Quando il calcio andò in guerra: la tregua di Natale

«Per Natale saremo tutti a casa e festeggeremo la vittoria!» mi disse Stefan mentre firmava la lista dei volontari.
«Jawohl mein freund, e tutti insieme berremo birra e canteremo!» gli risposi facendo altrettanto.

A pensarci ora, non so se ridere o piangere. Il mio nome è Karl Aldag, soldato dell’Esercito Imperiale Germanico e, come molti miei coetanei, mi sono arruolato convinto che la guerra fosse una faccenda di poche settimane. Da quel giorno sono passati circa quattro mesi, quattro maledetti mesi rinchiusi in un solco nel terreno prendendo parte a un sadico gioco dove vince chi arriva dall’altra parte senza essere colpito. Come quando da piccolo ci divertivamo con un-due-tre-stella. Solo che ora non devi evitare la vista di chi conta, ma la pioggia di pallottole e granate. E se per caso ce la fai, il premio è una trincea piena di nemici: non c’è vittoria in un gioco del genere.

23 dicembre 1914, tardo pomeriggio. Siamo ancora qui, sotto l’acqua incessante e coi piedi risucchiati dal fango in una trincea che solca le Fiandre parallelamente a quella nemica, a 50 metri di distanza da noi. È così vicina che sentiamo le loro voci e la mattina, vento permettendo, possiamo intuire cosa stanno mangiando per colazione. Stranamente oggi si spara meno e più le ore passano più una quiete irreale avvolge la nostra zona, mentre da lontano continuano a tuonare fucili e cannoni. C’è troppo silenzio, forse è un trappola.

24 dicembre 1914. È l’alba e uno spettacolo incredibile sta accadendo davanti ai miei occhi: qualche inglese ci ha chiamato e qualcuno dei nostri dopo un’indecisione iniziale ha risposto.

«Come stai?»
«Tutto bene»
«Vieni qua, Fritz!»
«No. Se vengo lì, mi sparate»
«Non succederà. Vieni!»
«Non se ne parla»
«Vieni a prendere delle sigarette, Fritz!»
«No. Io vengo a metà strada e tu mi raggiungi»
«Ok!»

Uno dei nostri, lentamente, ha scavalcato il parapetto ed è uscito dalla trincea. In mezzo alla Terra di Nessuno ha incontrato il soldato inglese, si sono stretti la mano e si sono scambiati quello che avevano: sigarette e formaggio. Sono senza parole. Dopo di lui, altri soldati da ambo le linee escono per incontrare il nemico e scambiare quello che hanno a portata di mano: vino, sigari, cibo eccetera…

Passano le ore, la luce è svanita ma l’incredibile ancora sta accadendo. La nostra trincea è illuminata da candele poste su piccoli alberi di Natale e, a turno, le due linee intonano i canti della propria tradizione, seguiti da un applauso della controparte, il tutto mentre l’ultimo bollettino di guerra della giornata parla di centinaia di morti poco lontano da dove ci troviamo e di un nostro bombardamento aereo su Dover.

25 dicembre 1914, Natale. La tregua spontanea ci dà l’occasione per recuperare i corpi dei commilitoni caduti e onorarli con esequie e sepoltura. Nelle retrovie vengono arrangiati dei pranzi di Natale dentro le poche baracche che ci sono. Qui, in prima linea, quasi tutti sono usciti dalla trincea e ancora una volta sono andati incontro agli inglesi. Per festeggiare, noi prima abbiamo portato loro le nostre salsicce in cambio di sigarette, poi abbiamo intonato “God Save The King”. Nel frattempo avevamo scoperto un birrificio abbandonato poco distante, per cui, durante la giornata, qualcuno dei nostri si è presentato con due barili di birra, divisa tra i presenti mentre i soldati scozzesi suonavano le loro cornamuse.

