CARLO ANCELOTTI – Intervista gennaio 1982

Preparava l’anno dei Mondiali, la sua grande stagione: dovrà invece starsene fermo per otto mesi. Li passerà nella sua Reggiolo, fra le nebbie della Bassa ultima vittima di un calcio violento. «Ero troppo fortunato, me ne vergognavo»

Il ragazzo di campagna

ROMA. Gli ha detto a un certo punto sua madre Cecilia: «Ora basta, non pensarci più, al mondo parecchi soffrono e stanno peggio, devi sempre guardarti indietro…». Carlo Ancelotti si è messo a ridere e aveva magari voglia di piangere, nella stanza n. 65 di Villa Bianca, tra dottori, curiosi, cronisti, belle infermiere. Sua madre con la stupenda severa semplicità delle donne della Bassa parlava ancora: «Invece di andare in Spagna a correre dietro a un pallone, verrai da noi, a Reggiolo… In campagna da giugno ad agosto tuo padre ha proprio bisogno d’un contadino in più. Forza Carlo, devi reagire come se non fosse successo niente…». A Reggiolo adesso c’è nebbia, l’inverno è più lungo, la campagna può essere devastata dalla grandine, i fulmini possono bruciare le stalle, la vita raggelata tra nevicate che ritornano e si sciolgono vieta le emozioni e gli stupori dell’avventura, dell’imprevisto, dell’amore e della fortuna improvvisa.

È Carlo, il calciatore di campagna che era diventato un VIP nella capitale d’Italia, a raccontare com’è il gennaio dalle sue parti, come lo ha visto con occhi di bambino, come lo rivedrà tornando a casa dopo l’operazione al ginocchio destro. No, non vuole andare alla ricerca del nemico perduto, delle partite domenicali cui non parteciperà, delle interviste sui giornali per raccontare un gol, una vittoria, un’ azione da calcio spettacolo… Non si lamenta e non si commisera più. Sua madre, prima di salutarlo, è stata più convincente di qualsiasi medico, più consolante nella sua durezza, nella sua verità, di qualsiasi pietosa bugia.

FIGLIO DI FERRO. E Ancelotti, dopo la lunga sbandata psicologica, è tornato semplicemente quello di Reggiolo; il figlio fatto di ferro della signora Cecilia, il giovanotto di campagna che ricomincia sempre con entusiasmo a darci sotto, a consumare un giorno come un altro in grazia di Dio, in pace con se stesso e con gli altri.
«A Reggiolo – incalza – di questi tempi ci si diverte un po’ con le carte all’osteria oppure coi racconti del passato. Sembra che l’inverno non passi mai e invece ci si sveglia una mattina e c’è il chiarore della primavera, c’è il sole, l’aria si è raddolcita. È bello uscire dall’inverno a Reggiolo per andare incontro all’estate. Ecco: sarà così anche per me. Io penso d’ essere soltanto capitato in un tunnel, nell’inverno più rigido della mia carriera. Fino a quella domenica di ottobre all’Olimpico, fino a quello scontro con Casagrande della Fiorentina, ero stato troppo fortunato, pazzescamente fortunato. Sempre sole e giardini fioriti. No, era troppo… Lo confessavo a me stesso che era troppo e un po’ stralunato tiravo avanti con il cuore di un milionario. Ero chiuso, introverso, timido, proprio perché temevo che gli altri si potessero scandalizzare della mia completa felicità. In due anni con la Roma ero arrivato perfino alla Nazionale, avevo bruciato le tappe. No, non era possibile! Io sognavo a occhi aperti, era una favola. Oggi non sogno, alle favole non ci credo più. Sono finalmente maggiorenne e vaccinato. Meglio così…».

RIVINCITE. È stata sua madre a dargli la voglia di parlare schiettamente, di confessarsi. Riempiamo un blocco d’appunti. Ci sono i racconti del passato e i disagi attuali, ci sono le perplessità sul futuro sbiadite e comunque sdrammatizzate dalla virile certezza di avere ancora tanto tempo davanti. «Sì, ho 22 anni appena, e saprò prendermi le mie rivincite sul destino. Quanto potrà tenermi bloccato, fermo, questo benedetto ginocchio? I medici fanno pronostici per eccesso e giurano che tra otto mesi… Io non voglio pronosticare più nulla, voglio avere soltanto pazienza da vendere. E voglio guarire perfettamente perché tra me e il ginocchio operato non ci siano più malintesi. Da tre mesi non ci capivamo più… Lunedì 4 gennaio mi ha tradito, ha ceduto nuovamente. Io sparavo certe botte sul pallone, come mai in vita mia; sapevo che c’era la grossa possibilità di rientrare ad Ascoli con la maglia giallorossa e non ci capivo più niente dalla gioia… Potenza e precisione nei tiri in porta m’illudevano… Mi domandavo: ma chi sono diventato? Sarò mica diventato Pelè in neppure tre mesi d’ inattività forzata. All’ora di pranzo, da Trigoria, ho chiamato i genitori: preparatevi, dovete venire ad Ascoli, vedrete che non vi pentirete, farò un figurone… sono guarito, sano come un pesce…».

