FIGO Luis: vuoi un passaggio?

La vita di Luis Figo è stata un viaggio continuo, fatto di dribbling, finte e soste, tutte vincenti.

Da Lisbona a Barcellona, da Madrid a Milano, il ragazzo del ’72 ha lasciato il segno ovunque, non senza procurare tumulti, come contratti firmati per due squadre diverse o teste di maiale gettate in campo. E ha regalato palloni perfetti a tutti, perché in compagnia si viaggia meglio

In fondo, è stato più difficile prendere tutti i giorni un autobus e poi un traghetto, e poi un autobus ancora. A 12 anni, da solo. Correndo, ovvio, dribblando passanti e pendolari con la borsa stretta tra le mani, perché se devi prendere tre mezzi il rischio di arrivare tardi è sempre dietro l’angolo. Come un difensore arcigno. La strada è stata il suo mezzo per arrivare in area, e non in senso metaforico. Il resto è venuto naturale. Viaggiare più e più volte, senza sosta, dal centrocampo verso la porta avversaria, come un gregario che per caso ha anche stimmate da capitano, trovando sempre qualche imprevedibile scappatoia per non perdere il bagaglio-pallone, per poi regalarlo con un cross o un assist perfetto al compagno fortunato. Per lui, questo sì, era un giochino da ragazzi.

Luis Filipe Madeira Caeiro Figo è stato uno dei giocatori più forti del pianeta. A stare bassi, è nei primi dieci nella speciale classifica degli uomini dell’ultimo passaggio. Divide con David Beckham la corona di miglior cross del mondo, solo che in più aveva una facilità sorprendente nel saltare l’avversario. Figo è stato uno schema: tu gli davi palla, lui s’inventava qualcosa di inarrestabile. Figo è stato, anche, una miscela di sentimenti forti ed emozioni. E infatti ogni volta che ha lasciato una squadra sono successi (a volte anche per, chiamiamole così, leggerezze sue) pasticci, tumulti, persino teste di maiale gettate in campo. Lo vedremo. Eppure, parlando di lui, non c’è stato amico o rivale eccellente che non abbia messo sullo stesso piano le sontuose doti tecniche con quelle umane. Per tutti Figo è un genio del pallone e al contempo un altruista, un grande lavoratore, un carattere di ferro. Uno serio. Un professionista, insomma. Figo è il sommario di come si possa coltivare ed ingigantire il talento con il sudore. E su quella strada di autobus e speranze che il piccolo Luis forma tenacia e determinazione.

È da lì che parte per vincere tutto, o quasi. Da Cova de la Piedade, sobborgo operaio di Almada, piccolo paese tra l oceano Atlantico e il Tago. Lisbona è dall’altra parte del fiume, attaccata ma distante. Luis inizia a tirar calci nelle vie di Cova circondate da case popolari, dove vive chi non va spesso in vacanza, come suo padre piccolo commerciante e sua mamma sarta. A 10 anni entra a far parte di una squadretta: l’Os Pastillhas. Dirà: «Perdevamo sempre 10-0, 10-1, ma sono grandi ricordi, le prime partite con gli amici d’infanzia non si dimenticano mai». Poi la società, in difficoltà economiche, chiude. L’amico del cuore, Miguel, che gioca nello Sporting Lisbona, gli chiede di fare un provino. Luis non vede l’ora: a 12 anni prende quei mezzi là per andare ad allenarsi. Son chilometri, tra andata e ritorno, e poi c’è la scuola.

Passano i giorni e non gli dicono nulla. Dopo un mese sbotta: mi prendete o no? Lo prendono, e chissà cosa aspettavano. Nello Sporting ci gioca 10 anni. Aurelio Parreira, il suo primo tecnico, dirà: «Era un adulto-bambino: molto regolare, metodico e tenace». E lui: «Chiaro, fare tutti quei viaggi da solo per il calcio e la scuola mi ha dato un gran senso di responsabilità. Diventi adulto per forza e molto prima degli altri ragazzini». Diventa presto anche un calciatore vero: a 16 anni debutta in campionato e dopo poco non esce più di squadra. E nemmeno dalle nazionali, dove comincia a farsi la bocca con i trionfi, che lo Sporting purtroppo per lui subisce il Porto e il Benfica. Vince l’Europeo Under 16 e arriva terzo al Mondiale Under 17. Poi è vice campione d’Europa under 18, trionfa nel Mondiale Under 20 (’91) battendo il Brasile in finale ed è secondo all’Europeo Under 21 (’94) battuto dall’Italia per un golden gol di Orlandini al 97′.

