Calcio, Letteratura E Filosofia


“Il calcio è solo calcio”. Senza alcun dubbio è la frase più usata dai detrattori di questo sport, con tante varianti, come gli undici uomini in mutande che corrono dietro ad una palla nel fango, o uno sport che plagia le persone e le distoglie dalle cose più serie. Insomma, è comune che il calcio venga molto denigrato, a causa anche dell’orbita (economica) attorno a cui ruota.
Sacchi, un maestro del calcio, definì questo gioco come: “La cosa più importante delle cose non importanti“. Abbastanza un paradosso, ma di fatto il calcio spesso va oltre: i tifosi vivono per un gol, per la propria squadra, cambiano il proprio umore a seconda delle “situazioni” in cui riversa la squadra. Un gol cambia un’intera settimana.
Però non è tutto fine a se stesso. Questo sport è anche letteratura, filosofia, fisica, è un microcosmo in cui si racchiudono umori, specchi della società ma anche arte, romanticismo, politica. Il calcio è parte della cultura di una società, di una nazione, e questi permea a livello storico, in tante situazioni politiche e letterarie.

Che sia il mezzo televisivo o la visione diretta a comunicare le immagini del gioco, l’eccitazione del pubblico si mantiene sempre a un livello alto e la tensione quasi mai si acquieta con la fine del gioco ma lo trascende e ha modo di scaricarsi nelle strade cittadine, coinvolgendo anche chi l’incontro agonistico non l’ha seguito. È un gioco che, proiettato oltre gli stadi ufficiali, si reinventa quotidianamente nelle migliaia di campi sportivi più o meno improvvisati, nelle scuole e nei cortili delle case, ovunque si ritrovino un gruppo di ragazzi intorno a un pallone. Quindi, quando si parla di calcio bisogna farlo anche in maniera globale, che non si limita alla sola Italia-Brasile, ma si riversa anche in un campo di calcio di periferia dove quattro ragazzini sognano di esser Messi o Cristiano Ronaldo (ahimè, una volta avevamo Ronaldo, quello vero, ma ci accontentiamo…).

Registrare questo fenomeno, con spirito di partecipazione, con la serena ottica dell’interesse culturale, con l’acuta indagine della curiosità è la sfida che hanno lanciato, nel tempo, giornalisti, fotografi, sociologi, filosofi, pittori, scultori e anche letterati. In molti hanno basato le proprie teorie filosofiche sul calcio. Ad esemprio Sartre diceva che: “Il calcio è una metafora della vita“, mentre in contrapposizione Sergio Givone diceva che “La vita è una metafora del calcio“. Concetti differenti ma così uguali, legati da una passione per una sfera, che fa da compagna alle nostre vite. Un gol, un evento, cambia la partita, la nostra vita, in maniera tanto netta quanto simile.

Un caso rilevante è quello di Giacomo Leopardi, con la sua canzone “A un vincitore nel pallone”, datata 1821. Leopardi, in questa canzone in cinque strofe, si riferisce a un ben preciso personaggio, il giovane Carlo Didini di Treia, e lo acclama come campione, elogiandolo per l’energia espressa nell’azione sportiva. Dietro questa profonda ammirazione si cela anzitutto una punta di invidia per una vigoria di corpo che il poeta non possedette mai. Ma, cosa ben più importante, si intravede la visione leopardiana della vita, che va presa come un gioco, come il calcio quindi, e come tale va giocata, cercando quindi di passare dall’ignavia all’azione; e non è necessario stare attenti allo scopo dell’azione, purché azione sia. Infatti “nostra vita a che val? Solo a spregiarla” è momento conclusivo della composizione. E allora Leopardi, oltre a elogiare il ragazzo, lo incita a continuare così e, anzi, a fare ancora di più, per non cadere nel suo stesso errore, del quale si è accorto troppo tardi per poter porvi rimedio.

Da Leopardi a le 5 poesie sul gioco del calcio di Umberto Saba: un incontro casuale, quando entra la prima volta allo stadio solo per accompagnarvi la figlia desiderosa di vedere la squadra di casa, la Triestina. Fino a quel momento il poeta non aveva mai dato molto peso al calcio, anzi tutti quei tifosi che deliravano o si disperavano seguendo le evoluzioni di una sfera di cuoio lo irritavano, non riusciva a capirne il senso; ma da quel giorno per lui tutto cambiò, dentro quello stadio Saba si sentì perduto, avvolto dal calore della folla.
Le 5 poesie narrano dell’ingresso dell’io umano dentro l’io dello sport: la squadra paesana, prima poesia, il rapimento della bellezza di uno stadio intento ad incitare i propri beniamini; Tre momenti, la seconda, sugli atti del calcio, ossia l’attesa, il gioco, la fine.
Tredicesima partita, sulla bellezza del tifo, quello avversario, che crea ancor più signorile enfasi alla partita; Fanciulli allo stadio, la delusione di non riuscire da ragazzo a realizzare quel sogno di diventare un calciatore, e Goal, i sentimenti contrastanti dei due portieri nel momento di un goal, appunto: il vinto, che si dispera e “contro terra cela la faccia”, come a voler scomparire, e l’altro, che, obbligato a rimanere nei pali, lascia libera di vagare almeno la sua anima, alla ricerca della felicità insieme ai suoi compagni.

