Tre ricordi di tre grandi giornalisti per ricordare ciò che è stato Fulvio Bernardini: un grande giocatore, un grande allenatore, e soprattutto un grande uomo
1 – L’Uomo
Come diventò «Fuffo nostro», perché lo chiamavano «il dottore», sulle due sponde romane e l’intermezzo nell’Inter, una parte in un film, il tennis col Duce, piedibuoni e cervello nel calcio dove a quattordici anni nella Lazio…
di Elio Domeniconi
QUANDO qualche cronistello di primo pelo alzava troppo la cresta, lo metteva a tacere dicendogli: «Io sono Fulvio Bernardini, e tu chi sei?». Il tapino era subito costretto a cucirsi la bocca e ad ascoltare l’oracolo.
IL SANTONE. Alla maniera di Re Sole, poteva dire benissimo: «Il calcio sono io». Ne aveva tutti i titoli, nessuno ha mai vantato e sicuramente nessuno vanterà mai un simile curriculum. Come calciatore era arrivato alla Serie A, alla Nazionale, aveva partecipato alle Olimpiadi e avrebbe potuto benissimo diventare campione del mondo se nel 1934 Vittorio Pozzo non l’avesse tolto dal Club Italia perché… giocava troppo bene. Come allenatore ha vinto due scudetti, e mica in metropoli, ma in piccole città come Firenze e Bologna, una Coppa Italia e un Seminatore d’oro.Poteva darsi delle arie anche in tribuna stampa perché era giornalista professionista come i suoi critici più agguerriti (era arrivato alla carica di caposervizio al “Corriere dello sport”). Quanto alla cultura, pochi potevano stare alla pari di lui: aveva il diploma (ragioniere) e la laurea (in scienze economiche e commerciali). Non era “il mister”, era “il dottore”.
PORTIERE. È stato paragonato a Falcao perché, già mezzo secolo fa, era stato un giocatore universale. Il cervello e i piedi buoni gli permettevano di giocare in qualsiasi ruolo. Aveva cominciato come portiere, si era trasformato mediano metodista, che allora era il ruolo più importante. La soddisfazione più grande, la carica di ct della Nazionale, l’ha avuta da vecchio quando ormai si considerava in pensione. Però era stato un ragazzo-prodigio. A 14 anni era già portiere della Lazio in Serie A. Aveva cominciato nell’Exquilia, la squadretta dell’oratorio del quartiere Monti, ve l’aveva portato il fratello maggiore Vittorio, appassionato di calcio pure lui. Cambiò ruolo nel 21 dopo un incontro con la Fortitudo. Ha raccontato Mario Pennacchia nella storia della Lazio: «Bernardini para tutto sino ad esasperare gli stessi avversari. Nel fango la partita è una battaglia, una serie indistinguibile di violenti corpo a corpo. Quel ragazzino in porta poi è un fenomeno: vola, si tuffa, respinge in tutti i modi, perfino con i piedi. E ai rossoblu, che pure vincono, scappa la pazienza. In una mischia Fulvietto si butta a pesce, agguanta la palla, ma viene duramente colpito alla testa dall’infuriato Montemezzi. Sulle tribune si accapigliano, il gioco viene sospeso. II povero ragazzo, privo di sensi, viene sollevato e portato fuori dal campo. Per rianimarlo, non si sa come, viene pescata una bottiglia di cognac, nella gola dell’inanimato Bernardini ne viene versato un bicchiere». A quei tempi il cognac sostituiva la spugna.
LA FAMIGLIA. Proprio perché era un portiere-kamikaze, le sorelle quando lo videro tornare a casa con la testa rotta lo implorarono perché se proprio voleva giocare al calcio cambiasse almeno ruolo. In casa, Fulvio era molto coccolato perché era l’ultimo della nidiata: papà Augusto e mamma Clorinda l’avevano avuto dopo Maria, Vittorio, Jolanda e Giulia. E per fargli guadagnare un anno, anche se era nato il 28 dicembre del 1905, aspettarono a registrarlo il 1 gennaio del 1906. Allora si usava. Per capire la popolarità di Bernardini nella sua città basterà, ricordare le parole di un suo biografo, Vittorio Finizio, che una mattina si svegliò alle sei per riuscire a strappargli l’autografo (Fulvio infatti detestava il divismo e dopo le partite usciva dalla porta di servizio per evitare i fans che si presentavano con foglio e matita): «Bernardini – ha scritto Finizio – ebbe unico e solo il distintivo di essere chiamato dalla folla “Fulvio nostro”. Non ci fu un Attilio nostro e neppure un Guido nostro: ma solo lui, Fulvio, fu decorato dalla medaglia dell’aggettivo possessivo dalla folla romana. Lo chiamavano Bernardini i soli ufficiali dello stato civile, più qualche serio commendatore che vagamente veniva interessandosi di pallone. Ma per la folla, per i tifosi. Bernardini era Fulvio nostro». E, in romanesco, Fuffo nostro.
