Gianni Brera: lettere dalla Repubblica

Ecco una selezione delle migliori domande/risposta che Giuan ha proposto dalle colonne de “La Repubblica” nella seconda metà degli anni 80

MEGLIO IL FILM CON GLI INDIANI

Vorrei farle notare che sulla pista della tecnica televisiva, Canale 5 ha superato la Rai. Abbiamo avuto un magnifico esempio in occasione del Mundialito ’87: le riprese sono state molto spettacolari. E lei che calcio ha visto al Mundialito?

Lei vuole che io mi metta a nudo (se mettre à nu) come usavano i romantici ottocenteschi di seconda ruota? Ebbene, amico mio, lo faccio con voluttà: non perchè senta di esser bello: anzi, sono informe: una vera e propria ernia addominale: ma perchè fra corrispondenti è bene intendersi al meglio. Sono giunto alla fine della stagione calcistica trascinando i tacchetti come certi pedatori che so io. Il calcio mi usciva dagli occhi e dalle nari. Ero alla nausea più ributtante. Non sopportavo l’idea di veder calciare altri che i bambini (ad esempio i mie cari turchetti, costretti dalla madre musicomane a finger di suonare un violino e un violoncello per bambole). I professionisti mi davano il voltastomaco. L’idea di cedere alle lusinghe di Capitan Berlusconi, che pure considero un illustre amico, mi sgomentava letteralmente. Non sono mai andato a San Siro per il “mundialito”, neanche per vedere l’ennesimo e sprecato Milan-Inter. Quanto alle riprese del Canal Quinto (le Cinq!), mi son guardato bene dal disgustarmi. Ho sempre cercato di godermi film con gli indiani e non riprese di pedate senza voglia. La mi creda; e scusi tanto.

PIU' CHE RIVERA, VALENTINO MAZZOLA

Chi potrebbe battere, secondo lei, la seguente formazione (una nazionale italiana da Superga in poi): Cudicini, Burgnich, Facchetti, Trapattoni, Guarneri, Picchi, Domenghini, Schiaffino, Rossi, Rivera, Riva. Le regalo anche la panchina: Sarti, Bellugi, Tardelli, Mazzola, Prati. Allenatore Nereo Rocco; secondo: Cesare Maldini.

Posso accettare Cudicini per la misura con cui usava mettersi orizzontale e per l’effettiva intelligenza del suo gesto atletico. Non accetto Picchi: era un miracolo di buon senso tattico: comandava Guarneri come fosse un Robot: non valeva niente in acrobazia e aveva solo il destro. Guarneri è stato lo stopper meno feroce e più dotato ch’io abbia conosciuto: anticipava con guizzi felici: era coordinato come nessuno: staccava da grande acrobata: salvava Picchi e la difesa da situazioni anche disperate. Burgnich metteva i dentoni nel coppino dell’avversario e non li toglieva se non ad incontro finito. Non era uno stilista ma un duro. Picchiava e subiva le botte senza lagnarsi mai. Ho visto Riva piantarlo con una gomitata che gli fece saltare due denti: non disse beh. Seguitò a inseguirlo finchè non lo vide perpetrare tunnel a Sarti (il portiere). Facchetti non ha mai portato un tackle frontale: inseguiva l’ala premendola da sinistra e toccando in cut con l’esterno destro. Era un difensore sbagliato. La sua fama era fondata sui progressivi da grande velocista (non ho scritto scattista!), sui traversoni e sui gol. Trapattoni era incontrista principe, tenace, corretto, generoso. Non aveva la battuta del campione. Schiaffino è rimasto nella mia memoria come uno dei massimi facitori di gioco mai conosciuti: ogni suo appoggio accendeva la luce. Giocava benissimo in difesa e in attacco: quando occorreva sapeva anche goleare (benchè l’abbia visto sbagliare due volte la palla del 3-2 con l’Ungheria nel 1954 a Losanna). Rivera era dotato di grandissima eleganza. In certe pose di attesa ricordava il David di Michelangelo. Batteva il destro con sublime nitore. Aveva il tiro forte, non potente. Non correva al recupero con la dedizione necessaria. Costruiva da lontano con efficacia rara. Vicino a Pepe Es ciafin avrei messo più volentieri Valentino Mazzola. Rivera l’avrei tenuto per l’estrema destra come Conti, fantasista magnifico. Con Mazzola padre, sarebbe stato inutile un cursore come Domenghini. Al posto di Rossi, secondo avversari, avrei voluto Piola, che non aveva paura ed era più acrobata di lui. Poichè si è guardato dal dimenticare Luis Riva da Leggiuno, il più forte attaccante mai prodotto dal calcio italiano la perdono di aver dimenticato un libero come Parola e un grande, grande jolly come Peppin Meazza. Dalla panchina toglierei subito Tardelli per vederlo giostrare in centrocampo. Reso il debito omaggio a Cudicini, fra i pali vorrei subito Zenga. Accetto quali allenatori sia Rocco sia Maldini, due cari amici triestini. E qui saluto.

L'HO CRITICATO ED AMATO

Caro Brera, ho rivisto Milan-Ajax e Milan-Benfica, seguendo quel programma del lunedì sulla terza rete. Devo essere sincero: mi son chiesto come lei possa aver criticato, non dico perseguitato, per anni Rivera. Mi è parso splendido, impeccabile, un autentico campione, soprattutto rispetto ai brocchi che popolano oggi i nostri campi.

