Gianni Brera: “…caro, vecchio Nereo…”

Nereo Rocco è stato più di un amico per Gianni Brera. Nel 1979 il Paron se ne andò e il Grangiuan stese questa bellissima e commovente lettera di addio

È morto Nereo Rocco e io non debbo nemmen pensare di poter piangere. È un diritto, ahimè, che non mi appartiene da tempo. I miei sentimenti non contano. Tanto più sarò suo amico, quanto meglio riuscirò a ricordarmi di lui senza frapporre l’amicizia fra me e il mio lavoro insolente.

“Prepara il coccodrillo”, mi era stato ordinato con presago cinismo. “Un’ostia!”, avevo ruggito, a sorpresa, con la sua stessa voce. Io so che è già morto ma voi non lo dovete sapere: voi dovete aspettare, maledetti, che lo sappiano tutti. Allora mi metterò al carrello, e garantito che saprò battere i polpastrelli senza il minimo groppo in gola.

Così cerco di fare adesso che tutti lo sanno. E se volete capire meglio dirò che avevo già pianto e bestemmiato come voleva la nostra amicizia tutta particolare. Ho qui sott’occhio un cartoncino per auguri con su stampati i nomi di Nereo e Maria Rocco, Trieste, Via M. d’Angeli 28, telefono 791636. La data, Capodanno ’78-’79: la calligrafia piccola e slegata di uno che è stato a scuola ma ci ha la mano troppo tozza per tenere la penna con un minimo di disinvoltura: Gioannin carissimo, grazie per i tuoi fraterni graditi auguri… contracambio con sincero affetto e brindo alle tue fortune purtroppo con l’acqua Fiuggi. Ti prego ricordami alla tua famiglia ancora grazie. Nereo .

Non so di grafologia e ancor meno di acqua Fiuggi. Ma questo suo biglietto era un testamento e io l’ho recepito con dolorosa rabbia. Improvvisamente mi s’è stretto qualcosa nelle viscere, me n’è venuto un disagio che era quasi paura. Allora ho capito che Nereo era morto, e che del suo stesso male potrei morire anch’io, e ho la sfacciata onestà di ammettere che non sapevo se fosse più il dolore o la paura a farmi piangere. “Dobbiamo andarlo a trovare”, m’ha detto un amico. “Ma neanche!”, ho subito reagito in un ringhio. Siamo stati anni senza vederci per rispetto della nostra stessa professione. E quando voleva il caso che ci incontrassimo, dopo il primo impulso al solito fraterno e divertito abbraccio, avvertivamo l’imbarazzo degli amici veri, che la vita ha ormai diviso, ma tradirsi non possono e non vogliono per nessun motivo al mondo.

Però, immancabilmente, ci si metteva a bere con la meditata calma si chi a bere ha imparato non solo per gioia ma anche per condanna ereditaria. E fatalmente ci danneggiavamo l’un con l’altro non potendo mentire. Io raccontavo pari pari tutto quanto a sua volta raccontava. Al diavolo gli interessi, le convenienze, gli obblighi: qui siamo insieme e qui beviamo sentendoci fratelli. Poi, chi vivrà vedrà. Ma alla fine ci coglieva quasi il rimorso di tradirci e tradire. L’uno leggeva negli occhi dell’altro la sconvenienza, il rischio, il pentimento. Ciascuno rientrava berciando nel suo mondo. Brutto mona, co’ se vedemo, finisse sempre mal! Ecco, dicevo: accetterei di andarlo a trovare se potessimo bere come sempre. E lui nel testamento m’ha confidato di essere alla fine, di poter solo brindare con l’acqua Fiuggi. Se per disgrazia lo inducessi a trasgredire, la colpa sarebbe mia. Non voglio rimorsi di questo genere.

Ciao, Nereo, grazie di essermi stato amico, grazie di tante ore e giorni trascorsi insieme. Da oggi ti do per morto e ti piango senza mostrare a nessuno quel che sento. Purtroppo sei l’ennesimo amico che mi lascia. L’istinto bruto sarebbe di insultarti. Pensa cosa si direbbe di noi se lo facessimo: tu qui ridotto all’acqua minerale, io alle invettive del sempiterno goliardo invecchiato lavorando, e solo, ormai, con un fegato come il tuo (ma non è stato lui a tradirti, lo so bene: troppo facile ai filistei consolarsi di averci invidiati: eh, sfido, con quel che hanno bevuto!).

È che il mondo non sa distinguere fra chi beve “per scientiam” e chi per sete banale, o addirittura per vizio Noi eravamo fieri di non avere mai sete e spesso bevevamo per evitare il pericolo di averla. Che fastidiosa noia, dover bere per sete, che banale destino! Les hommes qui ne boivent pas ne sont pas bons. Ciò, Nereo, senti ‘sto vinellin. Aveva magari 14 gradi e Nereo fingeva di esserne atterrito. Poi parlavamo. E non c’era mai nube che ci potesse reggere, per cui tornavamo difilato in terra. E il senso pragmatico di Nereo non era mai affetto da cinismo. Ci sentivamo colmi di rimpianti asburgici, disarmati, o quasi, mit den Italienern. Noi tonti lombardi, voi gnocchi triestin. E un masochistico piacere di sentirci far fessi, però anche ringhiando puntuale disprezzo.

