Per chi resta al Palo…

Storie di gol mancati per pochi centimetri, ricordi contrastanti di legni e traverse che hanno fatto sospirare o disperare. Dalle partitelle tra ragazzini, per strada alle finali internazionali dentro impianti avveniristici…


E’ magro. Ha i capelli corti. E mostra i denti storti, quando sorride. Il bambino che sta giocando scalzo, a Santa Cruz de la Sierra, non si fa togliere il pallone dai piedi nè dagli avversari, nè dal vento, che alza la polvere nello spiazzo di terra battuta. Si muove come un gatto, lui. Mica facile stargli dietro. Tutte le volte che segna, poi, fa una virata. Si ferma di scatto. Porta le piccole mani chiuse a pugno sul petto, vicino al cuore. Dev’essere un rituale. Il suo. Perchè, a questo punto, il bambino distende le braccia in alto.

Dice un nome. Dice: “Romarioooo”. Non troppo forte, ma neanche tanto piano. Semplicemente lo allunga, il nome del suo idolo, come un chewing gum, come un disco incantato. Tiene ancora la bocca spalancata e ha uno sguardo pieno, quando i compagni lo abbracciano e lui abbraccia tutti, mentre il vento continua a spiallare l’altopiano boliviano che sconfina, senza tracce evidenti, verso il nord del Brasile. I suoi gol sono tiri che finiscono in fondo a una porta che non c’è. Segnata da due piccoli cumuli di sassi, che tengono in piedi un paio di rami sottili, la porta è alta quanto si vuole.
Più o meno cosi’. O cosi’. Dunque è impossibile colpire la traversa: sarebbe come svegliarsi da un sogno e trovarsi accanto, nel letto, Jessica Rabbit nuda e carnosa. Ma è anche molto difficile colpire un palo, rincorrere il pallone che rimbalza. C’è solo il dentro o il fuori. Il gol o niente. E’ la potenza dell’ immaginazione. Vale per tutti, mica solo per quel bambino.

C’è una controprova. Basta entrare in uno stadio vuoto, e fare due passi sull’ erba: le porte sono due segni fortissimi. Ti portano via gli occhi come succede alla corrente elettrica con i poli di una batteria. Pali, traverse, le reti. Tutto bianco. Gli occhi stanno là: rapiti. Subito si accende qualcosa di magico nella tua testa: eccoli i fantasmi dei giocatori che le hanno attaccate e difese, quelle porte. Ti passano tutti davanti. E allora vedi mulinare cross, grandi duelli di testa, tiri al volo, diagonali che superano il portiere.

Funziona proprio cosi’. Quando manca la porta, te la immagini. Quando la porta ce l’ hai davanti, ti immagini tutto il resto. Poche storie, il calcio viene raccontato quasi sempre per soccorrere il vincitore. E chi vince, fa gol. Fa gol e basta, perchè è più forte. Chi vince non si porta dietro, quasi mai, storie di pali e traverse. I pali e le traverse sono semplicemente la fortuna di alcuni portieri e l’oblio degli sfigati. Che tristezza. Ma anche questa, in fondo, è una forma d’ immaginazione. Quasi sempre. Quasi.

Molti anni fa, prima di arrivare al Real Madrid e di diventare una leggenda del calcio, Alfredo Di Stefano era andato a giocare in Colombia. Pagavano bene. Fuori dallo stadio dei Millonarios, a Bogotá, le strade non erano asfaltate, ma le macchine bolidiste di produzione americana non facevano nessuna fatica a raggiungerlo. E là , sul campo, i Millonarios erano più forti di tutti: pieni di fuoriclasse argentini, strappati al River Plate. Erano cosi’ forti che una volta succede questo: Di Stefano tira in porta, il pallone rimbalza sulla traversa e schizza molto lontano; allora Di Stefano lo rincorre, lo riprende, dribbla un pò di avversari, aggiusta la mira e tira nello stesso punto di prima, solo un paio di centimetri più in basso. Fa gol cosi’. E che gol. Ma invece di festeggiarlo, Adolfo Pedernera, vecchio compagno fin dai tempi del River, lo raggiunge a centrocampo, gli mette una mano sulla spalla e gli dice: “Ehi ragazzo, datti una regolata. Di questo gioco campiamo tutti”. Forse proprio dopo questo consiglio, Alfredo Di Stefano decide di traslocare a Madrid.

Ci sono anche pali e traverse più famosi, che hanno cambiato davvero la storia del calcio e segnato il destino di qualche campione. Uno per tutti: Rob Rensenbrink, attaccante dell’ Olanda versione Arancia meccanica, coetaneo e alter ego in diesis minore del grande Johan Cruijff. Rensenbrink, dunque. Succede a Buenos Aires, il 25 giugno 1978. Minuto 90. Finale mondiale. Argentina e Olanda sono sull’1-1. Mancano pochi secondi. Rensenbrink scarica un sinistro, il pallone sbatte sul palo e torna verso il centro dell’ area. Niente. Fine dei tempi regolamentari. Nei supplementari l’Argentina dilaga con Mario Kempes e Daniel Bertoni: 3-1. E’ campione del mondo.

Il clamoroso palo di Rensenbrink ai Mondiali 1978

Ma se quel tiro di Rensenbrink fosse finito dentro, campione sarebbe stata l’Olanda, lui sarebbe salito sul trono di capocannoniere e pochi mesi dopo gli avreb- bero dato anche il Pallone d’oro, anzichè relegarlo al terzo posto (dietro a Keegan e Krankl, pensa te). Di più . Esageriamo. Se il tiro di Rensenbrink fosse finito in porta, anche il sanguinario regime del generale Videla, braccio operativo nello sterminio di migliaia di desaparecidos, che aveva puntato tutto sul trionfo mondiale per rifarsi la faccia, si sarebbe sbriciolato ben prima del 1982, della guerra delle Falkland Malvinas. Forse.

E forse il nostro calcio sarebbe molto diverso, oggi, se il 22 ottobre 1967, in un derby contro l’Inter, Gianni Rivera in persona non si fosse sognato di scaraventare il pallone sotto la traversa per farlo rimbalzare oltre la linea di porta. Oltre? Davvero? Chissà. Gol fantasma. Certo, quel giorno, nasce la moviola. Che ormai imperversa. Su tutti gli schermi. Tutti i giorni. A tutte le ore. La moviola: grande invenzione, strumento degnissimo. Il problema è l’uso che se ne fa. Quando è ossessivo, diventa una specie di serial killer.

Cosi’ ha scritto Vladimir Dimitrijevic (La vita è un pallone rotondo, Adelphi) con un’ intuizione folgorante: “Il racconto è stato ucciso, sostituito da una fibrillazione di fatti salienti e rimarchevoli, ed è come se avessimo sostituito il cuore con il tracciato dell’elettrocardiogramma”. Ah. Cuore, elettro- cardiogramma. Bip, bip. Chi glielo va a spiegare, adesso, a quel bambino di Santa Cruz lassù sull’altopiano, che questo è il prezzo da pagare per il calcio ricco e moderno? Lui, che quando mira la porta se la immagina soltanto, perchè la porta continua a non esserci. Eppure fa gol lo stesso. E questo gli basta per mostrare ancora, felice e inconsapevole, l’allegria dei suoi dentoni storti. Quando il palo è un nemico…

Testo di Gaetano De Stefano