Avrò criticato Giovannino Rivera cinquanta volte e lodato cento (come minimo: ma forse sono troppo severo con me stesso). Non fosse stato grande, Rivera non mi avrebbe dato la minima noia: non mi sarei accorto di lui come non mi sono accorto di mille e mille mediocri visti in giro per il mondo. Giovannino era un po’ la mia Lesbia. Non si spaventi. Catullo, mio poeta latino preferito, aveva un’ innamorata con quel nome. Come giornalista sportivo io ho avuto Giovannino: e bastava il suo minimo sgarro per infuriarmi. Avrei voluto che conservasse il suo stile armonioso e disponesse invece di un dinamismo paragonabile a quello di Mazzola padre. Avrei voluto recuperasse per giovare alla difesa come sapeva Schiaffino e anche, non dico piaggeria, il figlio maggiore del citato Valentino Mazzola. Giovannino innamorava di sè tutti coloro che, amando il calcio, non stavano a ragionarci troppo. Molti ingenui milanisti mi tacciavano di disonestà perchè, elencandone i pregi, osavo anche citarne i difetti: non consideravano, ciechi com’erano, che per dire sempre quanto pensavo facevo perdere molti lettori (forse loro stessi) al mio giornale. Ho visto di Rivera molte partite gloriose. L’ ho visto anche soffrire virilmente il giorno di Italia Corea a Middle Sbrò: in quella sciaguratissima partita, fu lui solo a salvarsi per insolita dedizione e spirito di sacrificio (una prova di riconoscente amicizia per Fabbri, tanto scalognato). Nella indimenticabile baraonda di Italia-Germania, ai mondiali 1970, Minerva gli raccolse spudoratamente la lancia come aveva fatto con Achille nel duello contro Ettore, sotto le Porte Scee. Fu il peggiore in campo e causò anche il 3 a 3 per i tedeschi: scappò da Albertosi, che voleva strozzarlo, e seguì mestamente a distanza l’ultimo attacco portato “alla muerte” da Bonimba nostro e grande: il portiere tedesco si aspettava un cross di Bonimba da sinistra e stava sul secondo palo: il mantovano folle traversò basso all’indietro per diretto intervento di Minerva: su quel pallone astruso si trovò il derelitto e ritardatario Rivera: battè di piatto destro verso il primo palo, dove il portiere non era: e fu 4 a 3. Un vero trionfo. I compagni schiumarono rabbia e non lo vollero in finalissima facendo il proprio male. I due più forti centravanti del mondo, Riva e Bonimba, invano attesero un lancio dai nostri azzurri ciucchi di fatica: li avrebbe potuti fare Giovannino, ma la scandalosa protezione di Minerva aveva offeso i suoi compagni, che lo vollero solo in panchina… Per dirla schietta, Rivera giocò un mostruoso campionato nel ’66-67, per farsi perdonare i disastrosi mondiali d’ Inghilterra: purtroppo, aveva una sola punta, Sormani, e tutti i suoi lanci erano prevedibili: quando venne anche Prati, le punte furono due e Giovannino raggiò calcistico genio portando il Milan allo scudetto. In panchina stava Rocco il Grande, il cui modulo si ispirava alla Maginot. Nelle partite che Lei ha visto, Rivera è stato al solito determinante. La tv riporta sempre le cose grosse. De minimis non curat retor. E neanch’io.

IL FRATELLO DI DIEGO

Caro Brera, hai mai visto giocare il fratello di Maradona? Se non avesse quel cognome, oggi sarebbe in Italia, a guadagnare contratti? Non diamo forse un altro esempio di provincialismo (per non dire peggio)?

Caro amico, Diego Armando Maradona impone drasticamente il proprio volere a chi abbisogna della sua arte sopraffina. Non dobbiamo stupire di nulla. Quando il conte Walewsky si accorse di aver fatto carriera perchè sua sorella frequentava il letto assai poco esaltante di Napoleone I, ne approfittò… solo per esaltare l’arte sublime di Greta Garbo: non mi risulta che abbia buttato alle ortiche la greca di generale. Hugo Maradona ha avuto la fortuna di nascere nella stessa tana gloriosa di Diego Armando. Ha giocato a calcio come è imperativo categorico di ogni argentino con antenati “criollos” e si è destreggiato così bene da arrivare alla prima squadra dell’Argentinos juniors. In prima squadra ha giocato anche se il maggiore fratello era emigrato e nulla più gli dovevano a Buenos Aires. Io ho visto Hugo in un “mundialito” organizzato da capitan Berlusconi a Genova. Se debbo dirgliela, lo stile di Hugo mi è sembrato più ortodosso che non sia quello del fratellone. E’ chiaro che lo stile in sè conta poco se non lo sorregge ed anima l’invenzione: e qui Hugo non mi ha proprio incantato. Però, ripeto, non mi è sembrato una sverza quale aspettano di vedere in lui i malevoli.