Poi, di colpo, salta fuori un pallone da calcio. Silenzio generale. Come quando senza preavviso ti capita davanti una donna bellissima, e in quel momento quell’ammasso mezzo sgonfio di cuoio era indiscutibilmente la cosa più bella che c’era, il miglior regalo di Natale possibile. Non so chi l’avesse buttato in campo, ma non ci interessava. Rapidamente abbiamo fatto le squadre: noi, in grigio, da una parte e gli inglesi nelle loro uniformi khaki dall’altra. Di divise da gioco manco a parlarne. Il campo? La Terra di Nessuno, coperta da uno spesso strato di ghiaccio e occupata da circa cinquanta giocatori per parte. Le linee del campo? Tutti gli altri soldati. Le porte? Due elmi per terra; di certo non ci siamo fatti troppi problemi. Anche io ho giocato, dando il meglio che potevo: già non mi considero un maestro del gioco, in più gli scarponi ai piedi di certo non aiutano. Per fortuna non ero l’unico in quelle condizioni, anzi ero certo che fossimo tutti sulla stessa barca.

A un certo punto riusciamo a segnare il primo gol della partita e scoppia il delirio nelle nostre fila. Ci abbracciamo, urliamo, c’è chi canta e salta; gli avversari aspettano pazientemente che ci diamo una calmata e rimettono la palla a centrocampo. Via, si ricomincia. Gioco non bello da vedere, ma di sicuro il più possibile corretto e leale; se penso che solo tre giorni prima facevamo carte false per riuscire ad ammazzarne anche solo uno in più! 2-0! Ah, che vittoria stiamo costruendo! i tedeschi che battono gli inventori del gioco: qualsiasi cosa si tratti, noi la facciamo meglio! Oggi su un improvvisato campo da calcio, domani sul campo di battaglia! Siamo così euforici che il vento gelido che ci sferza la faccia non ci scalfisce minimamente.

Ci pensano allora gli avversari, riportandoci coi piedi per terra con un gol in mischia: 2-1. Scheisse. Lo ammetto, subiamo il colpo: adesso l’inerzia è tutta dalla loro. Noi ci proviamo, ce la mettiamo tutta, ma non riusciamo a resistere e i khakis vanno a rete per la seconda volta. Non può essere così, non può finire così! Ci incoraggiamo a vicenda, c’è ancora tempo prima della fine. Passano i minuti e a poco a poco ci riprendiamo dallo sbandamento. Tempus fugit, diceva qualcuno, e in questo caso lo fa con particolare facilità. Improvvisamente con pochi rapidi tocchi partiamo in contropiede; io sono in difesa e posso solo spingere a voce i miei compagni verso la porta. Urlano anche gli inglesi, non capisco bene il perché ma sotto sotto non mi interessa: ci stiamo involando verso la porta avversaria! Trattengo il fiato, ci siamo! La palla, calciata maldestramente, scivolando e rimbalzando sul ghiaccio entra in porta! 3-2!

All’unisono tutti i presenti urlano, come fossero tutti dalla stessa parte, ci sono attimi di discussione sul rettangolo di gioco ma io mi tengo defilato, non mi voglio immischiare. Alla fine vedo che gli avversari riportano il pallone a centrocampo e il gioco finalmente riparte. Non fa in tempo a concludersi l’azione che uno dei nostri calcia la palla troppo alta facendola passare sopra la testa degli spettatori. La sua corsa si ferma contro le punte del filo spinato, le quali non possono far altro che trafiggere il cuoio. Finisce così la partita di Natale; in effetti un campo di battaglia non è precisamente il luogo più indicato per fare sport. Con nostro grande disappunto siamo costretti a far terminare la partita e allora cogliamo l’occasione per scambiare due parole con l’avversario: vengo avvicinato da uno di loro che mi stringe la mano e si complimenta per la vittoria. Poi si blocca, mi fissa e alla fine esclama: «Sì, bravi, ma l’ultimo gol era in fuorigioco…»

Testo di MATTEO AZZIMONTI