A questo punto la voce s’incrina, forse sta per cedere nuovamente alla tentazione dello sconforto. Ma è un attimo; di certo si ricorda di sua madre contadina, della cristiana rassegnazione di tutti i suoi paesani, della forza d’animo che ci vuole nell’inverno a Reggiolo soprattutto quando le calamità naturali distruggono la fatica e il lavoro onesto di mesi. Riprende a raccontare con fermezza, sfidando il presentimento stesso di potersi inceppare per dar via libera al pianto dirompente. Dice: «Il lunedì pomeriggio di quel quattro gennaio, per un passaggetto laterale senza sforzo, mi sono ritrovato col sedere in terra e addio progetti. Ho dovuto riattaccarmi al telefono per dire ai miei vecchi di non muoversi, il ginocchio aveva fatto “crack” … Ma perché questi scienziati che tirano fuori tante cose incredibili, non inventano una protezione delle ginocchia ai giocatori di calcio? Ma no, no, forse dico stupidaggini. Ognuno ha il suo destino e deve tenerlo. E allora, cosa avrebbe dovuto fare Francesco Rocca ch’era un superman, un forzuto, il più agile e sano di tutti? E’ stato proprio Rocca a tranquillizzarmi fraternamente; lui di ginocchi se ne intende come uno specialista, come il professore Perugia. Lui, quando era in pieno dramma, ha studiato tutti i misteri possibili d’un ginocchio e magari avrebbe potuto sostenere una tesi di laurea. Ebbene, Rocca mi ha detto che devo stare tranquillo perché non ho subito lesioni alla cartilagine come invece era capitato a lui. Io ho avuto la rottura d’ un menisco e qualche legamento indebolito è stato rinforzato senza problemi. Dovrò però sacrificarmi molto durante la rieducazione. Mi hanno prescritto due ore di ginnastica al giorno con concentrazione totale. Poi mi hanno pregato di non avere fretta, ma non c’era bisogno… Vi giuro che non ho più fretta e che saprò sopportare serenamente il calvario. È roba da niente rispetto a quello che capita in giro, nel mondo, ogni minuto. Mia madre è saggia, mia madre ha proprio ragione».

MALINCONIA. Si sforza d’essere sereno e paradossalmente siamo noi a sentire il peso ingombrante della malinconia. Rivediamo Carlo Ancelotti in azione e ci sembra impossibile averlo perso per questo campionato, per i mondiali in Spagna, per parecchio tempo… dopo aver disputato 55 partite nel Parma era stato voluto a ogni costo da Nils Liedholm. Il presidente Viola s’era ribellato: «È un contadino che costa più d’una flotta… che ha, i piedi d’ oro?». Liedholm era rimasto impassibile e con una frase lapidaria aveva tagliato corto: «Vedrà che non si pentirà: la Roma farà un investimento favoloso per quindici anni…». E a Roma Carlo Ancelotti s’era trovato subito a suo agio soltanto sui campi d’allenamento e all’Olimpico. In una delle prime interviste nell’inverno 1979 ci confessò: «Quando sono libero non esco mai dal pensionato perché ho paura di perdermi… io a Roma non c’ero venuto mai neppure da turista e mi è sembrata tentacolare, immensa. Io solo quando gioco non mi perdo e sono disciplinato tatticamente senza far fatica. Il barone dice che non vado mai contromano ed è il più bel complimento che un calciatore moderno possa ricevere…».

AUGURI. Che senso hanno allora i discorsi in camice bianco di questi primi giorni del 1982? Tutti a parlare dapprima d’artroscopia e cioè della«visualizzazione endoscopica di una cavità articolare». Era stata proprio l’artroscopia ad escludere nell’ottobre scorso complicazioni gravi nel prezioso ginocchio del ventiduenne Ancelotti. Eravamo tutti felici e il sanitario della Roma, il dott. Alicicco, aveva commentato: «Carlo è indistruttibile, Carlo ha fasce muscolari poderose e praticamente si è salvato, non si è fatto nulla di serio dopo la brutta torsione dell’arto conseguente lo scontro di gioco con Casagrande. Su, allegri, Carlo è una testa dura della Bassa padana. Se un toro gli dà un calcio si sloga la caviglia… povera bestia». E giù a ridere, senza paventare il peggio, scongiurati gli imprevisti che sempre incombono in questi casi. Arrivano telegrammi e biglietti d’auguri; e ogni volta si ripeteva lo scherzo. «È il conto che dovrai pagare! – diceva il presidente Viola, presentandosi nella stanza con una busta bianca in mano… – È un conto salato, Carlo, non vorrai mica pretendere che la Roma…».

