GIGI RIVA – LA STORIA DI ROMBO DI TUONO

Capitolo Primo


«I miei gol li dedico sempre alla Sardegna. Ho avuto e continuo ad avere una regione che mi segue, che gioisce con me se gioco bene e forse soffre se gioco male. E’ un discorso che va oltre il calcio. Ed io me ne sento profondamente partecipe. Non sono nato a Cagliari ma è come se lo fossi. Non è neppure un debito di riconoscenza: è un amore ricambiato. Sento l’amore dei sardi verso di me, lo sento quando sono in campo e quando calcio a rete. Mi aiuta, mi dà forza. A Cagliari non mi sono affezionato solo ai colori rossoblu della società: hanno un valore infinitamente minore dell’amore della gente umile. E’ a questa specie di comunione fra me e la Sardegna, per nulla legata al calcio, che io do valore. Dopo aver conquistato lo scudetto potevo andarmene dalla Sardegna, ma avrei tradito i pastori che arrivano allo stadio in sella a biciclette sgangherate e che mangiano fuori dalle mura di cinta pane e formaggio, le donnette vestite di nero che mi portano fiori all’aeroporto quando sto per partire o che mi invitano a tenere a battesimo il nipotino. Sono il simbolo di una regione che mi ha eletto figlio adottivo. Così sono rimasto e credo che saranno questi sentimenti a tenermi legato alla Sardegna ».
E’ giusto cominciare la storia di Luigi Riva, l’uomo nato due volte — prima a Leggiuno, poi a Cagliari — con le parole del protagonista. In esse c’è tutto Riva, ultimo «re di Sardegna», prigioniero dell’isola e felice di esserlo anche se qualche volta ha sofferto per questo suo esilio dorato. Riva, il calciatore la cui valutazione era passata in pochi anni dal milione ai due miliardi, è patrimonio della Sardegna. E’ come se fosse sempre stato sardo, ancor prima di venire alla luce in un tranquillo paesotto dell’Alta Lombardia, quasi al confine con la Svizzera, in una zona dove il contrabbando era fino a tempo fa un’attività come un’altra. La storia di Luigi Riva è la storia avventurosa di un uomo diventato personaggio senza volerlo: la gente, il destino o le circostanze, hanno scelto per lui.
L’alba di Luigi Riva comincia il 7 novembre 1944 a Leggiuno San Giano, un piccolo Comune racchiuso in un guscio a 247 metri sul livello del mare, a cinque chilometri da Laveno sulla sponda orientale del Lago Maggiore, e a una ventina da Varese. Una manciata di case adagiata tra i campi e il verde dei boschi, all’ombra delle colline. A Leggiuno, dove vivono cinquecento anime — oggi superano il migliaio — ci si conosce tutti e non si passa inosservati. C’è una vecchia casa in via San Primo numero 10, con il ballatoio, il cancelletto di ferro, un piccolo giardino con due alberi, un pesco e un nespolo del Giappone. Qui nasce Luigi Riva da umile famiglia e nessuno immagina in paese che l’ultimo rampollo dei Riva entrerà nella leggenda del calcio, segnerà più gol in Nazionale di Peppino Meazza, gloria e vanto del football lombardo e diventerà il super-cannoniere azzurro di tutti i tempi.
Riva nasce di martedì, sotto il segno dello Scorpione, una costellazione che gli astrologi considerano propizia agli atleti. Ma è anche il segno di coloro che, di solito, sono destinati ad un ruolo altamente drammatico nella vita. Riva viene alla luce in novembre quando le piogge d’autunno facilitano la decadenza della vegetazione, preparano il ricco humus che, attraverso la morte apparente, conserverà la vita. Con l’abbandono delle foglie che muoiono nell’oro e nella porpora dei boschi, le linfe si raccolgono alle radici per meglio difenderle dai rigori invernali. Questo è il clima dello Scorpione, un segno d’acqua (Riva nasce vicino al lago). Il destino dello Scorpione, dicono gli esperti, è adeguato al suo carattere: nulla di piatto e di banale. Appassionato, costruisce sull’emozione, sul più forte dei sentimenti: l’amore. Un segno che ci ha dato tra gli altri Lutero, Maometto e Dostoevskij.