IL GIURAMENTO. Per impedirgli di lasciare la Lazio l’avevano costretto a giurare sul letto di morte di suo padre, che era laziale, che mai avrebbe lasciato la società del suo cuore. Se ne andò quando scopri che solo lui giocava per la gloria, tutti gli altri erano pagati. L’Inter per averlo, nel 1926, gli fece un contratto di tremila lire al mese e 50 mila lire ad ogni rinnovo stagionale del cartellino. Ma si era inasperito a Milano anche per poter continuare gli studi alla Bocconi, l’università più famosa per chi fa economia e commercio (però poi si laureò nella capitale, quando ormai giocava nella Roma, all’università di Fontanella Borghese. Aveva 28 anni). Le sorelle sognavano per lui un sicuro impiego in banca, e per qualche tempo dopo il diploma, si era interessato di conduzione aziendale. Non era nato per restare dietro a una scrivania.
IL CINEMA. Pochi forse sanno che Bernardini ha fatto anche l’attore. Prese parte al primo film sportivo: «Undici uomini e un pallone», regia di Angelo Musco. Se avesse voluto, avrebbe potuto diventare anche onorevole. Aveva infatti sposato Ines Giannini (e dall’unione felice sono nate due figlie: Clorinda e Mariolina). La signora Ines, che l’ha assistito amorevolmente sino all’ultimo, è la figlia di Guglielmo Giannini, il fondatore dell’«Uomo qualunque», un movimento che nel primo dopoguerra ebbe molto seguito e portò diversi suoi seguaci in Parlamento. Ma Bernardini preferì rimanere fuori dalla politica. Ricordava però volentieri un suo scontro con il Duce. Accadde il 2 gennaio del 1935, a Piazza Venezia. Il traffico era intasato e tutto dipendeva da una grossa Astura color blu che procedeva piuttosto lentamente. Anche se in città era proibito, Bernardini cominciò a suonare il clackson della sua Augusta e poi, in via Cesare Battisti, tentò il sorpasso. L’Astura non gli diede strada e ci fu un leggero contatto tra le due macchine. Poco dopo, l’allora centromediano della Roma fu raggiunto a casa dalla polizia. Seppe così che quella Astura aveva a bordo Benito Mussolini che si stava recando alla Stazione Termini per ricevere il premier francese Pierre Lavai. Gli venne ritirata la patente, che riebbe alcuni mesi dopo solo per l’intervento di un compagno di squadra, Eraldo Monzeglio. Monzeglio era amico fraterno dei figli di Mussolini, Bruno e Vittorio, che però tifavano per la Lazio, quindi il suo compito quella volta non fu facile. Per riavere la patente Bernardini fu costretto a farsi battere a tennis dal Duce a Villa Torlonia. Fulvio era un campione anche con la racchetta, ma quel giorno dovette farsi battere.
LA NAZIONALE. Il suo scopritore era stato Guido Baccani, e fu lui a suggerirlo ad Augusto Rangone per la Nazionale. L’esordio il 22 marzo 1925 a Torino contro la Francia (7-0), a Bernardini giocò solo 26 partite in Nazionale perché poi arrivò Vittorio Pozzo, che, come spiegò Paola Bolognani a Mike Bongiorno quando andò a vincere i 5 milioni a «Lascia o raddoppia?» rispondendo sul calcio, «Pozzo amava più i combattenti generosi alla Ferraris IV che i maestri della classe e della tecnica». Nel suo volume «Dieci anni con la Nazionale», Bernardini ha raccontato perché Pozzo gli tolse la maglia azzurra, alla vigilia dei Campionati del mondo 1934: «… Sin dai primi contatti ebbi la netta sensazione che Pozzo non gradisse molto il mio modo di giocare. Per la posizione di centro della mediana lui era alla ricerca di un giocatore inesauribile: ricordo che aveva molta nostalgia di Luigi Burlando. Non fece fatica a trovare il soggetto che gli occorreva: Ferraris IV rispose in pieno ai suoi desideri…». Ricordò anche il discorso che Pozzo gli fece nel 1931 a Torino alla vigilia di Italia-Ungheria: «La stanza del c.n. era adiacente alla mia e ve lo trovai con il viso atteggiato ad una espressione preoccupata come di uomo combattuto e preoccupato da qualche affanno. Mi parlò a lungo, Pozzo, con lenta cadenza senza guardarmi negli occhi: vede Bernardini, lei gioca attualmente in modo superiore; in modo perfetto dal punto di vista della prestazione individuale; questa sua particolare situazione porta la squadra dove lei opera all’assurdo di non avere facili collegamenti perché gli altri possono arrivare alla concezione che lei ha del gioco e finiscono per trovarsi in soggezione, dovrei chiederle di giocare meno bene. Sacrificare lei o sacrificare tuti gli altri? È un problema difficile come mai ne ho avuti da risolvere. Mi dica lei: come si regolerebbe al mio posto?». Fecero pace a Cuneo dove Bernardini era in ritiro con la Sampdoria. Pozzo ormai aveva 83 anni. Era a un raduno di alpini. Volle andare a fare gli auguri al suo ex nemico e vi fu un abbraccio.