BEFFA. E lui ribatteva sempre per gioco: «lo mandi a Casagrande, signor presidente. Io sono già abbastanza inguaiato. Mi perdo tante belle partite, i premi, le sfide con I’ Inter, la Juventus, il Milan… quando rientrerò…?». Questi mesi sono volati, il 1981 è finito tra champagne e fuochi d’ artificio. Ancelotti, alla televisione, prima degli spari di mezzanotte sull’anno che muore ascolta una maga. «Incompetente che altro non è – borbotta – ha avuto l’ardire di spiegare che il 1982 sarebbe stato splendido per quelli del mio segno zodiacale. Io non avevo mai dato retta a queste cose, non ci ho mai creduto, non mi sono mai fatto leggere la mano e ho sempre rifiutato di conoscere il mio destino dalle carte. Per una volta che sono stato a sentire, avete visto com’è andata. È il mio periodo nero. È cominciato quando ho dovuto saltare la preparazione di Brunico per il servizio militare. Dovevo inseguire sempre in salita i compagni e ho cercato di allenarmi anche per conto mio per non restare troppo indietro. Proprio come capita a scuola quando si è malati e si perdono troppe lezioni. In fondo andare agli allenamenti di Liedholm è un po’ come frequentare l’università del football».
Era una stagione importante, la stagione dei mondiali. Un anno fa, al «Mundialito», Carlo Ancelotti era esploso, aveva avuto l’orologio d’oro per il gol-lampo messo a segno a dispetto di qualsiasi concorrenza. Al ritorno a Fiumicino, lo avevano atteso, come fosse un divo. E lui timido, impacciato, si ostinava a spiegare: «Una partita di calcio resta una partita di calcio anche in capo al mondo, anche su Marte e sulla Luna. Io cerco di giocare sempre con semplicità come quando avevo la maglia del Reggiolo o quella del Parma. Resto un provinciale e non mi dispiace affatto. Io non riesco a polemizzare con nessuno, a parlare male di nessuno. Sono cresciuto in campagna, all’aria libera, tra vendemmiate e corse in bicicletta. Gioco d’istinto e non mi faccio mai male. Mia madre diceva sempre: guarda Carlo che se ti fai male la pianti col calcio e pensi solo alla campagna! Diceva così quando ero bambino, e scappavo anche a piedi nudi, oppure dalla finestra con una corda appesa, per partecipare a una sfida di pallone in cortile… Io mi sono rotto fin qui soltanto un braccio, ma in bicicletta. M’ero messo in testa di fare il Gimondi e sono finito contro un camion…».

RIVELAZIONI. È passato più di un anno dalle emozioni del «Mundialito» in Sud America, dalle prime accurate interviste, dagli inevitabili «ritratti», dalle sue sfiziose rivelazioni di emiliano della bassa. Seguirono altre partite ed altri elogi, le previsioni di Liedholm e di Bearzot, la stima degli intenditori di Milano e di Torino. Tutto crudelmente finito? Col suo ginocchio operato, con quel menisco asportato, Ancelotti ferito sul lavoro, non vuole rispondere, non vuole che brilli la commozione intorno al suo caso. Osserva con la schiettezza di sua madre: «In questi giorni mi sono sentito un monumento… Venivano in tanti, era un pellegrinaggio. Io ringraziavo, le solite parole la solita faccia di circostanza. In certi casi uno non sa proprio come deve comportarsi. Io, poi, ero impreparato. Quando capitava un incidente agli altri ero convinto che a me non sarebbe mai capitato… Invece… Invece in questo campionato gli incidenti si sprecano, c’è una vera e propria nazionale di infortunati più o meno gravi. Così, credo proprio che non si possa andare avanti. Bisognerebbe far qualcosa contro il gioco duro, contro la violenza negli stadi…».

Naturalmente non si riferisce alla sua storia, non porta rancore a Casagrande. «A me doveva succedere punto e basta, mi consolerò con lo scudetto della Roma!». Prova a sfogliare un giornale. Legge un titolo, beve un sorso d’acqua minerale, chiede il giorno e l’ora. Spesso chiede che giorno è, che ora è… comincia l’attesa. Carlo ragazzo di campagna si sente immerso nell’inverno più gelido, nell’inverno più inutile. Lo ha raccontato lui, del resto, quasi in apertura d’intervista. Ora aggiunge che vorrebbe dormire per svegliarsi quando i prati sono verdi, quando potrà correre, saltare, calciare a volontà… Gli dico buona notte e buona fortuna. Roma è buia.