GIAMPIERO BONIPERTI – Intervista settembre 1984

“È diventato il campionato più bello del mondo? No, lo è ritornato, come già era ai tempi di Nordhal, Liedholm, Wilkes, Nyers, gli Hansen, Martino, Praest. Noi della Juve siamo pronti, ma la concorrenza è terribile. E soprattutto…”

LA FIGURA DI BONIPERTI è stata tratteggiata mille volte in modo enfatico e ridondante, quando, addirittura, non se n’è approfittato per farne il simbolo di un sistema patronale che vie­terebbe libera espressione o nel­la migliore delle ipotesi la con­dizionerebbe. Boniperti, in fun­zione di figura secondaria, an­che se investita di poteri decisionali, se non altro sul piano tecnico e perfino su quello fi­nanziario. Secondo me, il gior­nalismo sportivo traversa un momen-taccio in concomitanza agli arrivi stipati e frettolosi nella stazione centrale formati­va del cronista, che non si può improvvisare; e noi dell’altra generazione sappiamo quel che ci è costato imparare il mestiere.

È diventato tutto tremenda­mente facile e molti scrivani (!?) d’oggidì, i quali si spartiscono la giornata tra lavoro giornalistico e lavoro effettivo, non so, im­piegati municipali, bidelli, par­rucchieri, tassisti e così via, ignorano spesso la storia del calcio nostro, che fu scritta an­che da fior di cronisti negli anni antichi, su queste colonne da cui ho l’onore di scrivere, da cam­pionissimi come Carlin, Slawitz, Brera, Rognoni, Biancardi, e in ultimo un Cucci prima di Bortolotti, i quali arrivarono alla pagina scritta in mezzo a fatiche e sofferenze di apprendi­stato. Non si trattava di virgo­lettare, ma di scrivere; bisogna­va sapere di sport; anche un Emilio Colombo sapeva di sport; per non dire, poi, un Bruno Roghi o un Emilio De Martino nei giorni che volgeva­no tumultuosamente verso la guerra. E proprio negli anni dopo il conflitto, che così tanto doveva segnare il modo di vive­re e di pensare, cominciandosi e sventrare l’Italia, facendone un cantiere immane di autostrade e di grattacieli nell’inseguimento del mito America (ahimé le linee ferrate rimanevano sempre le stesse e ce ne accorgiamo oggi negli anni ottanta), spuntò il biondo alfiere della Juventus: Giampiero Boniperti di Barengo. Esordì quell’inverno del ’47 con una sconfitta casalinga; era un centravanti dal piede relativamente piccolo, ne abbiamo parlato recentemente per le stra­de di New York; aveva enorme facilità di calcio al volo e comin­ciò a segnare un sacco di gol. Dovevano essere 177 dopo 444 partite in serie A con la «sua» Juventus.

L’ALFIERE. Sono stato io stes­so a sollecitare questo articolo al direttore, che giustamente l’ha approvato; e l’avverbio è usato per tutte le riflessioni che gli sono costate, di fare, cioè, del presidente della Juventus, l’al­fiere contemporaneo del calcio. Un lungo tragitto, percorso pressoché in solitudine, non fi­dandosi di nessuno, lottando come un manager contro le insi­die dell’ambiente che favorisce nettamente ogni forma di furboni e furbetti e la buona fede, il lealismo, il sentimentalismo, l’integrità, considera fredda­mente e cinicamente qualità ne­gative.
È stato Umberto Agnel­li, a New York, stadio dei Gi­ganti, a definire ufficialmente Boniperti il presidente «ideale» della storia della Juventus, pro­prio lui, il figlio di Edoardo vincitore di cinque scudetti pri­ma che il suo stesso amore per lo sport lo sottraesse prematu­ramente alla famiglia, con la testa scoperchiata da una elica di monoplano nella diga fora­nea di Genova dove ammarava insieme al suo idolo Arturo Ferrarin. Lo sport è male di famiglia, famiglia Agnelli.
Gianni l’avvocato è stato il pre­sidente che ha riportato la Ju­ventus ai fastigi attuali, acqui­stando, subito dopo quella acce­cante fiammata di Superga, John Hansen e Praest e ricosti­tuendo una Juve imbattibile.
Umberto è stato il più giovane presidente della Juventus, in giorni socialmente tormentati recuperando la squadra suo amato bene alla gloria assoluta, con Sivori e Charles e dando prova di equilibrio politico-sportivo anche come presidente della Juventus. Personalmente, considero Umberto Agnelli me­no umorale e più competente di Gianni; che ha tanta fantasia e resta fin troppo colpito dai sin­goli fuoriclasse. E la Juve ne ha avuti tanti. Ma io qui scrivo che il suo fuoriclasse più grande è stato Boniperti.