E ancora passando per Galeano, amante sudamericano di questo bellissimo sport, misto tra utopia e incertezza. Galeano nel suo libro, spiega come il calcio venga pensato dagli uomini di destra come: “persone che ragionano con i piedi“, e da persone di sinistra: “come persone che non ragionano affatto“. Ed invece per il grande Eduardo il calcio è vita, ragionamento, enfasi, momento di gioia, di storia, di anarchia che si sottrae alle richieste e alle logiche del potere, un microcosmo che riesce a vivere con le proprie gambe, e calciare in porta senza che nessun’altro, a parte il proprio desiderio di vittoria, abbia voce in merito.
Per Galeano il calcio è arte dell’imprevisto, e «Per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler essere l’arte dell’imprevisto. Dove meno te l’aspetti salta fuori l’impossibile, il nano impartisce una lezione al gigante, un nero allampanato e sbilenco fa diventare scemo l’atleta scolpito in Grecia».
Galeano non ignora gli aspetti meno luminosi di uno sport che è anche un lucroso affare. Ma, come accade agli innamorati, le inevitabili miserie non diminuiscono lo splendore di questo gioco, che è festa per gli occhi di chi lo guarda e allegria delle gambe che sfidano la palla. Un dittatore cadrà, ma il calcio, come la letteratura, è la forza del popolo. Il dittatore passerà, ma un gol di Garrincha, è un momento eterno.

Il calcio in pratica ha assunto una forma epica, e lo si deve proprio agli scrittori sudamericani, come Manuel Montalban, narratore dell’arte popolare, alla ricerca di un suo Dio, che mai può essere uguale per tutti. Se in Argentina tutti avranno el Pibe de Oro, in Brasile avranno la Perla Nera, ma quello che accomuna tutti, sono due sassi per strada, una palla anche di stracci, e il lato destro del cervello che immagina un Maracanà stracolmo per applaudirlo. La fantasia nel calcio nasce dalla voglia di essere, per la prima volta, libero da tutto ciò che la vita impone. Il calcio come evasione, dal più piccolo al più grande.

Da una visione più romantica, si passa a quella più “sacra”, quella di Pier Paolo Pasolini, grande pensatore e ottima ala destra; Pasolini definiva il calcio come: «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro».
Il football, viene inteso come è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato.
Infatti le “parole” del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scritto-parlato. Ora, come si formano queste ultime? Esse si formano attraverso la cosiddetta “doppia articolazione” ossia attraverso le infinite combinazioni dei “fonemi”: che sono, in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto.I “fonemi” sono dunque le “unità minime” della lingua scritto-parlata. Vogliamo divertirci a definire l’unità minima della lingua del calcio? Ecco: “Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone è tale unità minima: tale “podema” (se vogliamo continuare a divertirci). Le infinite possibilità di combinazione dei “podemi” formano le “parole calcistiche”: e l’insieme delle “parole calcistiche” forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche…
I “podemi” sono ventidue (circa, dunque, come i fonemi): le “parole calcistiche” sono potenzialmente infinite, perché infinite sono le possibilità di combinazione dei “podemi” (ossia, in pratica, dei passaggi del pallone tra giocatore e giocatore); la sintassi si esprime nella “partita”, che è un vero e proprio discorso drammatico. I cifratori di questo linguaggio sono i giocatori, noi, sugli spalti, siamo i decifratori: in comune dunque possediamo un codice. Chi non conosce il codice del calcio non capisce il “significato” delle sue parole (i passaggi) né il senso del suo discorso (un insieme di passaggi).
Il calcio, per Pasolini dunque, diventa un testo da leggere, da comprendere, da decifrare, da esterno, con la palla tra i piedi, ma lo si affronta come un libro, ossia con trasporto, romanticismo, passione, interesse, perché, “Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”.

E dalla letteratura potremmo citare il cinema, con svariati film quali Fuga per la vittoria, Febbre a 90min., Gol!, ed andare oltre, citando la “Partita della morte”, la storia di Sindelar, di Arpad Weisz, a testimonianza che il calcio ha rappresentato una parte importante contro i regimi, ed è entrato nella politica lasciando il segno a più riprese.