Quando nasce Riva c’è la guerra. Sull’Appennino continua a tuonare il cannone e, mentre gli Alleati stanno per sferrare il colpo decisivo alla Germaia di Hitler, l’Italia è invasa dai liberatori. I tedeschi, in fuga, risalgono la penisola, verso il Nord. Manca il pane. Sono tempi duri per tutti, anche per Ugo Riva, barbiere e sarto che si adatta temporaneamente a lavorare in ferrovia, per sua moglie Edis e per le tre figliolette, Candida, Lucia e Fausta.
Ugo Riva ha già fatto una guerra mondiale: a diciassette anni era partito per il fronte meritandosi una medaglia di bronzo al valore. Dopo tre femmine non poteva che generare un guerriero, anzi un bombardiere, ma da terreo di pace.
Finisce anche la guerra e con essa finiscono molti turbamenti. L’Italia, sconvolta, risorge a fatica tra le sue rovine. Si riaprono gli stadi, torna il campionato di calcio, nirvana e passione degli italiani. Riva cresce forte e sano anche se in famiglia si tira avanti con il magro stipendio di papà Ugo. Ci sono molte bocche da sfamare, non sono ammessi gli sprechi.
Luigino va a scuola come la maggior parte dei ragazzi e ci va malvolentieri. Sensibile, intelligente, istintivo, di caràttere poco socievole e incline ad una certa ritrosia, non facile alle evasioni dall’ambiente e al mondo intimo e alle confidenze, preferisce la libertà. Ama scorrazzare con i compagni nei campi o tra i boschi di Leggiuno, a caccia di nidi e di uccelli, o spingersi sino a Laveno, sulle sponde del lago a pescare.
Le finestre di casa Riva si affacciano sulla chiesa di San Primo. Vicino alia chiesa, in stile romanico e con la canonica appiccicata sul fianco, c’è il campo di calcio dell’oratorio. E’ su questo campo, a due passi da. casa, che Gigi scopre il pallone, unico sfogo e divertimento di molti bambini “poveri. La palla è di, gomma; il pallone di cuoio è un lusso.
Finita la scuola, Gigi pranza di corsa e scende all’oratorio e con altri ragazzi gioca fino a tarda sera. E sogna. Dice che diventerà un grande calciatore. E’ innamorato dell’Inter che sta lottando con la Juventus, campione d’Italia, e con il Milan per lo scudetto. E’ l’Inter dei Ghezzi, Blason, Giacomazzi, Neri, Giovannini, Nesti, Armano, Mazza, Lorenzi, Skoglund e Nyers.
Il ragazzo è magro come un chiodo ma è spensierato. Ma la vita, all’improvviso, gli si spalanca di fronte agli occhi brutalmente: una realtà nuova, crudele. A nove anni perde il padre, è la prima dolorosa pagina della sua esistenza. Di colpo, in quel freddo 10 febbraio 1953, Gigi perde con il padre, il sorriso di fanciullo.
Ugo Riva muore dopo un incidente di lavoro. Alla fine della guerra aveva smesso di fare il barbiere ed era andato in fabbrica. Un pezzo, sfuggito dalla pressa, lo colpisce come un proiettile allo stomaco. Lo portano all’ospedale ma le cure non gli restituiscono l’integrità fisica. Resta infermo, spira alcune settimane dopo nel suo letto, attorniato dai familiari in lacrime. Da quel momento Gigi si chiude nella sua introversione, un’ombra di malinconia si disegna nello sguardo, una piega amara prende forma sulle labbra. E’ il marchio indelebile che neppure il successo riuscirà a cancellare.
La scomparsa del capofamiglia costringe la madre Edis ad andare in filanda. E in filanda ci va anche Lucia, ancora ragazzina. Gigi, il più piccolo, finisce nei collegi religiosi: a Viggiù, a Varese, infine a Milano al «Tullio Dandolo».