POCHI AMICI. Dico come di­rigente, precisa emanazione del calciatore che era. Juventino, perciò ed in certo modo aspro, quasi inaccostabile, diffidente per principio di tutto e di tutti, sorridente a salvadanaio ma in fondo incapace di gesti sponta­nei. Egli è lastricato di calcio, direi perfino il sorriso. Ha pochi amici tra i giornalisti, che non ha mai amato. Diffida dei gior­nalisti assai più di se stesso. Cura infatti se stesso, al punto che non s’è più mescolato alla truppa dei calciatori, per quan­to a New York lo abbia visto scendere in campo e allenarsi facendo muro per oltre mezz’o­ra: «Me l’ha insegnato Mazzola» mi gridava, cioè il padre di Sandro, l’imbattibile sulfureo navigatore dei campi e della vita, inviso a Pierone Rava, Valentino Mazzola. Che uomo sia Boniperti non è facile spiega­re, il dirigente di calcio della Juventus nella sua storia è stato due persone, nessuno dei due protagonisti, se ci pensate bene, nemmeno Boniperti lo è o lo vuole essere.
La prima di queste due persone fu Giovanni Mazzonis, che non era nobile, ma si faceva chiamare conte (l’altra, il presidente Edoardo Agnelli). Quella era la Juve dei maggior­domi in guanti bianchi nella patrizia sede di piazza San Car­lo; ed era la Juventus emblema del successo sociale; che a Muno Orsi, primo divo juventino, corrispondeva otto mila lire al mese e una auto Fiat, nonché una villa principesca e un mag­giordomo. Sì dirà: altri giorni. Sicuro.
La Carta di Viareggio non definiva chiaramente i con­fini tra professionista e dilettan­te del gioco del calcio.
Il fuoriclassse veniva pagato ad libitum dal mecenate. E doveva essere proprio Gianni Agnelli ad intui­re la svolta storica alla fine degli anni 60; lui decideva di richia­mare Boniperti dopo un certo periodo formativo e di affidargli la società, rimandando l’umile e indecifrabile Giordanetti, uomo tuttavia onesto e fedele, a compiti secondari. L’apprendistato di «Boni» era stato anche duro. Aveva sbagliato alcuni acquisti; tra gli altri, quello di Nené preso come centravanti; e dello stesso Miranda; ma rientrava ambiguosamente, avvolto di tutto il suo mistero, come calciatore gli avevano affibbiato nomignoli anche ingiuriosi, lui che aveva sposato una creatura stupenda, una ragazza meravigliosa, di quelle che danno un senso a tutta la vita. Boniperti subentra­va a Giordanetti in momenti di caduta della squadra; il caballero appassionato Carniglia ave­va fatto ridere tutta l’Italia.

IL GRUPPO. «È difficile – dice oggi Boniperti – parlare del mio lavoro alla Juventus. Preferisco che siate voi a parlar­ne, voi giornalisti in buona fede, tu ad esempio. Io ho subito impo­stato i problemi secondo idee precise. Ho creato un gruppo, dal 1971 quando sono diventato pre­sidente ad oggi, questo gruppo è rimasto compatto, salvo ringio­vanirsi e potenziarsi come detta­no i tempi. Abbiamo il medico a tempo pieno, credo che sia una delle poche società italiane ad averlo e se ne vedono i frutti positivi. Ma soprattutto colletti­vo in tutti i sensi e meglio ancora l’asso al servizio del collettivo».
Fu fin dal periodo da ammini­stratore delegato, ancora nel ’70, che Boniperti lesse il suo proclama e cioè che la sua Ju­ventus abdicava agli schemi del passato, per cui anche un Causio doveva aderire in pieno allo spirito cooperativistico.
La svolta delle società per azioni era destinata ad essere fumo, ma la Juventus da Catella a Boniperti cambiava drastica­mente; da una parte, l’oratore piacevolmente dannunziano o gozzaniano, dall’altra, il mana­ger passionale ma logico, tifoso dei colori ma incredibilmente neutro in tutti i rapporti di lavoro, convinto che una società funziona quando uno solo comanda, e pochi altri obbedisco­no.
Fin dal suo apparire come manager-presidente, Boniperti forgiava questa società modello dei tempi nuovi, con un organi­gramma essenziale: il presiden­te, il direttore generale, il medi­co, l’allenatore, il segretario am­ministrativo.
Uomini che tutti conoscono. Pietro Giuliano, fatto perfino a somiglianza di Boniperti, appena un po’ più cordiale; Francesco La Neve, lanciato giovanissimo nell’av­ventura come medico sportivo a tempo pieno (il primo d’Italia); disavventure ed anche tragedie tolsero ad Armando Picchi il bastone del comando; attraver­so il fidato Vycpalek e il cavallo di ritorno Parola, si doveva arrivare all’allenatore ideale, cioè a Trapattoni; e la scelta del segretario amministrativo dove­va precedere quella del direttore sportivo; cioè il bancario Sergio Secco, affilato messere che ha l’hobby della montagna oltre a quello dei numeri, e Ciccio Morini l’ex stopper che come diret­tore sportivo per moltissimi mo­tivi, giustamente, è stato preferi­to al più popolare, un po’ mefi­stofelico José Altafini.