Ironia, sarcasmo, burbera tracotanza. Tasi ti, che ti sè tanto testa de mona che tuti i mesi te perdi sangue del naso! Battute pronte per ogni interlocutore. E il tipico pudore del figlio d’un borghese recessivo. Tanti puffi m’ha lassà me padre… Però te lo confessa senz’ombra di rancore. Scuote il capo, ne ride. Pensa ti che ‘l voleva sonassi ‘l piano. E ti sa il resultà? Che g’ho sonà il triangolo nella banda del Corpo d’Armata. Tutte le domeniche in piazza Unità a Trieste, naturalmente co’ no gh’era partida. Interventi ripetuti (ton tin tin) nell’Arlesiana…

Lezioni di piano, sissignori, e ragioneria con tanta poca voja. Per la Triestina delira Saba poeta, ma dovrebbe mè pare? Ti te zoghi ben e mi te dago ‘l premio. Così andavano le cose: che il premio al figliolo promettente zogador in Triestina lo dava ‘l scior Rock, il figlio d’un viennese scappato a Trieste per amore, drio a un’acrobata o ballerina da circo, pensa ti, e spagnola per soramercà: la mia nona. Lo vedo la primissima volta all’Arena, in un allenamento della nazionale (facciamo uno dei primi anni trenta): sinistri al volo da mortificare un gigante come lui triestin, mi pare Blason. La trionfante salute psicofisica dei giuliani non ancora afflitti da angoscia del domani. Mai dimenticati quei potentissimi tiri a volo di pieno collo, e neanche la rabbia di Blason, che pure acchiappa e raccoglie la palla con una sola delle sue manone.

Del giocatore Nereo Rock più nessuna notizia. In nazionale trova Gioânnin Ferrari e recede come suo padre, già stato ricco venditor de carne. Emigra al Sud e sorride – sempre – ricordando Napoli. Poi, la routine presso a casa, la guerra, l’ennesima liberazione d’Italia e di Trieste. Consigliere comunale con i piedoni tosti per terra. Una seconda famiglia: due bei figlioli che studiano. Il primo gioca anche a calcio: “ma ti no ti sè ‘bastanssa bravo e quindi ti te curi la bottega: nel calcio basto mi”.

Allena con sbalorditivo genio pragmatico. Gli italianuzzi si abbandonano a becera imitazione degli inglesi e lui vuole il metodo mantenendo due terzini centrali. Un giorno ritornerà in Italia, questo suo modulo prudenziale, e si chiamerà Riegel, verrou, catenaccio. Pensa che giri: ma è pur sempre un viennese, Rappan, a sentire e vedere come lui. A pensarci, vi è quasi da piangere, tanto siamo fessi.

Ma Nereo non ha ancora voce. E quando l’Inter gli prende Blason, secondo terzino d’area, lui smania nel vederlo comicamente sacrificato sull’ala. Brutte figure da vergognarsi: la “grosse Berthe” messa a guardia d’un alberello di ciliegio. Poi, qualcuno capisce di rimandarlo al suo posto e l’Inter vince non uno ma due campionati!

Nereo è ancora lontano dalla ribalta principale: invece pontifica Viani, un astuto Porthos senza pudori sociali di sorta: uno che vince a poker, la notte, i soldi per il viaggio domenicale della squadra. Anche Viani capisce che il WM è un lusso proibito, anzi masochistico per noi, e arretra il centravanti sul centravanti avversario. Diviene dunque libero lo stopper in seconda battuta: libero – dico io – da incombenze di marcatura. Tutto il mondo adotta e chiama libero il secondo terzino d’area: in Italia, terra di grandi ingegni, proibito.

Sulla nostra stessa barca sono un po’ tutti gli ex calciatori italiani passati alla tecnica (quelli che hanno studiato, non i muscolari, anche celebri ma fin troppo ignoranti). Dal castello di poppa, tonitruante, Nereo. Il suo pragmatismo sincero diventa taumaturgico. Rigenera vecchie rozze mal capite (come lo stesso Blason), lancia ragazzini veloci e coraggiosi, adatti al contropiede. Nasce allora, invocato, il calcio all’italiana e garantito che il suo più limpido interprete è Nereo. Senza falsa modestia, sono io il teorico. Lottiamo insieme a colpi di risultati e, nella metafora, di sessola e di remi. Le molte brutte figure della nazionale verrebbero subito evitate se i consoli osassero vestire il Padova di azzurro. Ma per ora il catenaccio è il diabbolo, pensa te: e nessuno capisce o vuol capire.