Racconta Riva: «Mia madre non poteva lasciarmi per strada mentre andava a lavorare al posto di mio padre. Così mi ha portato in collegio, il collegio dei poveri non assomiglia a nessun’altra prigione del mondo. Non per il vitto che è forse più scarso che altrove. Non per gli stanzoni che sono squallidi, non per le divise che sono grigie, a nere, e sempre lise. Ma per l’umiliazione che provi, per il sentire che sei lì per beneficenza, per il dover ringraziare il benefattore, la benefattrice, il visitatore che arriva col pacco dono nei giorni di festa. Ci mandavano a cantare dietro ai funerali anche tre volte al giorno, ci obbligavano a pregare per chi ci regalava il pane, ci imponevano l’ubbidienza perché non potevamo permetterci, essendo poveri, la vivacità degli altri bambini. Ho subito anche questa violenza morale, questa umiliazione continua. Ho sofferto la mancanza di libertà e di famiglia, sono scappato più di una volta e, ritornando, ogni volta ho sofferto per due: perché sapevo con quanto dolore mia madre si privava di me».
Finisce la libertà che lui adora. Si, fa struggente la nostalgia per le lunghe ore trascorse a correre per i prati, o sul campo dell’oratorio, quando rincasa tardi, stanchissimo e affamato, con le unghie rotte per aver preso a calci un pallone a piedi scalzi per non rovinare le scarpe, pronto ad azzannare un panino di salame o di formaggio e ricevere anche qualche scappellotto. Sente la mancanza di calore, sente la mancanza del suo mondo.
Un’altra sventura lo colpisce. Mentre la sorella Candida è ricoverata in ospedale per una dolorosa forma di reumatismo articolare, Fausta si reca in bicicletta a Laveno per portarle un po’ di conforto. Una motocicletta la investe di striscio scaraventandola a terra. Anche Fausta viene ricoverata per trauma cranico e rimarrà paralizzata per qualche anno.
La discipina del collegio è ferrea. Gigi si consuma in un misto di paura e di vittimismo. Tutti i giorni sono uguali. Sveglia alle sei, messa, lezioni, ricreazione con quattro calci al pallone, i comandi da eseguire senza discutere. Si ribella, insofferente ad ogni disciplina, scontento di dover studiare, malato di nostalgia per la madre, per il paese, per gli amici, per l’aria libera dei boschi. Un giorno il preside manda a chiamare Mamma Riva. «Signora si riprenda quel suo figlio scatenato». La povera donna, piangendo, si riporta a casa il ragazzo che riesce però a conseguire lo stesso la licenza commerciale.
Uscire dal collegio, superare il cancello ed imboccare la strada verso il paese è per Gigi la liberazione. Sono passati tre anni, «tre anni perduti» dirà poi. La vita in famiglia è sempre dura, difficile; anche lui ora deve lavorare. Trova impiego in una fabbrica di ascensori dove lo mandano ad applicare le bottoniere. Intanto continua a giocare al calcio e la gente si accorge che il ragazzino con il pallone ci sa fare. Gioca con un piede solo, il sinistro. Il destro gli serve per correre.
Il ragazzo matura precocemente sotto i colpi della sventura. Il 19 gennaio 1955, mentre Fausta è immobile in un lettino d’ospedale, muore l’altra sorella Candida. Gigi apprende la notizia tornando dal lavoro. Nessuno lo vede piangere. Le disgrazie che si sono susseguite con tempi e circostanze travolgenti lo temprano, il calcio diventa per lui una «professione» che gli consente di arrotondare il magro salario della fabbrica dove sgobba otto ore al giorno. Nel paesi vicini del Varesotto, verso l’estate, si disputano numerosi tornei. C’è il torneo del prosciutto e quello del formaggino. Riva è conteso. Ogni sera partecipa a due o tre partite, a volte gioca solo nel secondo tempo. Finita la prima partita s’infila frettolosamente la tuta e, sul motorino di un amico che l’ha ingaggiato, va a giocare su di un altro campo. Qualche biglietto da mille finisce nelle sue tasche assieme al burro, ai formaggi, ai salami. Mamma Edis mette tutto quel ben di Dio in frigorifero e sempre più timidamente tenta di opporsi alla passione del figlio che i tifosi hanno battezzato «Luigino lo smilzo». Arrivano altri regali, un paio di scarpe da passeggio, un altro da calcio. Sono i tempi del Brasile di Pelé, Vava, Didi. Riva, beniamino dei paesani, pretende ed ottiene che la sua squadra di Leggluno venga chiamata « Piccolo Brasile ». Non immagina che un giorno egli affronterà Pelé in una finale della Coppa del Mondo, sarà addirittura indicato come il rivale della «perla nera».