LA SALVEZZA 'ETERNA'

Caro Brera, la lotta per la salvezza è sempre uno dei temi più appassionanti del campionato. E’ una lotta dura, da poveri cristi, una lotta disperata che si decide, spesso, all’ultimo minuto dell’ultima partita. Non le sembra invece ridicola, patetica, assurda (mi perdoni la domanda, un po’ “forte”, ma la sua superba penna saprà come cavarsela; e poi vorrei conoscere le sue idee in proposito) la lotta per la salvezza eterna, per conquistarsi il paradiso, per garantirsi il “posto al sole”? Non è questa, come diceva un filosofo francese, Francis Jeanson, “la forma più bassa di salvezza, quella che consiste precisamente nel salvarsi”? Salvezza, dannazione, paradiso, inferno: non sono parole troppo grandi per un uomo? E poi: se Dio esiste, non può che essere un Dio d’ amore, di misericordia, di comprensione, di compassione. E allora, come può condannare, come può non perdonare?

Ho sempre pensato che i marchigiani fossero matti. Per questo forse mi piacciono (e naturalmente venero il grandissimo Gobbo di Recanati). Però Lei esagera, amico mio: ragiona da ascolano e considera divertenti le lotte (quasi sempre vinte da Costantino Rozzi) per non retrocedere in serie B. Poi, con mia sgradevole sorpresa, trova assurda la lotta per la “salvezza eterna”, declassando quasi a pedatoria l’aspirazione dell’uomo a non precipitare nella infuocata serie B dell’inferno. Francamente, mi debbo dire seccato dell’accostamento fra calcio e coscienza religiosa, fra pedata e morale. Sono impreparatissimo a risponderLe. In fatto di religione, sono del tutto agnostico. Mi sono trovato cattolico perchè, nato da sette giorni, mi hanno portato in chiesa ed esposto alle abluzioni del parroco don Valentino Busi. Girando il mondo, forse a causa del nasotto ricurvo ma più sicuramente per la forma mentis amarga y loca mi sono sentito domandare spesso se non fossi ebreo. La domanda mi ha sempre fatto molto piacere perchè considero gli Ebrei addirittura più importanti dei Greci nella storia dell’umanità. Con gli anni, mi sono accorto che aveva ragione l’inglese secondo il quale è molto facile passare per imbecilli: basta parlare di religione e soprattutto discuterne. Quando a suo tempo mi sono chiesto il perchè della adozione di un Paradiso e di un Inferno, ho trovato una risposta che ritengo abbastanza fondata sul buon senso, non dico proprio sulla Ragione. Se uno vive correttamente bene, gli elementi che lo compongono si mantengono puri e possono tornare nella parte eletta del cielo; se vive male, e contrae morbi infetti, gli elementi costitutivi si corrompono e fatalmente precipitano nella Gehenna. Per semplicistica che sia, è questa una spiegazione abbastanza logica. Naturalmente mi ha aiutato la dottrina degli stoici, alla quale si è pure ispirato il Cristianesimo. Di più non le saprei dire. Che uno si sforzi di vivere bene, commettendo il minor numero di peccati possibile, mi sembra molto bello. E se uno vive male mi sembra da compiangere. Molte volte mi sorprendo ad avere una dolce pietà di me stesso.

TROPPE BOTTE IN CURVA

Sono un tifoso pentito che non va più allo stadio. Ho preso troppe botte in curva e non ho più voglia di riprovarci. Aspetto di avere i soldi per trovarmi un posto numerato. Io credo comunque che la violenza sia inestinguibile in uno stadio. Ci sono troppi deficienti per poterla vincere. L’ unico modo è il mio: restare a casa. Lei che ne pensa?

Io penso che Lei debba fare come crede meglio. Andare allo stadio non è sempre un’ avventura come vogliono farci credere i cronisti di nera. Provi a starsene cheto e a non ficcare i gomiti nelle costole del vicino; provi a non sfottere la squadra che subisce (quella del suo vicino grande e grosso). Ammetto che l’agonismo ludico esercitato in campo si trasmette fatalmente agli spettatori. Il pollice verso non è un’ invenzione sadica: è una partecipazione naturale al gioco, ancorchè cruento e selvaggio la sua parte. Così gli sfottò, gli evviva le invettive le deplorazioni: chi parteggia non può pretendere di non essere avversato dalla fazione opposta: lo può se non collabora al rito ludico con la sua parte di agonismo verbale o addirittura pugilistico. Dice che parlo come un libro stampato? Sarà, ma pare a me che sulla violenza negli stadi si esageri un tantino. Chi va allo stadio per litigare usurpa il titolo di sportivo e, soprattutto, non merita neanche un rigo di cronaca: se il violento cretino si vede puntualmente celebrato dalle cronache giornalistiche, alla lunga finisce per sentirsi protagonista, e inciprignisce nel vizio per semplice amor sui. La bestia umana è molto complicata. Nella felice Italia si ammazza un uomo al minuto: che i morti allo stadio siano un paio all’anno mi sembra, tutto sommato, un fatto meraviglioso.

LIEDHOLM SI' O LIEDHOLM NO?

Caro Brera, è capace di dare una risposta chiara e semplice, soprattutto definitiva a questa domanda: Liedholm sì o no? In altre parole lei lo terrebbe o lo inviterebbe a passare la mano? E quando Berlusconi dice che tutti gli acquisti sono stati fatti su suoi suggerimenti lei ci crede? Come è possibile che Liedholm abbia chiesto Galderisi eppoi gli preferisca Virdis, oppure gente come Massaro e Donadoni che sono l’opposto del gioco corto che lui ama?