Figo è la stella di quella generazione di giovani fenomeni chiamati i ragazzi del ’72, anche se del ’72 ci sono soltanto lui e Rui Costa. Qualcuno si ferma lì, come Peixe. Altri rispettano le promesse, come Fernando Couto, Rui Costa appunto, Paulo Sousa. E lui. Ma dato che in dieci anni di Sporting ha vinto soltanto una coppa di Portogallo (’94-95), il giovane Luis decide che è il caso di lasciar da parte gli affetti e scartare via, su un’altra strada. Porterebbe ali Italia, dove ci sono già i suoi compagni citati, ma davanti al bivio sembra non decidersi. Firma sia per il Parma che per la Juve. E’ il Parma a muoversi per primo, accordandosi con il procuratore José Veiga. Pare tutto fatto. Ma poi si fa avanti la Juve, tramite l’amico in bianconero Paulo Sousa. «Mi trovai in una stanza con Paulo, Giraudo, Moggi e Bettega. Mi misero addosso tanta pressione, un contratto con cifre che non avevo mai visto e una dichiarazione d’intenti che firmai. Ma mi pentii subito dopo e mostrai il foglio al mio agente. Un pezzo di carta senza valore».

Bisogna dire che Figo il pasticcio lo ha combinato, ma all’epoca ha solo 22 anni, non si è mai mosso da casa e non aveva ancora avuto a che lare con tipacci alla Moggi, che intanto s’accorda con lo Sporting. A gennaio ’95 sia Parma che Juve affermano: «Figo è nostro». Finisce male: Figo accusa la Juve e giura fedeltà al Parma, che ha il contratto depositato. Però interviene la Federcalcio: Juve bocciata, ragione al Parma, ma Figo squalificato due anni dal campionato italiano per essersi messo d’accordo con due squadre. Può arrivare soltanto nel ’97, ma a quel punto il Parma rinuncia al contratto. Finisce male per le italiane e per il calcio italiano che dovrà aspettare non due ma dieci anni per vederlo, nell’Inter.

Non per lui. Contestato anche dai tifosi dello Sporting, che si sentono traditi perché adesso gira voce che possa andare al Benfìca, Figo trova un grande estimatore, Johan Cruijff, che lo porta al Barcellona («lo seguivo da tempo»). E’ la sua fortuna, è la prima strada verso la gloria. Lui gioca come un califfo, a fianco di capitan Guardiola e poi di Ronaldo, Rivaldo, Kluivert. A destra, più centrale o a sinistra. Fa lo stesso, anzi è dalla mancina che crea le cose migliori. Con la maglia numero 7, sforna dribbling e assist in produzioni industriali. Ha tutto: classe, potenza e regolarità. Fa diventare una bella squadra una grande squadra. In cinque anni, dal 95 al 2000, con Cruijff, poi Robson e Van Gaal, vince due Liga, due coppe del Re, una coppa Coppe (nel ’97, rigore di Ronaldo contro il Psg), una Supercoppa Uefa, una Supercoppa spagnola. Jorge Valdano a quel tempo dice: «Figo ci ha abituati così bene, che quando fa una partita normale tutti pensano che stia giocando male». Ormai è stra-Figo, per tutti. Viene inserito tra i candidati al Pallone d’oro, mentre nell’estate del 2000 ci sono gli Europei.

I ragazzi del 72 sono cresciuti, ci credono davvero. E si vede subito alla gara d’esordio con l’Inghilterra. Beckham contro Figo. Proprio il bel David lancia i leoni con due assist a Scholes e McManaman. Europeo da incubo? Figo non ci sta: accorcia le distanze con un gran gol da 40 metri e poi con Rui Costa trascina la squadra. Non c’è fado nelle gambe lusitane, ma allegria e ambizione. E c’è persino, udite udite, uno che la mette dentro: Nuno Gomes. Che completa la rimonta agli inglesi e poi, grazie agli assist di Figo, porta la squadra fino in semifinale con la Francia. Ma un rigore contestato di Zidane spegnerà i sogni. La nazionale resterà la più grande delusione per Luis Filipe Madeira Caeiro.

