Escobar: Morire di Mondiale a Medellin

Ritenuto in qualche modo “colpevole” dell’eliminazione della sua Nazionale, andò incontro alla morte al ritorno in patria: fu ucciso con dei colpi di pistola da un’ex guardia del corpoall’uscita del ristorante dove aveva appena cenato con la moglie

«Grazie per l’autogol» e poi dodici colpi a bruciapelo. Questa la causa dell’omicidio di Andres Escobar, crivellato di proiettili mentre usciva da un ristorante di Medellin. Escobar, 27 anni, era il più importante difensore della Nazionale della Colombia, appena rientrata di patria a testa bassa e tra accese contestazioni dopo essere stata eliminata dalla Coppa del Mondo 1994 dopo la sconfitta per 2-1 proprio con i padroni di casa degli Stati Uniti.

Escobar va con tre donne in un ristorante del quartiere di Las Palmas dove risiedeva. Il proprietario del locale racconta che, dopo il pasto, il giocatore esce dirigendosi verso l’auto. Nel parcheggio è avvicinato da un gruppo di uomini che sembravano attenderlo iniziano ad aggredirlo con insulti. Si scatena una discussione ai limiti della rissa incentrata proprio sull’autogol in cui è incappato il difensore nella partita dell’esclusione dalla Coppa.

Ma la discussione dura poco, perché gli uomini passano subito dalle parole ai fatti. Estratte le pistole, fanno fuoco a ripetizione su Escobar, che viene trasportato da un taxi all’ospedale di Las Palmas. Inutilmente, perchè ci arriverà cadavere. Le tre donne presenti rimangono illese. Gli uomini fuggono poi a bordo di due fuoristrada, uno dei quali, una Toyota, viene ritrovato più tardi dalla polizia, abbandonato nei pressi dell’aeroporto. Si tratta di una jeep rubata e fornisce la certezza che l’agguato a Escobar era premeditato e organizzato dalla malavita.

Andres Escobar Saldarriaga era un idolo dei tifosi dell’Atletico Nacional, la squadra di Medellin, una città 240 chilometri a nord di Bogotà. A differenza di quasi tutti gli altri calciatori, proveniva da un ceto sociale medio alto. Era fidanzato con una dentista, Pamela Casals, e stava meditando di raggiungere per qualche tempo una squadra europea. Ma poi voleva tornare: Medellin era la sua città e quello era il posto dove intendeva passare la gran parte della sua vita.

La Colombia aveva iniziato male il Mondiale. Nel match d’esordio contro la Romania era stata messa ko da tre gol di Raducioiu. Il 22 giugno il secondo incontro, avversario i padroni di casa degli Stati Uniti. Al 34′ del primo tempo, su un cross sbagliato del mediano statunitense Harkes, Escobar interviene in spaccata all’altezza del dischetto del rigore deviando il pallone, destinato al fondo campo, al di là della propria porta, difesa da Cordoba. Escobar rimane a lungo disteso sull’erba, impietrito dallo sfortunato episodio.

Gli uomini del ct Maturana non si riprenderanno più. A tempo scaduto Valencia sigla l’inutile rete del 2-1, Stewart aveva raddoppiato in avvio di ripresa. Quella partita, però, la Colombia praticamente non l’ha giocata. L’autogol di Escobar non è soltanto la conferma di una forma fisica precaria già palesata da tutta la squadra contro la Romania. E’ invece la diretta conseguenza del clima di terrore in cui il team sudamericano è sprofondato nell’immediata vigilia del match.

Riallacciando con cura tutti i fili, la fine di Escobar si può dire che in qualche modo è annunciata. Alle 11 del mattino del 22 giugno, cinque ore prima della tragica sfida con gli Stati Uniti, giunge nell’hotel di Fullerton un fax anonimo: «Se Gomez gioca faremo saltare in aria la sua casa e quella del et Maturana». L’allenatore riunisce la squadra, si decide di estromettere il centrocampista. Gomez tornerà in patria, distrutto.