Io non licenzio nessuno, neppure Lidas, che è già ricco. Il Milan è vecchio, lento, noioso da molto tempo. Pare che nelle ultime sette partite abbia realizzato un punto. Capitan Berlusconi ha cercato di cambiare spendendo molto ma, come scrivo da quasi mezzo secolo, il calcio è un mistero agonistico. Le squadre escono da fusioni imprevedibili: due brocchi da tempo insieme possono rendere più di due assi accozzati male, ecc. ecc. Io non so dirLe se Galderisi l’abbia voluto Lidas o se abbia stabilito di prenderlo Berlusconi per sistemare Paolo Rossi. E’ anche inutile, ormai, recriminare. Il Milan ha perso due partite che gridano vendetta al cielo, con Ascoli e Verona. Avrebbe potuto pareggiarle entrambe. Fortuna ha voluto diversamente. Fossi Berlusconi, chiederei a Capello di reimpostare la squadra secondo marcature miste, a uomo e a zona: l’intelligentissimo Lidas benedirebbe l’intervento discreto del diacono e capirebbe di doverne incoraggiare l’attività, ben più convinta e decisa. Il brutto di noi vecchi è la certezza che non si possa affermare nulla in assoluto, neppure a sfavore delle crostate. Io dunque accenno a questa ipotesi interna e nego che la zona convenga al nostro calcio: fra le sue pieghe, i furbi italiani si ficcano irridendo e nessun difensore è così generoso da soccorrere il compagno in pericolo. Vi riusciva un tempo il bergorusso Vierchowod: adesso, anche lui deve pensare a se stesso… Non foss’altro che per giustificare i propri glutei sulla panchina, Capello provvederebbe a render più fitta e quindi assai meno fiduciosa la retroguardia rossonera. Di lì, verosimilmente, incomincerebbe la ricostruzione della squadra. Sono ancora in palio 56 punti in totale e 26 nel girone di andata. Perchè disperare? (Questa risposta è stata inaspettatamente “invecchiata” dall’ultima discesa in elicottero di Capitan Berlusconi a Milanello. Io resto comunque sulla mia, e aspetto l’Atalanta con legittima suspicione).

IL MIO ARTICOLO SU RE PUMA

Caro Brera, il suo articolo su Maradona mi trova d’accordo solo in parte. L’ argentino è un calciatore sublime, arrivato, ma un uomo pubblico fallito. Preferisco Pelè, Sivori, Di Stefano, Beckenbauer, Zoff e tanti altri. Cosa avrebbe scritto se Maradona, oltre che nato, fosse vissuto povero?

Lei mi costringe a rintracciare il numero di Pasqua in Repubblica: il mio personale debbo averlo lasciato nella casa al lago (il vago Eupìli del Parini), dove sono tornato per riunire i nipoti. La storia di quell’articolo su Maradona è abbastanza singolare (per me). Era sabato ed io stavo dilavando le mucose della bocca, ingrommate di fuliggine da sigaro e da pipa, con il solito mezzo litro di tè: la donna mi portò il telefono: all’altro capo, Giuseppin Smorto a nome del direttore: voleva un pezzo su Maradona. Debbo già andare a San Siro tentai di oppore . Non importa: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare. Era un’ingiunzione dispotica ed io non stetti a discutere. La dannazione del mestiere è che certi ordini, pur tanto faticosi, ti lusingano. Così saltai sotto la doccia e tentai di connettere: per solito mi sveglio nelle prime ore del pomeriggio: qui dovevo smentire la mia indole di vagotonico: ficcarmi la penna dove non dico e scrivere le tre pattuite cartelle prima dell’una: trasmetterle via fax e poi correre al ristorante e a San Siro per Milan-Torino. Ora, cos’abbia scritto di preciso non ricordo. So che la prima intuizione è stata quella di paragonare gli analisti dell’anti-doping agli inquisitori di nefanda memoria cattolica. Poi debbo essermi spiegato la voglia di droga con l’impellenza di uscire dalla costrizione dell’ agonismo professionale. Ho rivisto Diego giovincello di amara fisionomia criolla, cioè india; e ho spropositato di aver preparato per lui il neologismo pestipedatore prevedendo le fulminee intuizioni delle sue piote da leone andino (il puma). Infine è venuta Napoli, sempre tenera con i suoi Masanielli da ammorbidire; la notte di Napoli, il lupanare, la droga. Con qualche ipocrisia, mi piccavo di scusarne i peccati enumerandoli minuziosamente. Alla fine concludevo in debito di gratitudine. Toglievo la terza cartella dalla mia studio e la passavo al fax. Intimamente non avevo la forza di condannarmi. La prosa aveva giusta tensione (mi pareva). Solo, non potevo sapere se al giornale avrebbero gradito quel punto di vista. L’ hanno gradito. Ora lei mi cita insieme caballeros e staffieri, preferendoli in blocco a quel reprobo insigne. Io prendo atto di come la pensa Lei e mi limito a dirLe che, se fosse rimasto povero come era nato, Maradona non sarebbe pervenuto alle cronache se non ammazzando un vescovo: e parlarne sarebbe toccato ai colleghi di nera.

GLI SCRITTORI E LO SPORT

Perchè c’è sempre stata poca letteratura intorno a un fenomeno diffuso come lo sport? Perchè il giornalismo sportivo ha espresso solo uno scrittore, Gianni Brera?