La generazione di fenomeni non è riuscita a entrare nella storia dei grandi. Nemmeno quando ha avuto la ghiotta chance dell’Europeo in casa, nel 2004. La squadra era forte, l’entusiasmo alle stelle: si fermarono all’ultimo gradino, in finale con la Grecia. Lacrime, come solo i portoghesi sanno versare. Figo: «La ferita c’è stata, ma poi l’abbiamo considerata un’opportunità dalla quale ripartire». Verso il Mondiale 2006, suo ultimo spettacolo in nazionale, mentre si affacciavano altri fenomeni altrettanto perdenti con la maglia del proprio Paese. Beh, in Germania, là dove trionfa l’Italia, il Portogallo si ferma ancora una volta in semifinale, contro la Francia e per un altro rigore di Zidane. Coincidenza letale. Per Figo è abbastanza. Si deve arrendere al destino che li vuole belli e perdenti.

D’altronde i portoghesi sono brasiliani che non contemplano il gol, artisti del pallone senza solisti della rete. Se vogliamo trovare un difetto allo stesso Figo, è quello di segnare poco. Quando li fa, i gol sono bellissimi: punizioni- compasso, sassate precise da lontano, appendici a un slalom irrefrenabile. Ma non e il suo mestiere, il suo è far segnare. Figo diventa grandissimo quando ha un terminale adatto da servire. E qui torniamo al Barcellona, ai suoi primi trionfi con Ronaldo e Rivaldo, appunto. E al 2000, quando dopo l’Europeo diventa un grimaldello politico con il conseguente putiferio. Succede che a Fiorentino Perez, candidato alla presidenza del Real Madrid, venga l’idea di acquistare Figo dagli acerrimi nemici.

Annuncia che se verrà eletto, Figo passerà alle merengues. Il giocatore è ambizioso, inutile nasconderlo, ed è d’accordo. Beh, Perez diventa presidente del Real e Figo viene acquistato per 140 miliardi di vecchie lire. Record storico, battuti i trasferimenti di Crespo (dal Parma di Tanzi alla Lazio di Cragnotti per 110), e Vieri (dalla Lazio all’Inter di Moratti per 90), quando il calcio italiano è ancora il meglio che c’è. Apriti cielo, i tifosi del Barcellona sono inferociti, tanto che in un Clasico al Camp Nou gettano in campo una testa di maiale arrostito mentre Figo sta battendo un corner. Dirà: «Un giorno che non dimenticherò mai, per tutta la vita. Un brutta esperienza che però mi ha arricchito. Credo che nessun artista o sportivo abbia avuto un trattamento simile. Centomila persone che ti urlano contro: penso sia un record. La gente ha reagito così violentemente a causa della campagna di stampa. C’era qualcosa di premeditato. Hanno fatto di tutto perché il pubblico mi trattasse in quel modo. Per non parlare della sicurezza… Non riuscivo nemmeno a tirare i corner. Credo che la società non si sia comportata bene con me perché ho sempre dato tutto quello che potevo alla squadra ma era arrivato il momento di pensare a me e alla mia famiglia. Non mi sono mai pentito di quella scelta: ero andato al Real per avere più prestigio e per vincere». Così sia.

Al Real ci sono già la bandiera Raul (che ha il suo adorato 7 sulle spalle, lui deve optare per il 10), Roberto Carlos, Hierro, Sanchis. Ma Figo è il primo Galattico di Perez. In serie arriveranno gli altri: Zidane nel 2001-02, Ronaldo nel 2002-03 e Beckham nel 2003-04. Figo si porta avanti col lavoro: mentre viene premiato col Pallone d’oro 2000, per quello che ha fatto con il Barcellona e in nazionale, vince subito la Liga col Real, e diventa un simbolo per i tifosi madrileni. Con tutte quelle polemiche, l’identificazione con la squadra è più veloce e naturale. L’anno dopo si porta a casa pure il Fifa World Player, poi fa l’accoppiata Champions League- Intercontinentale. Secondo lui, la sfida a Yokohama con l’Olimpia Asuncion è una delle sue partite più riuscite. Tra le belle cose, regala a Guti il pallone del raddoppio. Poi, vince ancora una Liga. E nel conto mettiamoci pure una Supercoppa d’Europa e due Supercoppe di Spagna. Ammetterà: «Cinque anni fantastici, dove ho vinto tutto. Mi sentivo il giocatore più forte del mondo».