TERRIBILE. Boniperti è un dirigente terribile; l’aggettivo vuol rappresentare le sue virtù di dirigente che sono eccelse. E un uomo nato nel calcio, strati­ficato di calcio. Mi rivedo con lui a Catanzaro, dopo quello scudetto strappato all’ultima giornata alla concorrenza di una fierissima Fiorentina; l’ex presidente del Catanzaro di no­me Merlo si era presentato agli ingressi inalberando una cravat­ta viola; e ai suoi giocatori aveva tenuto un fiero discorso spronandoli a fargli dono esclu­sivo e personale di quel succes­so. Vinse la Juventus, giocando una partita autoctona, come i bianconeri sono abituati a gio­care, oggi con Scirea capitano come ieri con Furino capitano; una partita autoctona, da pro­fessionisti che non si fanno illu­sioni e per i quali la Juventus è tutto. Se un Platini e un Boniek sono stati assorbiti è perché il nucleo respira questo clima; Scirea è il seguito di Furino e la testimonianza del buon lavoro di Boniperti.
Boniperti non si fida di nessuno. Viaggiamo per New York nell’auto di un singolare cronista statunitense che è di origini greche; Giampiero si lascia andare a molte confiden­ze; alcune figurano in questo articolo; ma non ci dice che Paolo Rossi aveva già firmato perché attendeva di dirlo a «tut­ti» i cronisti, senza parzialità.
La Juve si è preparata a questo campionato «anche» con questa tournée americana, per motivi di scaramanzia, perché Boni­perti è superstizioso in modo esagerato, nonché cattolico. Io sapevo di trovarlo alla mattina nella chiesa vicina all’albergo dove alloggiava la squadra e immancabilmente ce lo trovavo. Cattolico, apostolico, romano, come un italiano di tempi anda­ti ormai raminghi; nemmeno le città di allora esistono più; ma Boniperti è contadino; è tradi­zionale; non cambia mai; ha pochi amici; diffida dell’ombra sua; gli piace parlare di calcio, ma non ufficialmente.

L’INTER FA PAURA. Se poi lo fa, in questi giorni in cui il campionato più spettacolare forse della sua storia a girone unico rinasce, con i più forti stranieri del mazzo, lo fa con queste testuali parole;
«Noi co­me Juventus siamo pronti, lo abbiamo dimostrato. Anche le amichevoli e la Coppa Italia ci incoraggiano a sperare in risulta­ti all’altezza della tradizione. Io direi che abbiamo coperto bene tutti i ruoli, Favero e Pioli, di questo ragazzo sentirete tutti parlare, tu l’hai paragonato a Giaroli che è stato un grande terzino e hai fatto bene, provve­dono ai reparti arretrati; poi un gran cursore come Limido; e poi Briaschi. Le nostre scelte sono sempre ispirate dal tecnico e tu sai quanta fiducia abbiamo tutti noi nel lavoro e nella serietà di Trapattoni».
– Ma davvero Giampiero le altre squadre si sono potenzia­te? O non è tutto fumo d’estate?
«Altro che fumo! Si sono poten­ziate, oggi il nostro campionato è davvero il più bello del mondo. Cioè lo è tornato, perché ai miei tempi di giocatore lo era già, tu ricordi, hai pochi anni meno di me, i giorni di Nordhal, Liedholm, Wilkes, Nyers, i nostri John Hansen, Praest, Karl Hansen, Martino; e poi Soerensen, è praticamente un ritorno al passa­to. Agli italiani piace il bel cal­cio».
– Per la Juve sarà dunque più dura rivincere lo scudetto?
«È sempre dura, ogni scudetto è tanto lavoro, tanta sofferenza, soprattutto per me. Io non ho mai scelto uno scudetto ad un altro. Ne ho vinti parecchi, sia da giocatore che da presidente».
– Cinque da giocatore e otto da presidente, così che Umberto Agnelli ti definisce il presidente ideale della Juventus. Ma il punto non è parlare del passato ma del futuro, cioè del prossimo scudetto.
«Il campionato si è fatto più incerto. Ma la squadra lo sa. Siamo pronti».
– Quale squadra si è veramente potenziata?
«Sono diverse, nelle bocche di tutti. Inter, Fiorentina, Verona e Napoli, ma io dico che la coppia di stranieri che più fa paura è quella dell’Inter, cioè Brady-Rummenigge…».
– Perché?
«Perché Brady lo conosco bene, ha tanto orgoglio… E perché il tedesco non lo scopro io, è un fenomeno».