La letteratura è una, sia che si rivolga all’ amore sia ai delitti, alle avventure, allo sport. Un tempo le imprese sportive erano propriamente epiche e riguardavano gli eroi. Omero è stato il primo grande scrittore sportivo. Poi l’ Ariosto, il Tasso. Ma la grande poesia ha smesso di celebrarne gli eroi quando lo sport è diventato muscolo e professione, gioco e non più eroismo in toto. I primi a inventare in materia di narrativa ludica sono stati gli americani. Lo sport era anche vita al loro paese: e lo slang si addiceva alle nuove celebrazioni. In Italia, scarsa la letteratura e volgare (diciamo pure proletario) lo sport. Eroismi ne hanno compiuti millanta i protagonisti del ciclismo e del pugilato: ma il rischio di narrarli era poco allettante. Bartali che crede nell’ aiuto costante del buon Dio e insegue pregando Santa Teresa del Bambino Gesù è un autentico eroe che unisce l’ epica al misticismo. Però le preghiere sono sempre quelle, come le pedalate. Coppi arricchisce un tantino più la materia narrativa aggiungendovi tribolati amori di adultero. Pugili capaci di attingere il dramma non ve n’ è che in senso passivo (per esempio Mitri, amaramente sbeffeggiato in Usa). Degli automobilisti dovresti raccontare anche i vizi orrendi (la droga di antichi campioni oggi defunti). Lo sport ha sempre interessato chi non aveva strumenti adeguati a celebrarne le note. I narratori autentici si acculavano per la vita maneggiando l’ alfabeto come una innocua fionda. Un giornalista-scrittore come Manlio Cancogni è andato dietro a Pimlico, un cavallo che non poteva sognarsi di ripetere la romantica vicenda di Adolphin Barb o come si chiamava (dalla reggia di Luigi XIV alla carretta di un lattaio parigino: lo compra un Lord e lo usa per eccitare le cavalle in attesa della monta: lui si innamora di una e non vuole cederla allo stallone designato: il Lord ha l’ intuizione di lasciarlo lottare: Adolphin vince e dà luogo a una nuova trionfante linea di sangue). Altri giornalisti hanno tentato la letteratura. Uno sciagurato che lavora al Coni con Fiammetta Scimonelli ha pure pubblicato un’ antologia di scritti sportivi nella quale gli autori più rappresentati sono lui ed Omero. Di mio – con esemplare disonestà – ha pubblicato solo una breve registrazione palabratica. So che Totò Ghirelli ha tentato un romanzo pedatorio maneggiando benissimo la lingua, non so con quanta credibilità calcistica. Io stesso debbo confessarLe qui che per un giornalista scrivere d’ invenzione è sempre un lusso. Lo rifarò da vecchione, se ne avrò il coraggio e la voglia. Sono dunque fermo alla “Pavesi Story” (ciclismo pionieristico) e a “Coppi e il diavolo”, che Sergio Pautasso ha voluto gabellare per romanzo, non so quanto a ragione. Per non farLe un altro romanzo sull’ unghia, qui chiudo augurandomi che Eupalla, undecima Musa, ispiri qualche autentico artista, ovviamente più giovane di me e di Luisin Gianoli, autore – se Lei non sapesse – di un pregevolissimo romanzo intitolato “La vergine a cavallo”.

LA MAGINOT DI NEREO

Caro Brera, la fama di Nereo Rocco fu pari alle sue reali capacità di allenatore di calcio? Oggi un tecnico come lui sarebbe ancora in auge?

Queste domande sono perfettamente lecite in un giovane che non abbia mai avuto occasione di vederlo e conoscerlo. In effetti il povero Nereo si era andato via via costituendo una personalità di notevolissimo piglio. Aveva l’ aspetto rude e burbero ma il suo umorismo toccava punte di sorprendente efficacia: e non v’ è nulla più dell’ humour che testimonii la qualità d’ una intelligenza. Teneva i piedi posati per terra e, se faceva sogni, se li godeva per conto suo, senza mai abbassarsi a confessarli pubblicamente. Aveva il genio delle public relations e delle relations di spogliatoio. Dopo ogni incontro prendeva anche lui la doccia perchè non gli scappasse nulla degli umori – buoni e cattivi – manifestati dai suoi calciatori. Dalle accuse reciproche e dalle argomentazioni portate a difesa si rendeva perfettamente conto di quanto bollisse in pentola, adottava comportamenti e provvedimenti quasi sempre dettati dal buon senso e dall’ interesse proprio della squadra, anzi della società. Era giunto al cosiddetto catenaccio evolvendo il metodo a W, che già contemplava due terzini d’ area ma non le marcature a uomo. Nessun critico se ne accorse allora per la quasi generale impreparazione dei critici. La sua Triestina si classificò seconda impiegando Blason in seconda battuta (l’ attuale libero), ma l’ Inter comprò Blason come numero 2 e quindi lo mandò a fare il terzino d’ ala. Pare incredibile, ma anche Vittorio Pozzo fece qualcosa di simile con Malinverni. Il Modena applicava il metodo (con Braglia secondo terzino) e nessuno se ne accorse. Malinverni giocava sull’ ala come i terzini del WM: ma portando il numero 4, venne impiegato quale centrocampista nella nazionale, che ne prese 5 al Prater dalla mrtodista Austria. E sfido! Rocco era convinto delle proprie teorie tattiche (che erano anche le mie): vinto lo scudetto col Milan nel ’62, dovette subire prima i siluri nascosti e poi le aperte contestazioni di Viani, che per mero opportunismo si diceva contrario – adesso – al “caccatenaccio”. Rientrando insieme da Udine, Rocco ed io, Viani ci invitò a Nervesa e sull’ auto non fece altro che scongiurarci di rinunciare alla nostra intransigenza difensivista. Rocco ed io lo sbugiardammo quasi con insolenza e il poveruomo desistette. Evidentemente era geloso del trionfo anche ideologico di Rocco. Il quale poi dovette emigrare dal Milan (Viani aveva lavorato da par suo Rizzoli) ma vi tornò per vincere uno degli scudetti più belli, nel ’68. Fu allora che inventò la Maginot: due punte, un’ ala destra di sostegno, un perno centrale (Rivera), una linea di 5; un libero; il portiere Cudicini. La palla riconquistata dalla Maginot veniva appoggiata a Rivera, che poteva aprirla sulla destra (Hamrin) oppure lanciarla a una delle due punte (Prati e Sormani). Se avessimo gli uomini adatti, quel modulo potrebbe portare molto lontano anche la nazionale di Vicini. Questo Le dica quanto anche oggi sarebbe attuale e à la page il mio indimenticabile amico Nereo Rocco da Trieste.