Oltre le emozioni però il calcio è anche schemi di gioco, puramente riconducibili alla filosofia. Difficile da credere? Beh, proviamo a spiegare questo binomio. Ricapitoliamo dall’inizio: il calcio è uno sport, un gioco, un’esperienza, una condizione dell’animo umano. E’ uno e molteplice, come i significati che lo colorano. E’ impegnativo, ma comprensibile. E’ pieno di vizi, ma ancor ci appassiona. E’ oggettivo e soggettivo, ideale e reale (a volte anche troppo). E’ poetico, tragico, comico, letterario, romanzesco, patetico, esagerato. Un fiume in piena, che merita d’esser analizzato.
Mettiamo insieme l’improbabile triangolo composto da: calcio, letteratura e filosofia. Magari per molti di voi, sarà un tentativo a vuoto, ma quanto meno, interesse e sorrisi verranno strappati.

Disponiamo il modulo. Restiamo sul classico: 4-4-2. Si parte col ruolo più difficile: dentro l’area, c’è lui, il portiere. Trovargli una sistemazione tra le scuole di pensiero è impresa ardua. Potrebbero andare bene tutte, o quasi. Due autori però, lo interpretano bene. Il primo è Fichte, l’idealista. Io e Non-Io in lotta continua, in una nevrosi lunga novanta interminabili minuti. Tende verso l’assoluto, ma non sa come arrivarci. Uscire o restare in porta? Presa o deviazione? Nella sua solitudine, il portiere non conosce mezze misure: o la gloria o la dannazione. Dunque, o Nietzsche o Kierkegaard. Superomismo da una parte, angoscia e dannazione dall’altra. E non può nemmeno scegliere: la sua sorte, è affar anche altrui. Quant’è dura, la solitudine dei numeri uno?
Passiamo alla difesa: la figura del terzino balza dalla filosofia alla letteratura. Il terzino, destro o sinistro che sia, è il riferimento calcistico di Victor Hugo. Lungo la fascia, alterna il grottesco al sublime, calciando con la dolcezza di un fabbro, o destreggiandosi in lunghe, cavalleresche peregrinazioni all’ombra delle tribune. A volte i suoi errori costan caro, a volte regala spettacolo. Ma il fascino del terzino va bene così: non si può vivere, senza la poetica fatica dei cursori di fascia.

Al loro fianco, troneggiano due figure, i difensori centrali. Una volta li chiamavano stopper, e il nome era già un’apertura al loro mondo. Contrari ad ogni forza per natura, i difensori centrali sono i proseliti dello scetticismo nel terzo millennio. Contro tutto e tutti, colpo su colpo, gamba o pallone. Una volta ci aveva provato Hegel a toglierli di mezzo, “umiliandoli” ne “La fenomenologia dello spirito”. Diceva che a forza di negare tutto, avrebbero negato anche il motivo della loro esistenza. Subito sorse qualche interrogativo. Poi qualcuno pensò che Hegel non capiva di calcio, e sono tornati in campo, prepotenti come non mai!
Avanziamo a centrocampo, e sul lato destro c’è lui, l’ala, con il numero 7 sulle spalle. Non è nè attaccante nè difensore, deve creare ma anche rompere il gioco. A volte macina chilometri chiamando la palla, predicando nel deserto. Altre volte semina il panico, crossa al centro ma… non c’è nessuno pronto a raccogliere l’invito. Spossato e triste, corricchia qua e là, scuotendo la testa. Spesso non si sente capito, e cade in una condizione esistenziale di patimento e di incomprensione. L’esterno destro è un po’ Montale e un po’ Baudelaire, tra il male di vivere ed una tristezza meditativa, causa la mal comprensione dei suoi “capolavori”. Nel dubbio però, lui continua a correre e creare. Un po’ come uno stoico, che soffre senza darlo a vedere, in attesa della redenzione. Siamo sicuri che anche lui, un giorno, raggiungerà l’agognata beatitudine.

In mezzo al campo operano l’incontrista e il regista. Tanto diversi e tanto uguali, si completano l’un l’altro, aiutandosi a vicenda. L’incontrista è Giovanni Verga, cultore del verismo calcistico più asciutto, senza poesia, senza ricami, senza la gioia di un colpo di genio col pallone. Nel suo concetto di calcio, per una squadra vale la stessa metafora che simboleggia, ne “I Malavoglia”, la famiglia di ‘Ntoni: il pugno, dove le dita devono essere strettissime tra loro, per far sì che tutto funzioni. Lì, fin che ce n’hai (va dato atto a Ligabue in questo caso), senza motivi alcuni di essere ricordato, a meno di storici eventi, di una classe operaia che (almeno una volta) va in paradiso. Il suo vicino, col numero 10 sulle spalle, è l’esatto opposto. Il regista è Schelling, il suo calcio è arte, figlio di continue ed illuminate intuizioni estetiche. Anche lui cerca l’assoluto, e a volte lo raggiunge. Non per nulla è un artista, specie rara, nel calcio d’oggi. Beati loro, non riesce a tutti, anche perché, la fortuna è dalla loro parte; Dio o meglio, il Dio del calcio gli ha dato tutto, anche un mediano che corre per lui, gli ha dato i piedi buoni, la visione di gioco, il gran tiro e quindi le luci della ribalta, il successo, il massimo punto di estetismo. Perché generalmente il 10 è anche bello, affascinante. Insomma, fin troppo facile essere schiavo della propria grandezza!

