, la seconda dovrà pazientemente aspettare, dovrà giocarsi l’accesso ai Mondiali nello spareggio, tutt’altro che edificante per una nazionale sudamericana, contro l’Australia.

Fa paura la nazionale allenata da Francisco “Pacho” Maturana, uomo dal temperamento mite, dentista di professione: è tornata a disputare un Mondiale dopo ventotto lunghissimi anni di attesa, pratica un calcio attraente e spettacolare, puro piacere per gli esteti del pallone, che al tempo stesso si rivela foriero di risultati eccezionali. La Colombia è reduce da ben ventisei incontri ufficiali, dei quali solamente uno è coinciso con una sconfitta. Nel girone di qualificazione è andata in rete otto volte, mentre la retroguardia si è arresa soltanto all’argentino Medina Bello e al paraguayano Rivarola.

La vera forza della Colombia non è tutta racchiusa nell’undici titolare, che sa difendersi con ordine senza disdegnare il gioco offensivo che manda le folle in visibilio: il primo posto in classifica compensa lo svantaggio del fattore ambientale. Ai cafeteros è sufficiente anche un misero pareggio per strappare un’altra qualificazione ai Mondiali, la seconda consecutiva. Basterebbe sigillare ermeticamente la difesa, rinunciare a mandare in visibilio la folla con i passaggi rapidi e le giocate di classe, ripiegarsi su sé stessi. Praticare l’anticalcio. Ma la storia prenderà ben altra piega.

Il CT dell’Argentina Basile e quello della Colombia Maturana

Fa freddo, a Buenos Aires. Si respira un’aria tesa. Argentina-Colombia è il drammatico spareggio per la sovranità in uno dei due gironi di qualificazione. Il servizio d’ordine è imponente – 2400 poliziotti – anche se la situazione è sotto controllo: i brutti ceffi delle barras bravasrimarranno fuori dallo stadio. I giocatori colombiani giungono a Buenos Aires solamente il venerdì mattina, dopo aver sopportato la calura di Barranquilla ed il freddo di Bogotá. L’accoglienza all’aeroporto non è esageratamente ostile, anche se qualche tifoso argentino arpeggia un inequivocabile”Narcotraficantes, narcotraficantes!”.

Non è solo il paese di Asprilla, Higuita e Valderrama, la Colombia. Anzi: oramai è diventata la terra dei cartelli della droga di Bogotá, Cali e Medellín, il regno di Pablo Escobar. Resa inquieta dalle diversità sociali, strozzata dall’aspro duello tra Stato e trafficanti di cocaina, ostaggio del terrore, la Colombia riscopre la gioia di vivere grazie alla sua nazionale di calcio, attorno alla quale si stringe l’intero paese e che unisce tutti, anche quanti nella vita di tutti i giorni sono acerrimi nemici. Una nazionale temuta e rispettata, tanto dai semplici avventori dei bar di Buenos Aires quanto da voci ben più autorevoli.

L’intellettuale Osvaldo Soriano è incline al pessimismo: dice che l’Argentina dovrà marcare “il vecchio” (Valderrama), far sì che “Freddy” (Rincón) non vada in contropiede e preoccuparsi del “ciccione” (Valenciano). E conclude: “Se la tribuna ruggisce per novanta minuti, se Dio Nostro Signore accetterà di stare ancora una volta dalla nostra parte, se la Colombia sarà in giornata storta, allora possiamo vincere“. Oscar Ruggeri, pilastro della difesa dell’Albiceleste, entra duro, da tergo: “Ho giocato due finali dei Mondiali, e non ho visto la Colombia dall’altra parte. Ho vinto due volta la Copa América, ed anche in quel caso non c’era la Colombia. Proprio non li capisco, i giornalisti. Hanno dato fin troppa importanza ad un buon gruppo che, però, non è uno squadrone“.

Sotto sotto, tuttavia, questi argentini temono i rivali odierni. E non è un timore meramente riconducibile al valore della Colombia, alla sua ascesa negli ultimi anni. Colpa della nazionale di Basile, accusata di non saper onorare il nome dell’Argentina pallonara. La tradizione, il blasone sembrano l’ancora di salvezza degli argentini, che fanno leva sul glorioso passato. “L’Argentina è la storia del calcio stesso. E la storia non si può cambiare. Argentina arriba, Colombia abajo” sentenzia un Maradona crepuscolare eppure ancora invocato come salvatore della patria.