GLI SCUDETTI. Il vecchio «Guerino» a Genova gli fece un processo che finì in un trionfo. E Gianni Brera, che fungeva da pubblico ministero, spiegò: «Bernardini fingeva di parteggiare a parole per i qualunquisti e poi li smentiva sul campo sia a Firenze sia a Bologna. La cosa mi sdegnava molto. Perché gli italiani hanno sempre bisogno del doppio binario e storicamente ne ho così nitida coscienza da soffrirne. Intanto, per quel vezzo, abbiamo perduto molti anni in chiacchiere e ancor oggi vi sono molti tabù mentali e critici nel nostro ambiente. Bernardini è intelligente e buono d’animo per cui mi piace molto di aver fatto pace con lui: se accettasse di insegnare anche quel che combina in sede pratica sarebbe la guida ideale del calcio italiano». Alberto Rognoni ricordò che nel ’43 la Mater di Bernardini fu la prima a giocare col sistema, poi, a Firenze con Julinho ala tattica, anticipò il modulo del Brasile. E col Bologna vinse lo scudetto gabbando Herrera nello spareggio con la trovata di un terzino, Capra, all’ala sinistra. Anticipò sempre i tempi e meritò quindi anche la carica di presidente degli allenatori, a quell’affettuoso processo del «Guerino» venne assolto da una giuria che aveva come presidente Enzo Tortora. E il presentatore televisivo ricordò poi: «Mi chiamò vostro onore con un’ironia così sottile che gli ermellini, se li avessi avuti sulla toga, sarebbero arrossiti di vergogna. Annodandosi in un rosario di giuridica pelliccia, mai imputato fu più spiritoso e corrosivo. Perché tacerlo? Perfino come presidente tifavo per Fulvio Bernardini. Bernardini è votato all’assoluzione come altri purtroppo sono costituzionalmente votati all’er gastolo».
LA PROFEZIA. A proporlo come et. della Nazionale fu negli Anni 60 l’attuale ideatore del «Processo del lunedì». Aldo Biscardi scrisse su “Lo sport”, la rivista che dirigeva: «La Nazionale, poiché è la massima espressione calcistica del paese, deve essere affidata agli uomini di maggior prestigio e non ad uomini di scarsa esperienza perché è difficile emergere all’università avendo frequentato solo le scuole serali. E insistiamo sulla candidatura di Fulvio Bernardini, un uomo e un tecnico di grandi inconfondibili virtù». Antonio Ghirelli, allora direttore del “Corriere dello sport” aggiunse: «Anche noi siamo d’accordo su Fulvio alla Nazionale». E Aldo Bardelli sulla “Gazzetta dello sport”: «Il settore azzurro ha bisogno di una radicale riorganizzazione ed anche di quadri più qualificati. Bernardini sarebbe stato il tecnico più qualificato per occupare una posizione di vertice in questo settore, ma ha già rinnovato il contratto con la Sampdoria. Non è da escludere del resto che quello che non è possibile oggi possa essere realizzato in un secondo tempo». Bernardini si schermì dicendo: «Per anni ho sognato di diventare il selezionatore della squadra az zurra. Tutti gli allenatori del resto hanno avuto sicuramerente l’occasione per sognare di arrivare un giorno alla conduzione della Nazionale. E umano che sia così. Io non ho fatto eccezione alla regola come non la faranno i giovani che sono alle loro prime apparizioni sulla panchina. Adesso però è un bel po’ di tempo che ho smesso di sognare…». Invece il sogno si avverò davvero. E il destino (Artemio Franchi) gli permise di ricostruire la Nazionale che doveva poi laurearsi campione del mondo.