BERNARDINI Fulvio: il Dottore dei miracoli

2 – Il calciatore

Non aveva ruolo perché giocava in tutti i ruoli. È stato forse il più grande cervello calcistico di tutti i tempi. La vera storia del dissidio con Vittorio Pozzo e il primo sciopero nella Roma. Da difensore, segnò alla Juve due gol capolavoro

di Gualtiero Zanetti

In questo momento tri­ste, perché è dell’ultimo addio, si deve essere cattivi per quello che lui non riuscì ad essere. Fulvio Bernardini è l’autentico esempio di quanto la gente sap­pia dimenticare in fretta, Sono persino sicuro che qualcuno si deve essere detto: «Ma come, Bernardini è morto soltanto adesso?». Eppure è stato il più grande uomo-calcio che mai sia esistito. È stato per anni dentro al calcio ricevendone il minimo per vivere, mai per diventare ricco. Ha visto il calcio da gio­catore, da tecnico, da dirigente, da giornalista, l’hanno voluto alla Nazionale solo quando ave­va già speso quasi tutto e per più di sessant’anni c’è stata una rincorsa affannosa per scovargli difetti: pigro, scontroso, scetti­co, troppo definitivo nei giudizi, antinordista. Che fosse il più onesto e il più competente, non ha mai avuto importanza. Ep­pure abbandonò la Lazio (vi esordì portiere a 14 anni) quan­do apprese che a molti suoi compagni venivano allungati soldi sottobanco, né fu tanto pigro se seppe laurearsi quando studiare era compito abbastan­za complicato non essendo an­cora stati scoperti gli accorgi­menti politico-sociali di oggi. Aveva il culto dell’amicizia (po­chi e sempre gli stessi) pareva intenzionato a non prendere mai nulla sul serio, solo perché diceva le sue verità in un certo modo, senza drammatizzare, né urlare. Insomma è stato «er più». All’uscita dalla guerra fu anche dirigente federale: rap­presentava il Centro-Sud nella trattativa per rimarginare le due anime del calcio e soltanto un uomo superiore come Ottorino Barassi ne comprese le idee e gli sfoghi. Per troppi dirigenti del Nord, fu vera normalità il giorno in cui se lo tolsero dai piedi. Allora eravamo in tanti ad an­dare a trovarlo alla redazione del «Corriere dello Sport», nella sua stanza con Giuseppe Melillo e Vittorio Finizio. Fu li che divenne allenatore della Roma. Per stare più insieme, costituì una squadra, lo Sparta, con giornalisti e qualche amico inse­parabile (Celestini, Fasanelli, Chiesa, Battioni e pochi altri). Ebbe uno scontro con un arbi­trino alle prime armi, che all’in­gresso in campo gli aveva e-spresso untuosamente tutta la sua ammirazione. Durante il gioco, ci fu un banale incidente e l’arbitrino, montando in catte­dra, gli disse: «Mi dia il suo nome». Rispose: «Lo sa». E l’al­tro: «Dovessi conoscere il nome di tutti i giocatori delle squadre che dirigo…». Non finì la frase perché Fulvio aveva già deciso il modo di interrompere la discus­sione. Fu espulso e gli andam­mo dietro.

SCIOPERO. In pochi sanno che proprio un campione del suo rigore morale fu il primo a organizzare uno sciopero dei giocatori. Il presidente romani­sta dell’epoca aveva promesso un premio in caso di vittoria, in tre partite consecutive, ma al momento di pagare disse che nel premio doveva essere compreso anche l’incontro di Venezia. Bernardini contestò che non era nei patti, l’altro rispose che il presidente era lui. Replica: «A Venezia non giocheremo». La partita di Venezia cominciò con molto ritardo, quindi il presi­dente riconobbe l’errore. Un altro che Bernardini non volle più incontrare. La sua vita non è stata costellata di grandi sod­disfazioni perché dava alle scon­fitte il valore del dramma. L’ab­bandono della direzione tecnica della Roma fu, appunto, un dramma che volle vivere da solo, e quasi per godersi da solo tutta la sua «vergogna», andò a Reggio Calabria. Si faceva fati­ca a dargli coraggio e allora era lui a darne agli altri. Anche la sua uscita dalla Nazionale ha avuto molte interpretazioni. La stessa giustificazione che Vitto­rio Pozzo avrebbe fornito alla stampa («Lo debbo togliere per­ché è troppo bravo e rompe gli equilibri interni della squadra») non è completamente esatta. Stava preparandosi alla partita, quando il C.T. entrò nella sua stanza e gli comunicò la sua decisione che, in verità, era stata quasi imposta dal blocco dei nordisti che mal sopportavano la superiore capacità interpreta­tiva di Fulvio, sicuro allenatore in campo. Bernardini non si scompose e replicò, con voce pacata, con una espressione ti­picamente romana. Così quan­do Fiorentina e Bologna, che aveva portato allo scudetto, preferirono altri tecnici.