Chi di storia ferisce, di storia perisce. I quotidiani colombiani sottolineano che, sei anni prima, l’undici di Maturana aveva già profanato il sacro tempio del calcio argentino, battendo 2-1 i campioni del mondo, con Maradona in campo, nella finale per il terzo posto in Copa América. E poi replica Perea, difensore della nazionale: “La storia non peserà. Tutti parlano della superiorità argentina, della maggior predisposizione a giocare partite così difficili. Ma quella è una storia che hanno scritto altri giocatori“. Ora è tempo di scriverne un’altra. Ora è tempo di giocare.

Fa freddo, a Buenos Aires. Eppure gli spalti del “Monumental” sono un meraviglioso affresco dalle tonalità cerulee: è tutto dipinto di bianco e di celeste. Frastornata dalle urla e dagli insulti dei tifosi argentini, la Colombia rischia di sbandare nei primi minuti: l’undici di Basile è gasato, aggredisce l’imbambolata difesa ospite ed incute timore a Óscar Córdoba, il sostituto di Higuita tra i pali. Medina Bello, il più pimpante della nazionale di Basile, lo chiama in causa con una debole conclusione dalla distanza, Batistuta lo grazia difettando nel controllo del pallone quando la logica – e il pubblico argentino – lo vorrebbe veder calciare a rete.

I primi quaranta minuti si consumano tra le sfuriate dell’Albiceleste e i pronti rimbrotti dell’arbitro Ernesto Filippi, uruguayano di origini lucchesi, ai giocatori più infervorati. Ora è il momento di riscrivere la storia. Minuto quarantuno. La Colombia beneficia di una rimessa laterale, sulla sinistra. “El Tren”, che poi sarebbe Valencia, e l’argentino Borrelli ingaggiano un duello aereo. Il difensore svetta più in alto, ma la palla atterra ai piedi de “El Pibe”, che poi sarebbe Valderrama. Il genietto dai riccioli d’oro controlla sulla trequarti, elude il tentativo di sgambetto di Zapata e converge verso il cerchio di centrocampo. Porta a passeggio il pallone, nessuno gli si fa incontro: attende l’intuizione di un compagno.

Sulla destra fugge “El Coloso”, che poi sarebbe Rincón: il nomignolo celebra la sua stazza imponente, ma le lunghe leve ne fanno un abile velocista. “El Pibe” lo vede far irruzione nel suo campo visivo e gli cede il pallone con un passaggio che accarezza l’erba del Monumental. L’esterno dell’América de Cali se lo allunga, impallinando il dirimpettaio Altamirano e ritrovandosi al cospetto di Goycochea: portiere aggirato, palla docilmente accompagnata in rete con un preciso rasoterra. Uno.

Minuto quarantanove. Il gelo sopra Buenos Aires. Dopo aver cullato a lungo l’illusione di rompere gli indugi ed avviarsi al successo, la mente dei tifosi argentini inizia ad essere colonizzata da brutti presentimenti. Alla loro nazionale rimangono tre quarti d’ora per marcare due volte, rovesciare il risultato ed evitare così lo spareggio contro l’Australia. Ma oramai è la Colombia a dominare la scena. “El Coloso” avanza sulla destra e lancia nel cuore dell’area di rigore “El Pulpo”, che poi sarebbe Asprilla.

I colombiani esigono una partita sensazionale, dall’attaccante del Parma: tecnica sopraffina e rapidità mostruosa ne fanno un giocatore micidiale negli scontri individuali. Certo, soffre di una certa mancanza di disciplina tipica degli artisti della pelota e dei colombiani nati nelle città di mare. Ma se azzecca la giornata, “El Pulpo” è devastante. Oggi è una giornata di grazia: palla addomesticata con grande cura, ubriacante finta sul malcapitato Borrelli e umiliante conclusione sotto le gambe di Goycochea. Gambe molli, come quelle dei suoi compagni. Gambe – metaforicamente – spezzate, come quelle di tutta la nazionale argentina. Dos.

Minuto sessantadue. Manca meno di mezz’ora alla conclusione e la storia, a cui gli argentini si erano goffamente avviluppati nei giorni precedenti l’incontro, va a farsi benedire. Il pubblico del “Monumental” ha smesso di rumoreggiare, di far baccano: quei due gol, segnati quattro minuti prima ed altrettanti minuti dopo l’intervallo, hanno rubato le loro corde vocali. E allora la Colombia, da vittima sacrificale da dare in pasto agli argentini, inizia a vestire i panni dell’ospite invitato ad onorare un pranzo luculliano. E si comporta come se fosse in casa propria. “El Leon”, che poi sarebbe Álvarez, affonda sulla sinistra e serve al centro: il pallone sfila, “El Coloso” giunge a rimorchio e, di prima intenzione, prova a scagliarlo prepotentemente alle spalle di Goycochea. La sua conclusione, seppur smorzata, compie un balzo maligno che pietrifica l’estremo difensore argentino. Tres.