Di Luigi Riva si comincia a parlare anche sui fogli locali. La «Cronaca Prealpina» di Varese riporta la notizia che il Leggiuno ha vinto il torneo a sette squadre disputato sul campo sportivo dell’oratorio. Nella finale, vinta dal Leggluno sulla Gaviratese per 8-4, la parte del mattatore spetta al piccolo Riva, autore di quattro gol e «sicura promessa del football italiano».
Dopo i primi calci nel «San Primo» di Leggiuno, Gigi passa al Laveno Mombello. E’ secco come un grissino, ha un gran ciuffo di capelli ricci, perennemente arruffati sulla fronte, possiede una gran «sberla» di sinistro che brucia le mani dei portieri. I dirigenti del Laveno, militante in prima divisione, vengono a sapere che a Leggiuno c’è un ragazzo che promette bene. Carlo Zanardi, dirigente, e Giovanni Spertini — ex terzino del Verbania, del Pavia e del Varese — ora allenatore del Laveno, lo vanno ad osservare a Leggiuno. Poi chiedono a Riva di sottoporsi ad un altro provino, il cui esito soddisfacente li convince che vale la pena di trattare l’acquisto del ragazzo.
Ma non è semplice ottenere da Riva il consenso a cambiare squadra. Non ha ancora compiuto 16 anni però ha le idee chiare: vuole andare a giocare nel Varese che si interessa a lui. Laveno e Varese entrano in concorrenza. Un esponente del Varese promette a Riva che, oltre a trovargli un posto di lavoro fa città, gli regalerà un motorino. Allettato dalla proposta, punta i piedi ma alla fine deve cedere alle offerte del Laveno, anche perché la madre.non è contenta che il figlio si allontani troppo da casa. Il Laveno, per la verità, ha in pugno il cartellino di Riva e si fa forte anche di quest’arnia per farlo capitolare definitivamente.
Il passaggio al Laveno frutta a Gigi Riva ventimila lire d’ingaggio più duemila lire a punto e l’abbonamento gratuito per la corriera LeggiunoLaveno. Alla fine del campionato ha segnato trenta gol ma nessuno si è preoccupato di insegnargli ad usare il destro. Come ai purosangue, gli manca qualcosa per essere perfetto.
Un «talent-scout» dell’Inter segnala il goleador del Laveno ai responsabili del vivaio nerazzurro. Gigi riceve la cartolina di convocazione per un provino al campo sportivo Redaelli di Rogoredo. Pazzo di felicità, la mostra a tutto il paese, poi corre alla sede del Laveno. E’ una grossa ingenuità. I dirigenti gli requisiscono la cartolina. Sono già in trattative con altri, non vogliono che l’Inter si metta di mezzo. Per poche lire Gigi potrebbe indossare la maglia dei suoi sogni, invece resta al Laveno Mombello. Gioca un altro campionato, segna 36 gol, uno. dalla bandierina del corner, proprio come Mumo Orsi. Ha una miniera d’oro, nelle gambe, anzi nel piede sinistro, ma lo ignora. La stagione gli frutta un ingaggio di quarantamila lire che arrotondano la paga di meccanico.
Nel giugno 1962 il Legnano (serie C) riesce ad assicurarsi il «piccolo bombardiere» dal tiro che perfora le reti. Lo paga un milione e mezzo. Gigi, ora diciottenne, non ha tempo di gioire per il suo primo-contratto da semiprofessionista (centomila lire di ingaggio). Un mese dopo, il 5 luglio, la mamma, colpita da un male inguaribile, muore. Un’altra tragedia, la più dolorosa. Gigi è solo dietro il feretro. Il suo volto è impenetrabile.