BRUNO CONTI – Intervista novembre 1980

Doveva andare in California per diventare un professionista del baseball, ma Bruno Conti ha voluto sfondare nel calcio, riuscendoci a venticinque anni, dopo che Roma l’ha respinto tre volte. Gigi Simoni e Nils Liedholm sono stati gli uomini del suo destino: l’hanno convinto che la statura non è tutto…

La favola di Pollicino

ROMA. Non è sbruffone, è timido e vellutato nei sentimenti. Non è un fusto: ricorda con guizzi d’umorismo che quando andava a scuola, qualche volta gli ripetevano: «Bruno Conti, in piedi, capito o no?»… E lui era già scattato sull’attenti fuori del banco, tutto lì. Non è un predestinato al successo: a Nettuno dov’è nato lo chiamano Glorioso, ma solo per incoraggiarlo come lanciatore mancino di baseball ricordandogli quello che aveva da essere il suo modello, Giulio Glorioso, un «grande» di quello sport. Insomma, chi è allora Bruno Conti, «corri-uomo-corri» della fascia laterale, allievo di Gigi Simoni e Liedholm, erede di Causio dopo quel gol a pallonetto che ha schiantato la Jugoslavia e tre presenze (due sole partite a tempo pieno) in maglia azzurra?

Vanno i cronisti a cercarlo a Nettuno, i fotografi gli scattano istantanee intorno alla fontana con la statua del dio del mare, il bar del padre ha moltiplicato gli affari, amici e curiosi sono avidi di sapere com’è stato possibile al «gnappetta» (riferimento romanesco al suo metro e sessantanove centimetri d’altezza) col fisico da Rascel e il peso da fantino irrobustirsi, amplificarsi fino a straripare per migliorare il presente e il futuro della Nazionale bearzottiana.

L’OMONIMO DI PAOLO. Bruno Conti, chi sei? E lui:
«Fino a qualche anno fa nella Roma o in giro per l’Italia ero soltanto l’omonimo di Paolo Conti. Era giustamente Paolo il più popolare, l’unico romanista ad aver messo piede in Nazionale. Io sono sempre stato timido, davanti agli allenatori quasi quasi rimpicciolivo, cercavo di trattenere il fiato, di non dare fastidio, di non essere d’impaccio. Non sono mai stato capace di darmi delle arie e spesso in campo quelli più grandi e grossi mi menavano, mi sovrastavano, mi impaurivano. E’ stato Liedholm il primo a farmi il lavaggio del cervello, a farmi capire che il fisico conta sì ma fino ad un certo punto. Io ero innamorato del pallone, avrei dribblato pure ì pali della porta. Liedholm mi ha corretto, mi ha rifatto nuovo, mi ha permesso di debuttare in A col Torino il 10 febbraio 1974. Purtroppo andato via lui dalla Roma, sono stato ceduto anch’io. Ero passato al Genoa, sono ritornato con la maglia giallorossa, nella mia città, nel 1977-78. A fine campionato, mi dirottarono nuovamente al Genoa. Ero il pendolare, il precario. Per fortuna l’anno scorso è tornato Liedholm e sono tornato anch’io. Vorrei non muovermi più. Mia moglie è stanca di traslochi, ero “l’ala con la valigia”. Sempre pronto ad andarmene, a partire. Per i ragazzi di queste parti è difficile affermarsi nella capitale».

bruno-conti-intervista4g3-wp LA CALIFORNIA. Piaceva e non piaceva quel suo modo di giocare come se usasse il piumino da cipria; più che tirare randellate carezzava il pallone, disegnava dribbling e passi doppi come fosse cresciuto sulla spiaggia di Copacabana. Ma dove vai, se l’altezza e i muscoli non li hai? Ripetevano i detrattori. Lui si rannuvolava, adesso confessa:
«Mi era venuto il complesso. Che avessi fatto male a non accettare a quindici anni di trasferirmi in California? Erano venuti da mio padre alcuni dirigenti dell’università di Santa Monica per convincerlo a lasciarmi andare. Assicuravano che mi avrebbero fatto studiare e che inoltre sarei diventato un signor professionista del baseball. Nettuno è terra di baseball, nel braccio avevo i segreti di tutte le curve. Avevo imparato a distinguermi in questo sport dai “marines” che sbarcavano quasi sotto casa mia. Ma mio padre non cedette. Secondo lui dovevamo restare poveri ma uniti, meglio pane e frittata a casa che un figlio in America cioè nell’ignoto, secondo le sue convinzioni. Ora. devo ringraziare pure lui. Sarei stato un matto ad andar via…».