…Siamo stati anni senza vederci per rispetto della nostra stessa professione. E quando voleva il caso che ci incontrassimo, dopo il primo impulso al solito fraterno e divertito abbraccio, avvertivamo l’imbarazzo degli amici veri, che la vita ha ormai diviso, ma tradirsi non possono e non vogliono per nessun motivo al mondo…

Finisce però che si commuovono anche gli Agnelli: sull’inclita panchina della Juventus, Nereo risparmierebbe alla nazionale dieci anni di umiliazioni cocenti. Niente. Il presidente del Padova teme il linciaggio se molla Rocco ai suoi stessi padroni (vende Fiat). Così Nereo deve attendere di approdare al Milan, dove comanda Viani: ed è un gran brutto vivere. Nereo non conosce astuzie dialettiche di sorta. È un tonto triestin: e quindi non riesce a mentire. Per mi, ‘l calcio xe questo e che no me conti bale! Per fortuna, i risultati fioccano a dispetto d’una cricca conservatrice o conformista o vile: Viani è malato e, invidioso, gli tira contro. Nereo vorrebbe andarsene. Guai al mondo! Rimane e porta il Milan allo scudetto. C’è anche Rivera piccolo, el bambin d’oro (che per il momento, poco correndo e pensando sul gioco, non molto gli piace).

La lotta al WM è già vinta dall’anno del torneo olimpico di Roma. Viani in serpa a tacitare gli scribi, lui in panchina e nello spogliatoio, dove si destreggia come chi sa bene cosa pensa e cosa fa un pedatore di professione. Grosse parole, mai, atteggiamenti furbi, nemmeno. Dalla panchina torna sudato più dei giocatori: e con loro si spoglia e prende la doccia sentendone tutti I discorsi, dei quali puntualmente si serve per governare il timone. Sotto la doccia, il sudore acre dei poveri, le contumelie, le lodi, le reciproche accuse: e la partita interpretata a caldo. Poi con gli anziani, diciamo gli arimanni, si riflette e decide per il meglio.

Poco abile politico, è un grande in spogliatoio, non in sede. Ai presidenti non bacia né vellica niente. Cambia città (e si pente): scopre nuovi Italienern, magari contagiati di vezzi franciosi: così rimpiange i lombardi e torna fra loro per vincere un altro campionato, un’altra Coppa Campioni. Rivera si è fatto uomo e un po’ ne viene plagiato. Rivera sta a Nereo come la callida volpe al toro manso. Ma bello è poterlo sentire figlio, alzare la voce a proteggerlo, lui toro , manso tutto de fora, estroverso, goliardo invecchiato, e torvo solo per gioco, l’altro tutto introverso, compito, abatin. “Xe Rivera la nostra Stalingrado”, si lagna di me Nereo: e si capisce che non può seguirmi neppure quando ho ragione. Rivera è il solo dei suoi che pensi calcio in grande stile: al diavolo se al pensiero non s’accompagna sempre l’azione.

È il suo Prinz Eugen, talvolta addirittura il suo Allah: ed è per sincera amicizia che noi due cerchiamo di non danneggiarci a vicenda, di incontrarci il più raramente possibile: ma quando Franchino Carraro vorrebbe farla a pugni, in Messico, lui gli ingiunge di non sognarselo nemmeno: Gioani ze ‘n amigo: e onesto, salo?, onesto. Pensa che notizia, un bel round di pugilato con il futuro presidente del CONI! Ma per fortuna Nereo ha qualche anno più di noi e di Rivera, al quale dice: se ti te torni in Italia, te rovini. Gli altri anni – gli ultimi – sono di gloria, di fama così scontata da fare, al massimo, invidia. Il vecchio goliardo lotta con acidi urici, trigliceridi e colesterolo. Forse anche il morbus domini lo importuna: e la gotta.

La natia Trieste è diventata per lui un curioso esilio. L’azienda paterna rifiorisce per Bruno; L’altro figliolo è laureato e lavora in farmacia. La pacata ma energica sciora Maria lo assiste e perfino diverte con premure sempre meno fastidiose. In puro triestin mi ripete una saggia massima brianzola: “Ten bona la tô vegia / perchè al moment giust / la te laverà i mudant anca in de l’acqua fregia”. Così lo penso, povero Nereo, convinto di morire, perduto ormai per il calcio, che era la sua vita, il suo lavoro onesto, però non solo, però circondato dai suoi, che gli volevano bene.

Caro vecchio Nereo, se avessi pianto non avrei finito a tempo questo lavoro che l’amicizia, soltanto l’amicizia non mi rende gravoso né ingrato. Il magone mi è venuto quando ho letto la tua ultima lettera. Non è da noi piangere. La tua vita è stata buona. Al tuo ricordo, amico, brinderò come tante volte abbiamo fatto insieme. Addio Nereo, ti sia lieve la terra.

Gianni Brera