UNIVERSALE. Definirlo qua­le giocatore, agli occhi di chi non lo ha visto giocare, è impos­sibile. Non aveva ruolo, ne ha ricoperti sette perché gli piaceva andare dove lo portava il suo estro. Era un difensore per la maglia, ma disponeva di un ottimo tiro a rete: i due gol a Combi nel celebre Roma-Ju­ventus 5-0 furono un capolavo­ro. Era insofferente alle marca­ture, offensivista quando la par­tita lo ordinava, difensivista quando il risultato lo imponeva. Vinse lo spareggio con l’Inter nell’anno del doping, perché im­prevedibilmente schierò un ter­zino all’ala e i nerazzurri non ci capirono più niente. Oggi che si parla di «zona», si ignora che lui era la zona vera, nel senso che la praticava a seconda dell’evol­versi del gioco, come deve sem­pre essere. Lo ritengo il più grande cervello calcistico di tut­ti i tempi, perché ha avuto con­tro pochi avversari del suo valo­re come giocatore e forse nessun allenatore delle sue capacità, prima umane, poi tecniche. Chiese che i suoi ragazzi indos­sassero lo smoking e giocassero a bridge per via di una sottile opera di promozione individua­le che avrebbe acceso l’amor proprio anche del più rozzo. Una volta, durante una partita dello Sparta, lo implorai: «Fulvio, tu stai fermo e mi lanci palloni troppo in avanti, non ce la faccio a rincorrerli». Mi rispose: «Ma se sai soltanto correre, e sei soltanto giovane, che debbo fare? Correre io, che ho più di quaran­tanni, e palleggiare con te, che sai appena correre?». Alberto Marchesi ha scritto che Fulvio, ultimamente, scriveva quello che voleva dire, perché non riusciva più a parlare. Si è così spenta, in maniera disumana, la voce che ha predicato il calcio parlato più nobile che mai si sia avuto, il Pasquino della palla rotonda. Aveva innato il deside­rio, anche da anziano, di andare a «tirare due calci»: prima e dopo gli allenamenti, con qual­che volenterosa riserva. Da gio­vane al Parco dei Daini, poteva stare sul Campetto anche sei ore al giorno. Il vero calcetto lo ha inventato lui, su terreni ristretti, al coperto, financo allo Sferiste­rio di Roma, durante la guerra, cinque contro cinque, con le tribune piene, con la gente che puntava. Roma lo chiamò Gari­baldi, ma a Roma non ha potu­to esercitarsi completamente quale tecnico. L’Italia ha avuto in lui il più grande studioso, ma non lo ha mai voluto realmente Commissario Tecnico. Ho letto che ne hanno parlato in termini commossi e riconoscenti anche coloro che avrebbero accettato di buon grado il suo silenzio anticipato. Lo hanno voluto di­menticare in fretta approfittan­do del fatto che lui ha sempre preteso di farsi dimenticare. E oggi che in troppi hanno dalla loro parte un comodo alibi mo­rale, possiamo vivere in pace. L’ultimo calcio davvero azzec­cato di Fulvio è stato quello dato al mondo, un mondo che per lui non ha avuto un minimo di riconoscenza. Nessuna pau­ra, Fulvio, il vero modo di vivere era il tuo. Ci basta sapere che calcisticamente e tecnica­mente non ha avuto figli, perché in tutto era irrepetibile. Dome­nica scorsa il minuto di racco­glimento per le coscienze altrui è stato terribilmente lungo. Ad­dio Fulvio. Aspettaci.