Minuto sessantaquattro. Neppure il tempo di realizzare quanto sta succedendo, neppure il tempo di attutire il colpo che la Colombia riscrive definitivamente la storia. “El Pulpo” mette pressione a Borrelli, contrasta un suo rilancio e gli soffia il pallone, lungo la linea del fallo laterale. La difesa argentina è altissima, nessuno è rimasto a proteggere Goychochea: la corsa di Asprilla è inarrestabile, spedita. Il portiere argentino, ultimo ostacolo frapposto tra l’attaccante colombiano e la linea di porta, tenta disperatamente di ostruirgli la visuale e abbozza l’uscita dai pali. “El Pulpo” ha una brillante intuizione: colpetto lieve ma incisivo al pallone, che traccia una parabola nell’aria e scavalca il guardiano della porta argentina. Cuatro.

Minuto ottantaquattro. La nazionale colombiana è una ciurma di pirati che prende d’assalto una nave e ne assume il comando. L’Argentina non esiste più, dopo gli insulti del primo tempo il pubblico di Buenos Aires tace per poi incitare i cafeteros: trattano la palla come una fanciulla, deliziano i palati più esigenti, stanno impartendo una severa lezione di calcio. Meritano il rispetto, ed anche qualcosa di più. Ma la Colombia non è affatto sazia, pretende la ciliegina sulla torta. E la ottiene. “El Pulpo”, un’autentica iradiddio, scappa per l’ennesima volta sulla corsia laterale di sinistra, illuminato da un’apertura de “El Pibe”: quasi si diverte a prendersi gioco di Borrelli, che prova a ostruirgli il passaggio, e capitan Ruggeri, intervenuto a dar manforte. All’improvviso sbuca, alle loro spalle, “El Tren”. Il compagno fa filtrare il pallone tra gli attoniti difensori argentini: Valencia, sul quale prova inutilmente a rinvenire Altamirano, lo accompagna in corsa, mettendo fuori causa Goycochea. Cinco.

Cambia la storia. I vinti diventano vincitori, i vincitori del passato vengono declassati al ruolo di vinti. “La storia si fa e si scrive tutti i giorni”: è un mantra che rimbomba nella testa di Maradona, presente sugli spalti come tanti argentini. Il suo nome viene a lungo scandito sui gradoni del “Monumental”, tra i peana innalzati a favore della Colombia e gli applausi scroscianti. Quello che dovrebbe essere un segnale positivo, per l’ex campione del Napoli, è l’emblema di una sconfitta altisonante: la sua Argentina è stata surclassata, annichilita, la sua tracotanza è stata punita dai tocchi magici di un altro “pibe”, il pittoresco Valderrama. La Colombia si qualifica ai Mondiali. E riscrive la storia.

A cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta furono gli argentini a dar lustro al calcio colombiano: era l’epopea dell’El Dorado, dei vari Di Stéfano, Pedernera, Néstor Rossi. Oggi no. Oggi Asprilla, Valderrama, Valencia e tutti gli altri segnano cinque gol ai maestri argentini, senza subirne uno. Cinque, come le dita di un mano. Uno schiaffo di quelli che fanno male. E fu così che i colombiani si macchiarono di un reato gravissimo, come Galeano definì lo storico trionfo al “Monumental”: parricidio. Come l’Edipo Re nella tragedia sofoclea.

E tragica sarà la fine di quella Colombia, aditata da Pelé come una delle favorite alla vittoria dei Mondiali, con l’eliminazione al primo turno, le minacce di morte dei cartelli della droga e l’assassinio di uno dei suoi giocatori rappresentativi, Andrés Escobar. E sulla generazione d’oro del calcio colombiano calò il sipario.

Domenica 5 settembre 1993 – Estadio Monumental, Buenos Aires
ARGENTINA – COLOMBIA 0-5
Reti: 41′ e 62′ Rincón, 49′ e 64′ Asprilla, 84′ Valencia.
Argentina: Sergio Goycochea; Julio Saldaña, Jorge Borelli, Oscar Ruggeri, Ricardo Altamirano; Gustavo Zapata, Fernando Redondo (69′ Alberto Acosta), Diego Simeone, Leonardo Rodríguez (54′ Claudio García); Ramón Medina Bello, Gabriel Batistuta. All. Alfio Basile.
Colombia: Óscar Córdoba; Luis Herrera, Luis Perea, Alexis Mendoza, Wilson Pérez; Leonel Álvarez, Gabriel Gómez; Carlos Valderrama, Freddy Rincón, Fuastino Asprilla, Adolfo Valencia. All. Francisco Maturana.
Arbitro: Ernesto Filippi (Uruguay).

Testo di Simone Pierotti – http://simonepierotti.blogspot.it