I PICCOLI PORTIERI

Caro Brera, noi gente di mare apprezziamo due cose: la concretezza e il buon vino che, è risaputo, giace quasi sempre nelle botti piccole. Ho visto spesso dei piccoli portieri quali Maier, Bento e Buyo parare proprio di tutto e mi sono chiesto se poi l’ equazione portiere=alta statura sia esatta. Vorrei quindi conoscere la sua opinione in merito e sapere se, anche nel passato, ci sono stati analoghi interpreti, bassotti, ma concreti. Mi stia bene, anzi benone.

Mi pare che non si possa generalizzare in questa materia: vi sono giganti capaci di mettersi in volo come Zenga, di piazzarsi come Jascin, di tuffarsi su palle basse come quel grande e completo portiere che è maturato nel Milan in età ormai avanzata: Cudicini. Va da sè che il piccolo è agile molto più del giagnte: però ciascuno ha i suoi pregi: il piccolo arriva male sulle palle alte, e il gigante non bene sulle basse. Io credo di poter garantire che, facendo una media sui migliori, la statura ideale per un portiere non dovrebbe essere inferiore ai 180 cm. Conosco tuttavia due assi che hanno goduto di grande fama negli Anni Venti e negli Anni Trenta: il primo era Giovanni De Prà del Genoa, il secondo era Planicka della Cecoslovacchia. Entrambi erano alti la miseria di 173 cm. però volavano letteralmente da un palo all’ altro. Giovanni era anche eroico nelle uscite, che gli debbono essere costate un paio di commozioni cerebrali. Planicka, lui ha giocato due mondiali da tuoni e fulmini, nel ’34 e nel ’38: contro il Brasile, nei quarti del ’38, è riuscito a finire l’ incontro con un braccio fratturato. Io adoravo Giovanni e ammiravo Planicka, il cui prestigio era mondialmente riconosciuto.

I GOL DI PIOLA

Signor Brera, non Le sembra che le squadre italiane in questi ultimi anni tendano a liberarsi facilmente di calciatori che avrebbero potuto ancora dare il meglio, vedi Tardelli, Antognoni e tanti altri. Hamrin, Altafini, Boninsegna, Clerici, Canè, Sormani e tanti altri hanno terminato la carriera a 36-37 anni giocando a buoni livelli. Vorrei ricordare Silvio Piola, convocato in nazionale per Italia-Inghilterra a 39 anni.

Ella è ingenuo, signore. Più resta in una squadra, e più un giocatore viene a logorare i propri rapporti con dirigenti, tecnici e tifosi. I casi che Lei cita sono eloquenti; quello di Piola è addirittura straordinario. Il lomellino-pavese Piola è cresciuto calcisticamente a Vercelli, è stato sottratto all’ Inter dai pariolini fascisti, ha vinto di prepotenza la guerra con i brasiliani della Lazio, è andato alla Juventus e, ceduto per limiti di età, è finito secondo Meazza ad imparare il calcio in quella che per secoli era stata la capitale della Lomellina: Novara. Meazza viveva nel culto di se medesimo e detestava Piola che, rozzo di piede, segnava gol strabilianti entrando là dove lui non osava. A Novara, Silvione era rallentato dagli anni e dal fango: nessuno trattava la palla come lui. E quel grande sentimentale di Carlino Beretta finì per convocarlo in azzurro a 39 anni. Piola avrebbe anche segnato, a Firenze, con gli inglesi, se non avesse colpito Cappello sulla capa: il patavin-bolognese transitava in quei pressi, smarrito e tutto fuori dagli schemi. Il caso ed Eupalla fecero sì che al grande Silvio venisse meno l’ ultima soddisfazione, sicuramente meritata, anzi meritatissima.

DICO TUTTO SULLA ZONA

Seguo spesso le sue rubriche, mi piace il suo stile. Ma perchè ce l’ ha tanto con la zona? Mi risulta che il Brasile, da lei spesso bistrattato, abbia vinto tre titoli mondiali giocando a zona; che il Liverpool o l’ Ajax abbiano vinto molte Coppe, subendo pochissimi gol. Ho anche notato questo: quando una squadra che gioca a zona prende un gol, lei dà subito la colpa al modulo. Quando una squadra che gioca a uomo prende un gol, lei non si lamenta.

