DASAEV Rinat: l’ultimo baluardo dell’URSS

Chi di noi non ricorda Ivan Drago, il celebre pugile sovietico che con sguardo minaccioso e pugni d’acciaio spaventò e non poco Sylvester Stallone e tutto l’Occidente in mio dei più fortunati episodi della saga di Rocky? Proprio in quegli stessi anni di guerra fredda e di un mondo diviso in blocchi contrapposti, l’eco delle imprese di un altro campione iliade in CCCP travalicava la Cortina di Ferro e giungeva fino a noi. Non era biondo e muscoloso come Ivan Drago. Era moro, magro e slanciato, ma il sangue freddo e il tono cupo della voce erano gli stessi del pugile, E anziché parare i micidiali montanti di Rocky, l’altro eroe volava da un palo all’albo per respingere gli attacchi, non meno devastanti, di Marco van Basten, Zico e Michel Platini. Direttamente dalla foce del Volga, ecco Rinat Dasaev, portiere simbolo degli anni ’80 e di una Nazionale che, pur senza vincere nulla, seppe comunque riscuotere il rispetto e l’ammirazione di tutti gli appassionati,

L’UOMO DI ASTRAKHAN

Astrakhan, città della Russia meridionale sul delta del Volga, a due passi dal confine con il Kazakistan. E qui che, il 13 giugno 1957, nacque Rinat Faïzrakhmanovitch Dasaev. Figlio di mia famiglia operaia di etnia tartara, iniziò a coltivare l’amore per lo sport sin dall’infanzia. Sarebbe forse diventato un campione di nuoto, se un’infortunio alla mano non lo avesse convinto a dedicarsi al calcio. Tutto iniziò mi po’ per caso: le prime partitelle con gli amici e le prime parate nei giardinetti sotto casa, lui che, essendo il più giovane di tutti, veniva sempre messo in porta, quasi un pegno da pagare per entrare a far parte della compagnia. E invece si capi che Rinat ci sapeva fare davvero. Il padre, uno che ci vedeva lungo, lo iscrisse alla scuola calcio dell’FC Volgar, la compagine più famosa della città, e così, a 18 anni, ecco l’esordio in prima squadra. Non il massimo della vita, d’accordo, visto che il Volgar era un club dalle modeste tradizioni che viveva ai margini dei grandi palcoscenici, ma senz’altro una buona vetrina in cui Rinat potè esibire tutto il suo formidabile talento.

E infatti non impiegò molto ad attirare l’attenzione su di sé. Lo notò lo Spartak Mosca, la “squadra del popolo”, una grande del calcio sovietico caduta un po’ in disgrazia dopo la clamorosa retrocessione del 1976. Il suo nuovo allenatore, Konstantin Beskov, era stato a lungo compagno di Lev Yasin, il portiere capace di vincere il Pallone d’Oro nel 1963, e sapeva riconoscere subito i grandi numeri uno. Dasaev poteva essere l’uomo giusto per la rinascita. Il 23 maggio 1978, l’asso di Astrakhan debuttava ufficialmente in campionato con la nuova, prestigiosa casacca. Fu una stagione positiva, chiusa con un quinto posto che non solo metteva fine a un periodo di delusioni, ma che candidava anche lo Spartak al ruolo di protagonista in vista dell’anno successivo.

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SOVIET SUPREMO

Il 1979 segnò infatti la definitiva esplosione di Rinat Dasaev, Grazie alle sue parate, lo Spartak si laureò campione dell’Unione Sovietica dopo un memorabile testa a testa con la Dinamo Kiev, mentre a settembre arrivò la prima presenza in Nazionale in un’amichevole con la Germania Est. Il grande appuntamento a cui lui e tutto il popolo sovietico tenevano maggiormente era però l’Olimpiade di Mosca ’80, l’edizione del boicottaggio americano. C.T.. dei padroni di casa era proprio Konstantin Beskov, l’uomo che aveva portato Dasaev allo Spartak e che aveva fatto di lui il pilastro della Nazionale. Fu, in verità, un’avventura piuttosto deludente. I sovietici, grandi favoriti della vigilia, dopo una partenza a razzo si erano arenati in semifinale contro la Germania Est e avevano dovuto accontentarsi della medaglia di bronzo.

Era un periodo controverso, quello. L’isolamento internazionale in cui viveva il Cremlino non permetteva ad appassionati ed addetti ai lavori di conoscere fino in fondo le reali potenzialità del calcio giocato a Mosca e dintorni. Fu dunque una sorpresa un po’ per tutti osservare l’alto livello tecnico mostrato dalla Nazionale ai Mondiali di Spagna ’82. Trascinata dalla classe di Oleg Blochin, un attaccante elegante e rapidissimo, e, soprattutto, da un Dasaev in vena di miracoli, l’Unione Sovietica superò il primo turno e approdò nel successivo girone dei quarti di filiale con Polonia e Belgio, dove solo una differenza reti sfavorevole le impedì di affrontare l’Italia in semifinale. Dasaev divenne “La Cortina di Ferro” e fu unanimemente riconosciuto come il miglior portiere del Mundial, insieme al nostro Zoff. Proprio in virtù di questi successi internazionali, a lui toccò anche il premio di calciatore sovietico dell’anno.