Beh, in quel periodo era di sicuro tra i più forti. Anche a livello mediatico: per le vittorie e le polemiche, per la sua personalità, per l’ammirazione delle donne. Figo è sempre stato un sex symbol, ma desiderato più come marito che come amante. È un tipo rassicurante, non solo per i compagni. Anche in amore la fortuna se la suda. Incontra la top Helen Svedin a un balletto di Joaquin Cortes. Le dà il numero di telefono. Lei non lo chiama. Si ritrovano a un match di boxe e lui, umilmente, ci riprova e questa volta fa centro. Un corte serrata andata a buon fine (matrimonio nel 2001, tre stupende figlie), come quella che fa Massimo Moratti a lui per portarlo all’Inter. È la volta buona per l’Italia perché Figo sente che è il momento di cambiare aria, che non è più apprezzato a Madrid.

Quando sbarca a Milano, nell’estate del 2005, davanti a 14 telecamere e 57 cronisti, dice: «Quando mi introdusse nell’ambiente madridista, Perez disse che ero nato per giocare nel Real. Bene, ora posso correggerlo: in realtà sono nato per giocare nell’Inter». Una frecciata, per questo motivo: «C’era un tecnico che non mi stimava (Luxemburgo, ndr), capita, ma la società non ha fatto niente per fargli cambiare idea. Ecco perché Perez mi ha deluso. Nessun rancore, ma certo lui mi ricorderà tutta la vita». Certi campioni, abituati a lottare, non riescono a pensare al tempo che passa e dunque giustificare la fine di un amore. Figo ha 32 anni suonati quando arriva all’Inter, ovvio che i suoi anni migliori siano alle spalle.

Ma lui sa di poter dare ancora molto. Al primo allenamento, dice ai preparatori atletici: «Fatemi volare». Così, tanto per smentire chi pensava fosse venuto a Milano in prepensionamento. «Non avevo altro modo di dimostrare agli scettici che si sbagliavano: lavorare, lavorare, lavorare». Dice anche che in qualunque posto sia stato, ha sempre vinto. E’ di parola: lo fa anche all’Inter, all’asciutto da quel dì: 4 scudetti, il primo ricevuto da Calciopoli. Ah, tra l’altro fu lui ad attaccare sua santità Moggi per primo, quando in un’Inter-Juve lo vide transitare dalle parti dello spogliatoio di Paparesta. Venne multato di 5 mila euro. Quando condannarono Moggi, li rivoleva indietro. Anche per questo, è amore pure con i tifosi dell’Inter. Un po’ meno con Mancini, quando si sente messo in disparte. Dirà: «A volte da lui mi sono sentito pure umiliato. È brutto, molto brutto, credete, entrare a due minuti dalla fine in una partita che l’Inter sta vincendo 2-0 (è Inter-Fiorentina, 13 aprile 2008, ndr). Ed e successo molto altro».

Paradosso, quando le cose non andavano bene, tra le critiche c era l’egoismo: «Egoista io, che ho passato la vita a fare assist?». Per questo, nel 2007 sembra proprio tutto pronto per rifare le valigie, destinazione Arabia, Al- Ittihad. Un’altra firma disattesa. «Sono successe tre cose: problemi col club arabo, l’affetto dei compagni e dei tifosi: il giorno della festa scudetto quando invocavano il mio nome è stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita, e non ne ho avuti pochi. La terza cosa? Non ho saputo dire no a Moratti, una persona unica nel mondo del calcio».

Il resto è storia recente: si ferma, vince, smette nel 2009 ma si ferma ancora, come ministro degli Esteri nerazzurro. Buon per lui, ha sempre messo tra le sue passioni i viaggi, insieme con cinema, sushi, musica R&B, teatro e cultura in generale. Figo è un tipo freddo all’apparenza, un giorno ha detto che non ricordava un giocatore che fosse riuscito a irritarlo in campo. Invece è sensibile: è ambasciatore Unicef e ha creato la Fondazione Figo per i bambini disagiati. Quelle strade dell’infanzia le ha sempre portate con sé, non ha dimenticato. E nei dribbling, nei regali-assist ai compagni-amici, è rimasto incollato quel primo calcio fatto di gioia e fantasia. «Mai si arrende e mai si ripete / e in ogni strada è un bambino / con la maglia numero 7». E’ una poesia di Manuel Alegre. È lui. Figo.

Testo di FABIO BIANCHI