La Sua arguzia mi piace: non per altro cercherò di convincerLa che la zona non è adatta agli italiani. Ho incominciato a sentirne parlare l’anno in cui Pedro Amaral, istruttore ginnico dei brasiliani, allenava la Juventus. Già il suo ingaggio mi aveva profondamente umiliato per la disposizione che hanno tutti gli italiani, perfino Giovanni Agnelli, a farsi colonizzare. Proprio don Giovanni aveva ingaggiato a Cardiff un pizzardone, tale Carver, trasformandolo in tecnico. La Juventus vinse lo scudetto del ’50 facendo intere partite con il catenaccio ma nessuno in Italia se n’ è accorto, neanche Carver. Le sembra enorme? Lo chieda a Giacometto Mari, mio paìs di riva sinistra, e anche a Carlo Parola, che imponeva a Giacometto di tenergli il centravanti: il posto di Giacometto, in linea con Piccinini, veniva occupato da Martino: il posto di Martino dalla finta ala Muccinelli. Torniamo a Pedro Amaral. Va a Marassi e vi incontra la Sampdoria allenata da Ocwirk, austriaco intelligente. Don Pedro schiera quattro terzini in linea: i due centrali sono Castano, grandissimo giocatore, e Salvadore, dai grandissimi piè. Ocwirk manda sui due terzini centrali della Juve due che li marcano e induce le proprie ali a sgusciare fra i terzini laterali della Juventus e i terzini centrali, già occupati… a farsi marcare, quindi impossibilitati a correre sulle due ali sampdoriane. Don Pedro ha preso sonorissima battuta a Marassi ed io ho finito di convincermi che la zona “assoluta” fosse pura follia. I brasiliani hanno adottato il catenaccio (o yes) nel 1957, dopo averle buscate a Lima dagli argentini “angeles con la cara sucia”. Feola l’ha imparato da Guttman, che veniva – fuggiasco – dall’ Italia: a Milano aveva investito e ucciso due bambini: il buon Deseo Solti era andato in prigione per lui, che avrebbe dovuto dargli e mai gli diede 20.000 dollari. Guttman fece catenaccio nel San Paolo e vinse lo scudetto. Feola ordinò ai due Santos, già terzini allegrissimi, di tenere il loro posto e non andare più al cross come usavano nel mondiale ’54: poichè Djalma era poco convinto, Feola lo fottè di fuori e lo sostituì con De Sordi, più ligio alla consegna. In centro area, Feola dispose Orlando e Bellini; ciascuno dei due entrava primo in tackle a seconda della provenienza dell’ avversario con la palla. In centro campo Didi e Zito, bloccatissimi come i terzini. All’ala sinistra, Zagalo, che arretrava al centrocampo et ultra. In attacco, l’ala destra Garrincha, Vavà e Pelè. Squadra bloccata su equidistanze ferree. Il solo a flottare, verticalmente, Zagalo. Questo gioco aveva fatto nel ’56 la Fiorentina di Bernardini senza che se ne accorgesse il dottor Pedata, chiuso chiusissimo a qualsiasi concezione calcistica che non fosse la sua. Lo Zagalo della Fiorentina era Prini, ala sinistra, che liberava il terzino Cervato. Ad aiutare lo stopper arretrava anche Giuseppone Chiappella e sulla linea di Segato, mediano sinistro, arretrava Gratton. Montuori, interno sinistro avanzava a smarcarsi in diagonale sulla destra: Virgili si portava via i difensori avversari e Julinho, giocando ala destra arretrata, pure si portava lontano il terzino sinistro. Montuori segnava assai. La becera presunzione di Bernardini si rifiutò allo studio del modulo, brillantissimo, che si era via via creato sotto i suoi occhi. Lo stuolo dei giornalisti ignoranti ne fu lietissimo: salvo poi additare ad esempio il Brasile del ’58. Io ero esterrefatto della stupidità dominante. La ritrovavo in tutta la storia patria: e nel calcio veniva moltiplicata dal labile susseguirsi delle immagini (o schemi o quel che cavolo vuole). Guttman dovette emigrare per applicare un modulo con due difensori centrali. Foni vinse due scudetti con l’Inter a catenaccio (specie il primo) ma poi andò in nazionale e non potè rifarlo perchè il catenaccio era il diabbolo: così restammo a casa dai mondiali ‘ 58. Mi venivano in mente i preti secenteschi di Brianza i quali diffidavano dal mangiar patate, perchè quei bulbi crescevano sotterra e dunque erano frutti del diabbolo. In Italia s’incominciò a toccare terra nel ’60, quando Viani e Rocco vennero chiamati a formare la squadra olimpica. Il primo modulo originale italiano è stato varato da Bearzot nel ’78: gli è nato sotto gli occhi per caso, dopo aver incluso Rossi e aver dato a Causio e Bettega la facoltà di aggiungersi al centrocampo. Che adesso Bearzot prenda tanti quattrini senza fare pressochè nulla è perfettamente giusto. Bearzot è anche addivenuto alla conclusione logica di applicare la zona e la marcatura a uomo contemperandole (in teatro si parlava di contaminatio fra commedia greca e romana), di modo che si adeguassero meglio alla natura e al gioco degli avversari. Lei non m’impaccia affatto quando mi rimprovera di addossare alla zona la colpa d’ un gol preso e di prenderne solo atto quando il gol lo prende una difesa che marca a uomo. Che dovrei dire? Se anche marcando a uomo si prendono gol, inutile far commenti di sorta. Su alegher.