Lungo la corsia mancina c’è l’eclettico numero 11. Sulla sua identità non ci sono dubbi: l’esterno sinistro è Gabriele D’Annunzio. Per lui il dribbling è tutto. Dribbla qualunque cosa, avversari e compagni, a volte persino se stesso, giocando praticamente in un altro contesto calcistico. Esteta per eccellenza, vive per la giocata ad effetto, si spende per l’effimero, ricerca il bello fine a se stesso. A volte, per sbaglio, taglia verso il centro dell’area e segna di testa. Ma lui non se ne accorge, e non può permettersi di scomporsi in esultanze, perché di fatto, il gol bello per lui è da fermo, piazzato, magari a “foglia morta” (Caro Mariolino Corso….)
Infine, resta il reparto d’attacco. La seconda punta è poeta maledetto. Il suo modo di giocare, è la trasposizione calcistica della tematica portante degli artisti del genere: un continuo, logorante confronto tra il sogno e la veglia. A volte illumina, a volte scompare nell’anonimato. Spesso regala spunti geniali, altre si addormenta, perdendosi nel vuoto delle difese avversarie. Il ruolo di spalla lo affligge, anche se a volte recita da primattore. Ma non ha il fisico, e si deve accontentare dell’assist, del passaggio filtrante al momento giusto. Purtroppo è duro il destino, nei confronti delle seconde punte, perché la gloria è del centravanti, una figura omerica: è Ulisse, in tutto e per tutto. Sempre in viaggio sul fronte d’attacco, vaga alla ricerca del dell’occasione per tornare ad Itaca. Quando la vede, fastidiosi Proci vestiti da stopper e da portieri tentano di ostacolarlo nella marcia lungo la retta via. Ma lui torna, sconfiggendoli tutti. E Penelope, santa donna, è sempre là, tesa sulle tribune, pronta a gioire per il suo ritorno.
Oltre gli undici in campo, la squadra è formata da chi in campo scende meno, o quasi mai. I panchinari sono come il libro dell’inquietudine di Pessoa: soffrono, vivono il tormento delle sfide, a tratti tediati dall’immobilismo; A volte entrano in campo, danno il loro contributo e riescono a cambiare le sorti della gara, come fosse l’ultima occasione della propria vita: “vivere o morire, come se non ci fosse un giorno in più, ma solo un giorno in meno”. Il più delle volte però siedono in panchina, e “ballano quando vedo(no) ballare”, e sta bene comunque così. Nel classico tormento tra stasi e gioia. La vera forza di una squadra, si misura anche dagli uomini in panchina.

Concludiamo dunque con colui che siede in panchina: l’allenatore. L’allenatore non può essere che Dante: da bordo campo, assiste alla Divina Commedia del calcio. In un campionato vede tutti e tre i regni: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Vorrebbe rimanere nell’ultimo, ma non sempre riesce nell’impresa. Però, la sua Commedia ha una differenza, rispetto a quella dantesca: l’opera che dirige, inginocchiato, col cronometro in mano, può essere ripetuta, e la Commedia, può diventare davvero “Divina” anche per lui.

Tra ironia e realtà, il triangolo filosofia-calcio-letteratura regge bene. Chiunque abbia mai calciato un pallone si riconsce in ogni parola detta da grandi artisti, poeti e geni. Nel calcio tutto diventa invenzione, genialità, opera, grazie a geni che sono riusciti a carpire anche il minimo intrinseco valore romantico del calcio, dalla finale del mondiale, ai bambini che giocano nel parco.

Guardate al calcio come arte, con amore, con romanticismo, e riuscirete a capire cosa si prova davvero quando si ha quella palla tra i piedi, tra sogno e realtà. I grandi artisti sono riusciti a spiegare cosa si prova per questo sport, cosa crea questo sport nell’animo umano. Da sport diventa arte, che vive e si permea in ognuno di noi, in grandi similitudini della vita, perché ognuno di noi, pari al rettangolo di gioco ha un ruolo ben definito.

“Chi dice che il calcio, sia solo calcio, non capisce nulla di calcio”. Josè Mourinho