Era diventato il capro espiatorio di una situazione paradossale e tragica. Gabriel Gomez, 34 anni, era stato descritto dalla stampa colombiana il responsabile unico – o quasi – della sconfitta con la Romania. I critici avevano lavorato su un terreno minato. Gomez infatti ha un fratello (Hernán Darío Gómez) che è il vice di Maturana. Di Gomez i media colombiani scrivevano e dicevano che giocava solo perché era un «favorito». Il cartello di Medellin colpendo Gomez in verità voleva colpire il ct.

E c’è tutto un pesante retroterra di sospetti sull’interferenza del cartello trionfante dei narco- trafficanti, quello di Cali, sul calcio colombiano, dopo anni di dominazione del cartello di Medellin, quello di Pablo Escobar, il signore della droga che aveva contribuito alle fortune del suo club, l’Atletico Nacional (arrivato ad una finale di Coppa Intercontinentale con il Milan a Tokyo e battuto solo ai supplementari, dopo una grande prova, fra l’altro, proprio di Andres Escobar).

Gli intrecci sono tanti e confusi, nella chiarezza però dell’assunto principale: il calcio, popo- larissimo in Colombia dove divide i favori degli sportivi solo con il ciclismo, è anch’esso terreno di conquista dei narcotrafficanti. Nel 1993 René Higuita, il famoso portiere delle uscite sino a metà campo, è messo in carcere sette mesi per partecipazione, come intermediario, al rapimento della figlia di un possidente: il riscatto sembra dovesse servire al finanziamento della latitanza di Pablo Escobar, ucciso nel dicembre 1993 dalla polizia. I funerali del super boss si svolsero a Medellin con un vasto concorso di popolo in lacrime, compresi i tifosi dell’Atletico Nacional, orbati del loro padre-finanziatore.

Ma altri intrecci possono sverlarsi nel rapporto contorto e intanto assai palpabile fra narcotraffico e calcio. Per esempio nel 1992 un movimento chiamato LiFuCol (limpieza, cioè pulizia del futbol colombiano), legato al cartello di Cali, minacciò di morte Maturana, allenatore della Nazionale, se avesse convocato in Nazionale giocatori di un altro club di Medellin, quello di Antioquia (il nome della provincia di cui Medellin è il capoluogo). Maturana non solo respinse le minacce, ma convocò in Nazionale tre giocatori di quel club (Higuita, Alvarez e «Barrabas» Gomez) e volle al suo fianco nella Colombia l’allenatore, appunto il Gomez fratello del calciatore minacciato a sua volta di morte.

Da ricordare poi due altri episodi: il rapimento del figlioletto di Luis Fernando Herrera; nazionale colombiano, anche lui dell’Atletico Nacional di Medellin, tre mesi prima dell’inzio del mondiale americano, con richiesta di enorme riscatto, appello drammatico in televisione del giocatore, restituzione della creatura; e lo sciopero del 1990 degli arbitri colombiani dopo l’uccisione di uno dei loro, che si era rifiutato di far terminare in un certo modo una certa partita.

Tutti questi fili portano ad una conclusione sconcertante: il «sacrificio» di Andres Escobar sarebbe stato deciso da un clan di scommettitori che avevano investito grosse cifre sulla qualificazione della Colombia agli ottavi. In sostanza, allibratori e scommettitori avrebbero rispecchiato due cartelli rivali, quello di Cali contro quello di Medellin impegnato a risorgere. Escobar avrebbe, con il suo autogol, involontario ma determinante, aiutato gli allibratori a evitare il disastro economico, e il clan degli scommettitori, distratti dalla sconfitta, gliel’avrebbe fatta pagare.

Esattamente un anno dopo, Humberto Munoz Castro viene condannato a quarantatré anni e cinque mesi di reclusione per essere stato riconosciuto come colui che sparò ad Escobar. Apparentemente nessun collegamento “ufficiale” con le scommesse ed il narcotraffico quindi, ma troppe coincidenze e particolari che non tornano portano a pensare ad un insabbiamento e ad un capro espiatorio estratto per coprire le miserie del calcio colombiano.