LO STADIO PIU' BELLO

Caro Brera, ammesso e non concesso che il valore dello sport dovrebbe essere quello di diminuire la forbice fra protagonisti e spettatori, com’ è possibile autorizzare la costruzione di un terzo anello allo stadio di San Siro? Già dal secondo anello (i vecchi “popolari”) non è possibile valutare il gesto atletico, il fallo di gioco, l’ eventuale “debito d’ ossigeno” del calciatore.

Perchè Ella è così riduttivo sui valori dello sport? La parola (e il fenomeno) è troppo vasto perchè si possa limitare alla miseria d’ un rapporto fra posaglutei e giocatori di calcio in azione. Lo stadio di San Siro dedicato alla memoria di Peppin Meazza è forse il più bello e razionale di tutto il mondo pedatorio. Se hanno deciso di dotarlo d’ un terzo anello, segno è che la cosa è indispensabile. Io ho conosciuto San Siro quando aveva spalti di cemento sui quattro lati, senza i raccordi delle curve: mi sembrava il massimo (parlo dei primissimi anni trenta). Poi riunirono i lati e peggiorò il terreno di gioco: l’ aria non circolava come prima: la pelouse era inesistente: ricordo di aver battuto una punizione dal limite dell’ area antistante la porta del freddo (sud-ovest) e di esser caduto lungo disteso per l’ assoluta impossibilità di fissare a terra il piede di appoggio. In seguito venne costruito il secondo anello. Lo stadio mi parve bellissimo, con le salite ai posti come rigature d’ una chiocciola prodigiosa. San Siro era soprattutto bello e fascinoso di notte, quando le molte luci ne facevano un favoloso transatlantico in navigazione sul vasto e buio oceano. Il solo inconveniente dello stadio era rappresentanto dalla ripidezza degli spalti, che consentiva ai teppisti di combattere arbitri e giocatori ospiti senza faticare più che tanto nel lancio in quota. Adesso viene costruito un terzo anello. Ho intravisto il progetto. Prevede torri angolari ai quali si attaccheranno i nuovi spalti. La capienza aumenterà tanto da consentire maggior comodità agli spettatori. Evidentemente gli architetti si sono ispirati al funzionale. Il vecchio e superato concetto dell’ edificio monumentale è stato scartato: sulla bellezza prevale la praticità. E che dio ce la mandi buona. Quanto alla possibilità di seguire i gesti degli atleti e di valutarne gli eventuali debiti di ossigeno, non sia ingenuo (il Suo stile mi sembra escluderlo d’ acchito): in nessuno stadio si vede il calcio meglio che a San Siro. Il gesto atletico appare qual è perfino sullo schermo piccolo anzi minimo della Tv: e se un giocatore è sfiatato, basta aver un minimo di pratica sulla corsa e sul controllo di palla per rendersene conto al meglio. Aspettiamo dunque fiduciosi il nuovissimo teatro pedatorio di Milano e auguriamoci che qualcuno (io penso a Capitan Berlusconi) si decida finalmente a iniziare la costruzione di uno stadio olimpico. Milano ne ha urgente bisogno.

BERGOMI RESTI TERZINO

Egregio dottor Brera, siamo un gruppo di sostenitori interisti di Firenze. Dopo essere uscito dalla Coppa Uefa e dalla lotta per lo scudetto, Trapattoni ha sciolto il dualismo Scifo-Matteoli a favore del primo. Dato che attualmente il centrocampo è in fase sperimentale, proporremmo al Trap l’ avanzamento di Bergomi nel ruolo di mezzala a sostegno di Scifo. Infatti Bergomi possiede la potenza fisica e la caratura tecnica che, insieme alla velocità e alle doti realizzatrici, rappresentano, a nostro parere, le caratteristiche tipo per la mezzala moderna. Gradiremmo un suo autorevole parere in merito.

Cari amici, ho il sospetto che il vostro amore, come sempre accade, mortifichi la logica. Non è il caso di parlare d’ innatismo a proposito della professione pedatoria, però ci vai molto vicino se affermi che terzini d’ ala e difensori si nasce, così come si nasce centrocampisti o uomini di punta. Zio Bergomi, colossale specimen bassaiolo, era già da nazionale a 17 anni: e dopo un anno ha giocato la finale di Madrid cancellando Kalle Rummenigge (mi pare) dalla faccia della terra. E voi vorreste ora convincerlo a lasciare la maglia sicura per quella assai più problematica, labile, incerta, evanescente, indefinibile di centrocampista? Accetterebbe solo se a convincerlo contribuisse gente di grande carisma tecnico e almeno un miliardino di giunta sull’ ingaggio annuale. La mia casistica è abbastanza debole in proposito ma, se non vado grossolanamente errato, nel calcio succede quasi sempre il contrario: sono gli attaccanti a cambiar vocazione e mestiere passando ai ruoli arretrati. Cito due ex ali famose: Foni e Cabrini.