LA MAGLIA N. 17. Due figli, due fratelli, quattro sorelle, i genitori che sono invecchiati aspettando che si sistemasse a Roma senza più imprevisti, la moglie Laura timida e vellutata nei sentimenti come lui. E’ forse in questa famiglia-tribù, in questo riquadro patriarcale di un’altra Italia che Bruno Conti, 26 anni il prossimo 13 marzo, ha potuto irrobustire le proprie certezze, combattere le delusioni della carriera, mettere le ali affinché decollassero la Roma e la Nazionale, al riparo finalmente da laceranti polemiche. E può raccontare, personaggio trasparente che ha finalmente trovato in un allenatore svedese e in un commissario tecnico friulano gli autori giusti per uscire dall’anonimato, per riempire la scena da piccolo-grande uomo.
«Con mia moglie sono sposato da tre anni ma in realtà siamo fidanzati da sempre. L’ho conosciuta quando da bambino lavoravo nel negozio di casalinghi di mia zia. Portavo ai clienti bombole del gas più alte di me, sistemavo i detersivi e le chincaglierie negli scaffali. Furono due zii di mia moglie che mi fecero dimenticare un po’ la passione per il baseball portandomi al Cus Latina, dove c’erano tanti ragazzini coi piedi buoni. Cominciai a divertirmi, nella squadretta giocavo all’attacco in coppia con Vincenzo D’Amico e ogni domenica mattina c’era tanta gente, segnavamo gol a grappoli, pensavamo di non doverci separare mai. E invece D’Amico è andato prima alla Lazio e poi al Torino, un po’ campione e un po’ eterno bambino incompreso. E a Torino, dove lui attualmente gioca in maglia granata, sabato la gente mi ha voluto bene e mi ha applaudito come quando giravo per i tornei minori del Lazio. Ora non so se ho conquistato in Nazionale il posto da titolare e non voglio pensarci. Non credo che questa Nazionale avesse bisogno di me, per trasformarsi. Causio resta quelle che ha dato nel ruolo i migliori risultati. Io non ho fretta, per me è già tanto aver contribuito a vittorie importanti contro la Danimarca e la Jugoslavia. Ho debuttato pochi minuti col Lussemburgo e avevo la maglia n. 17. Quando sono tornato a casa quella maglia ho dovuto nasconderla; sono un po’ superstizioso, pensavo che un inizio in azzurro col 17 non avrebbe avuto seguito esaltante…».

DESTINO. Ma a volte è mutile fare gli esorcismi, temere le congiure degli astri. Coi suoi 65 chili Bruno Conti ha preso decisamente a spalate il destino…
«Basta con i complimenti. Devo pensare alla Roma, possiamo vincere lo scudetto, è un anno importante che potrebbe diventare indimenticabile. Tre stagioni fa giocavo in B ed è cambiato tutto. Chi avrebbe pensato che avrei potuto indossare la maglia di Causio? Domenica giochiamo a Cagliari e non possiamo perdere, il campionato continua. Alla Nazionale tornerò in occasione della trasferta in Grecia. Sono pronto a giocare o a star fuori, al commissario tecnico non creerò problemi. Non ho mai contestato nessun allenatore, non ho mai litigato con nessuno. Mi diverte giocare a pallone e basta, vengo da una famiglia di calciatori: mio fratello Alberto s’impegna ancora in terza categoria nel Cretarossa e mio fratello Silvano è terzino nel Nettuno. Nessuno in partita riesce a controllarmi come lui, d’estate non tocco palla se è lui a marcarmi. Purtroppo non è riuscito a sfondare, nel calcio ci vuole fortuna. E io adesso di fortuna ne ho troppa e un po’ sono spaventato. Anche se ho preso casa a Roma per poter essere concentrato al massimo, vivo bene solo a Nettuno. E’ il paese dei balocchi, c’è il mare, c’è quello che serve…».

I Conti tornano. Bearzot ha trovato il giocatore «totale» da mandare in orbita. Era già capitato a Liedholm. La cronaca sembra favola: Roma ai piedi di Pollicino, personaggio finalmente rappresentato.

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