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A UN PASSO DALLA GLORIA

Dotato di riflessi formidabili e di un’agilità felina, era però nelle uscite che il campione di Astrakhan dava il meglio, grazie a quella freddezza che gli permetteva di scegliere sempre il tempo giusto per l’intervento. E poi, altro dettaglio non da poco, era il primo attaccante della squadra. Con la sua straordinaria forza nelle braccia, riusciva infatti a scagliare rilanci potenti e precisi in direzione delle punte, trasformando così ogni palla innocua in possibile contropiede. Il mondo lo ammirò di nuovo a Messico ’86. L’URSS, allenata stavolta dal colonnello Valéry Lobanovsky, giocava il “calcio del 2000”: quel sofisticato sistema che, per automatismi, organizzazione, preparazione fisica e velocità, ricordava mi po’ il “calcio totale” dell’Olanda di qualche anno prima. Avrebbero potuto fare grandi cose, gli Zar, ma, negli ottavi di finale contro il Belgio, il caldo asfissiante di Leon e alcuni sciagurati errori arbitrali rovinarono tutto, costringendo Dasaev e soci a riporre nel cassetto ogni ambizione.

Ci riprovarono, più forti e convinti che mai, all’Europeo del 1988. Il genio di Sasha Zavarov, l’agilita e il senso del gol di Igor Belanov, le sgroppate sulla fascia di Anatoli Demjanenko,le geometrie di Sergej Alejnikov e la potenza di Oleg Protasov: ecco gli ingredienti che fecero di quella Unione Sovietica una tra le Nazionali più temute. Superarono l’Olanda 1-0, con Dasaev imperforabile muraglia, si accontentarono del pari con l’Irlanda e poi strapazzarono l’Inghilterra con un 3-1 che aprì loro le porte della semifinale contro l’Italia. E anche qui, altra lezione di calcio: un 2-0 che forse non espresse del tutto la reale potenza dell’Armata Rossa. In finale, di nuovo di fronte all’Olanda, qualcosa non funzionò. Partita brutta, squadra poco ispirata, energie al lumicino. Prima Ruud Gullit di testa, poi Marco van Basten con quella famosa fucilata al volo di destra da posizione defilata, infine il rigore fallito da Igor Belanov. Evidentemente era destino che quella squadra restasse un’eterna incompiuta.

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IL PORTIERE DI SIVIGLIA

Parziale consolazione, per il nostro Dasaev, il premio quale miglior portiere dell’anno assegnatogli dall’Istituto Intemazionale di Storia e Statistica del Calcio. Arrivato ormai a 31 anni, decise di lanciarsi nell’ennesima sfida: la Liga spagnola. Lo acquistò infatti il Siviglia, un’ambiziosa compagine costretta a vivere all’ombra di Real Madrid e Barcellona, ma non per questo rassegnata a recitare la parte della comprimaria. Lo dimostrò il delirio con cui oltre 2000 tifosi scatenati accolsero il campione al momento del suo sbarco all’aeroporto di San Pablo. Dal freddo di Mosca al sole dell’Andalusia: tutto stava cambiando, nella vita di Dasaev. La prima stagione furono più ombre che luci; meglio andarono le cose nella seconda, quando aiutò la squadra a raggiungere un buon piazzamento UEFA. Ma solo raramente si rivelò decisivo come quando indossava la casacca dell’Unione Sovietica.

Già, l’URSS. Anche li, nulla era più come prima. Il Muro di Berlino era stato abbattuto, i regimi comunisti stavano crollando, mentre la Perestrojka di Gorbaciov non riuscì a ridare vita a un modello economico e politico ormai agonizzante. Ai Mondiali di Italia ’90, l’Unione Sovietica si presentò per la prima volta senza il marchio CCCP disegnato sul petto, segnale che ormai, per il gigante dai piedi d’argilla, si era alla fine di un’epoca. Anche sul campo. Rinat Dasaev giocò la sua 91a e ultima partita in Nazionale in un malinconico sabato pomeriggio, al San Nicola di Bari. La Romania vinse 2-0, lui subì un gol parabilissimo sul primo palo e un altro su un rigore clamorosamente inventato dall’arbitro. Dopodiché fu relegato in panchina.

Tornato a Siviglia, le cose precipitarono. Perse il posto in squadra, affogando le sue malinconie nell’alcool e in compagnie sbagliate. Si separò dalla moglie e, nell’estate del 1991, rimase seriamente ferito in un incidente stradale causato proprio dal brutto vizio che lo stava divorando. Chiuse quindi la carriera e, per alcuni anni, fece perdere le proprie tracce, rapito da un periodo difficile. Ora il peggio sembra passato. E tornato in Russia, ha messo su famiglia con la seconda moglie sivigliana e collabora attivamente nello staff tecnico dello Spartak Mosca. In quanti lo hanno ammirato, resta comunque l’immagine di lui in completo giallo, mentre, sull’attenti, ascolta le note dello splendido inno sovietico.