JULINHO E PLATINI. Così parla Boniperti, esaminando il campionato che va a comincia­re, zeppo di interrogativi e di fascino. E dice tante altre cose, in relazione alla classe che nel suo concetto è connubio di stile e rendimento, per cui elegge Platini tra i campioni più straor­dinari mai visti giocare, anche se non si sente di formulare una squadra ideale, come io doman­davo.
Dice testualmente: «Sia da giocatore che poi da dirigente ho visto tanti campionissimi. I giornali hanno le loro esigenze, ma noi dirigenti dobbiamo sfor­zarci di essere equilibrati in ogni risposta, parlando meno che si può. Io, come sai. concedo poche interviste. Non amo chiacchiera­re. E poi, come farei a darti gli undici migliori della mia vita? Per necessità di cose, per motivi anche affettivi, dovrei inserire taluni giocatori e tralasciarne altri. Ma io ti dico che uno Julinho è tra i più grandi fuori­classe che ho mai visto giocare, solo che i mass media negli anni cinquanta non funzionavano bene come funzionano oggi. E allora? Preferisco non fare nomi. Ma tu insisti e ti dirò quel che penso di Platini. È un fenomeno. Michel sa fare tutto in modo perfetto. Sa fare il gol e sa fare l’assist. Tu dici che non ha continuità, che ha bisogno di pause, ma quale asso non ha avuto bisogno di pause, nessuno escluso? Platini segna anche di testa come ho visto fare a pochi. Quel suo gol al Torino nel derby l’anno scorso l’ho visto fare a pochissimi, per non dire ad uno solo… spero che insieme a Boniek e al gruppo ci regali finalmente la Coppa Campioni».

IL FUTURO. Tutti sanno che Boniperti considera Valentino Mazzola il più grande asso mai avuto dai calcio italiano. Nella nicchia di nostalgie e di senti­menti che è il cuore di questo piemontese dagli occhi chiari, così amico degli umili e così diffidente con i supponenti e i teorici, c’è posto per tante cose; il cuore di un uomo è insondabi­le come l’oceano.
Tanto più nel caso di un prototipo che ha costruito la sua vita in modo rettilineo, senza quasi mai sgar­rare, la gioia della famiglia ed il sentimento della fede, l’amore per la stessa donna, la ripetizio­ne di gesti fatti mille volte.
Boniperti è anche una gran bella famiglia, lungamente attesa, due maschi e una femmina; qualcuno opina che il regno dei campioni-manager stia per fini­re ora che i Pellegrini e Farina sembrano oscurare i Mazzola e Rivera e che nuovi assi stranieri intervengono a modificare piani e prospettive. Ma per me il problema è sempre quello di registrare una società nel respi­ro dei tempi, nel rispetto del pubblico, risparmiando e non dilapidando. Il calcio nostro è stato sempre ammalato di ele­fantiasi, oggi più che ieri. E non so proprio predire il futuro di chi è subentrato a fior di galan­tuomini con idee più moderne e portafogli imbottito.
La Juven­tus rimane la società modello di un paese che in troppe cose non lo è; forse perché nel suo andare rettilineo non ha mai inseguito vacue chimere. Negli Anni Trenta, Giovanni Mazzonis che si fingeva conte era modernista come lo è Boniperti oggi e per­sonalmente non gli vedo eredi; a meno di voler stracciare il pro­gresso come si fa con la carta straccia. E gli Agnelli amano la Juventus come la pupilla dei loro occhi…