Giovanni Arpino: Cronache Messicane

16 giugno: Il ritorno di un sogno

L’ultimo sussulto di gioia accadde trentadue anni fa. La voce era quella di Nicolò Carosio. L’onda amplificante della radio scaricò sugli appassionati italiani le gesta di Meazza, Locatelli, Piola, Colaussi. Le gesta degli «azzurri» mondiali. Per chi oggi ha quarantanni, quell’emozione infantile sembra irripetibile. Un sogno può tornare con gli stessi contorni d’un tempo? Forse. Non cabalizziamo. Qui in Messico si tocca ferro ventiquattr’ore su ventiquattro, parlando di football, di Rivera, di Riva. Teniamoci ai dati tecnici, gli unici che possono farsi largo nella giungla delle ipotesi per questa gara Italia-Germania. Con i tedeschi non perdiamo da molti anni. I «panzer» bianchi hanno sempre patito il nostro gioco, il nostro sistema di marcature e di contrattacco, la nostra fantasia imprevedibile seppure casuale. I messicani ci danno vincenti, se non altro per illustrare con maggiori dati critici la sconfitta subita a Toluca. La squadra azzurra è serena, consapevole, vincendo ha spazzato via (almeno sembra) ogni ombra e ogni veleno esterno o interno. Chi parla con i giocatori li vede e li «sente» caricati. Hanno fiato, hanno volontà. I nostri schemi tattici sono elementari, ma non possiamo inventarne lì per lì degli altri, dopo anni di impostazione contropiedistica. La Germania è rispettabile, forte, dotata di immensi recuperi fisici e psicologici (vedi caduta dei campioni inglesi), ma non costituisce una montagna, ha uomini, come Libuda, il vecchio Seeler, il classico Beckenbauer, che bisogna controllare novanta minuti su novanta e sempre con denti da mastino. E ha altri uomini, come Haller, che anche se giocano un tempo solo possono inventare il gol, il passaggio fulmineo, il tocco rapido in area. La nostra Nazionale può comportarsi in due modi. O è troppo deconcentrata per il risultato tecnico già raggiunto, e cioè il posto in semifinale, oppure è troppo ansiosa di dar prova di sé. Sbaglierebbe in ambedue i casi. Se la nostra squadra gioca come il Cagliari delle ultime partite di campionato — disteso, sicuro di se stesso, quasi indifferente alle sorti provvisorie dell’incontro, che sarebbe comunque stato favorevole — allora può vincere anche contro i tedeschi. Se concede spazio eccessivo, se si contrae troppo, allora rischia di sottomettersi a un gioco e a un ritmo altrui molto pericolosi perché continui, mai domati, mai esauriti. La doppietta Mazzola-Rivera, nata forse per imposizione del caso ma determinante, deve poter far testo: perché obbliga gli avversari a mutare gli schemi, perché Sandrino prima e Gianni dopo (o viceversa) instaurano climi diversi ma alla lunga complementari nella nostra compagine. E c’è Riva, che se gira — e deve girare — può far testo e gol di per se stesso. La partita è aperta, tutta da giocare. Rognosissima, impenetrabile alle previsioni. Possiamo anche perdere, certo. Però, in questo momento, gli azzurri vengono guai-dati da tutti con grandissimo rispetto. I tedeschi si sono ritirati a Puebla, a oltre duemila metri, per assimilare un poco la lezione dell’altitudine. Temono il nostro gioco, la nostra difesa, la rarefazione dell’ossigeno, lo stadio Azteca, questo moderno Colosseo, dove si può crollare per il caldo o per l’obnubilamento nervoso. Possiamo perdere, ma sì. Però gli azzurri non hanno proprio niente da perdere, volendo ragionare. Quindi giocheranno come gli è possibile, secondo orgoglio e fiducia nei propri mezzi. Fino ad oggi hanno guadagnato una cifra che si aggira sui sette milioni a testa, la spedizione italiana, raggiunta la semifinale, ha ampiamente recuperato gli ottanta milioni spesi tra viaggio e soggiorno, e i premi per i calciatori, se si passa in finale, aumenteranno ancora. C’è un unico interrogativo: su come i giocatori hanno potuto recuperare in quarantotto ore le energie fisiche o nervose spese nella battaglia col Messico, che è facile solo a considerarla oggi, ma fu « stressante » come nessuna sul terreno. «Contenti del posto a cui siamo arrivati? Ci dovremmo fermare qui? Ma se abbiamo appena cominciato!» ha detto Riva. Non se la sogna neppure di mollare o sedersi su scarsi allori, lui il guerriero. Può essere un buon segno. Forse non ce la fa più ad inserirsi nella classifica dei cannonieri, ma gli spetta l’obbligo di gol decisivi. Basterebbero a noi, se non a lui. Italia-Germania, dunque: un incontro che si ricollega ad antichi e robusti duelli, una sfida che anche tra i più sottili esperti finisce per ridursi a una scommessa, perché ogni ipotesi, dopo mille esami, rimane verosimile. E infatti si scommette: bottiglie di tequila, pranzi, scalate singole e ardimentose ai monumenti messicani secondo la tradizione locale. Scommettono quasi tutti, come ragazzi invasati. Le opinioni reggono soltanto sulla carta. L’erba dell’Azteca (meno folta di quella di Toluca, dove bisognava scucchiaiare la palla quasi si fosse nel fango alessandrino di trenta anni fa) deciderà chi saprà morire per ultimo. Perché questo, secondo i più, sembra il tema centrale della gara: un duello tra chi ha più fiato, più dominio nervoso, più capacità penetrativa all’ultimo tocco. I tedeschi sono forti, ma hanno sempre subito reti, in quest’ultima Coppa. Con noi, è certo, si chiuderanno di più. Ma dovranno combattere di fronte a gente altrettanto chiusa e decisa. La bellezza di un incontro di calcio a questo livello e con una finale «mondiale» in vista, non sta nella linearità stilistica ma nelle polveri che accende, polveri micidiali che si chiamano attesa, lotta metro per metro, cuore caldo dei tifosi, orgoglio dei protagonisti. Oggi c’è chi dice, a Città del Messico: «Se battiamo questi tedeschi firmo subito un’onorevole sconfitta ad opera del Brasile e del signor Pelé». Calma, calma, non precipitiamo. Perché non scommettere di volta in volta? Il calcio metafisico (in un giornale messicano di domenica scorsa uno scrittore ha raccontato una magnifica partita ideale tra due squadre inventate, la Pro Domo Sua di Roma e la Torpedo di Gorkij, arbitro mister Fairplay, incontro terminato ovviamente in parità, con vari rigori negati) crea febbri autentiche. Certo, la Germania può batterci. Però lo dimostri.