Giovanni Arpino: Cronache Messicane

18 giugno: Lo

Hanno vinto contestando se stessi. Un «brujo» dominò questa partita. «Brujo» significa stregone, e l’aria di follia che ha percorso l’Azteca mercoledì ha consegnato alla storia del football mondiale non solo un incontro memorabile, ma le gesta di uomini toccati da genio, sregolatezza, sortilegio. «Solo una banda di pazzi poteva battere la nostra squadra» singhiozzava un grassissimo giornalista tedesco al termine della partita. Bisogna dargli ragione, ma anche esaminare le cause profonde della straordinaria, imprevedibile «pazzia» azzurra. I tedeschi sono fortissimi, se non i primi certo tra i primi di tutti gli «undici» visti a questa Coppa. Si erano preparati con teutonica fede, organizzazione, metodo, e facendo un calcolo preciso: se fossero riusciti a impadronirsi del secondo titolo mondiale, nel ’74 in Germania nessuno sarebbe più riuscito a portargli via questa fatata Coppa Rimet, che ora debbono disputare i bicampioni italiani e «cariocas». Per il football tedesco si parla oggi di una Stalingrado. Tanta foga, tanta rabbia e potenza agonistiche, tanto impeto superiore e ordine in centrocampo e in attacco sono stati stracciati da ima squadra italiana formidabile per «animus» e non certo per precisione tattica e per virtù tecniche. Accusali di «dolce vita», cullati e coccolati come fiorellini delicatissimi, soggetti a cure e critiche di ogni genere, gli azzurri sono tornali uomini come tutti, vincendo da «amateurs» un incontro due volte già vinto e per due volte subito perso. Da anni il comportamento dei nostri nazionali poteva venir definito, con termine psicanalitico, come «catastrofico». Se per caso un elemento era divo ed eroe e beniamino nel suo club, subito in maglia azzurra perdeva grinta, si afflosciava nei muscoli, cedeva all’intrigo, al narcisismo, all’egoismo più infantile. Si perdeva più o meno ovunque, in competizioni ridicole, o si vinceva per il rotto della cuffia, non imponendo mai una linea tecnica precisa e un «corazón» autentico. La trafila per i campionati d’Europa vide nascere, embrionalmente, un’altra specie di squadra, un’altra specie di calciatore nazionale. Quanto hanno fatto bene i pomodori lanciati a Genova anni fa, dopo il tracollo con la Corea: e stata la lezione che tutto il clan meritava. La vendetta popolare ha spinto ai rimedi, i rimedi hanno dato il frutto più logico. Gli azzurri, professionisti al cento per cento, ricchi calciatori viziati, hanno capito che solo combattendo potevano ridarsi un volto umano, un prestigio di mestiere. Per questo hanno vinto le insidie dell’altitudine, le ambiguità interne, certe carenze tecniche di reparto, per questo sono riusciti a superare una pericolosa debolezza psicologica che anche qui in Messico veniva gonfiata, intorbidita da mille critiche velenose. Un’autocritica spietata, una contestazione cruda e bruta di se stessi li ha posti in condizione di reagire. Si sono ripresi le misure gli uni con gli altri, senza piangere, rimandando ogni lacrima a dopo la vittoria. Senza enfasi, sta qui il nocciolo dell’animo dimostrato all’Azteco, il segreto di un incontro che ha messo a tacere non solo uno stadio furibondo di tifo «alemano», ma una metropoli intera qual è Città del Messico. Mercoledì notte, per la prima volta in un mese, nessuno ha cantato, nessuno ha ballato per strada, o per esprimere felicità vittoriosa o per sfogare una delusione sportiva. Gli azzurri hanno rispettato le previsioni tecniche, che potevano venir tradite soltanto da un comportamento caratteriale isterico o bambinesco, e ora si trovano davanti ai brasiliani come gli unici in grado di decidere le sorti definitive di questa Coppa. Poema della pedata L’incontro dell’Azteca è raccontabile dieci, cento volte, come un rozzo ma autentico poema della pedata. Eroi e vittime si sono dati battaglia non secondo norme meramente calcistiche, ma con l’impeto cieco di antichi guerrieri. Se avessimo vinto per uno a zero (come sarebbe stato logicissimo, ma l’arbitro giapponese-peruviano volle andare avanti finché Schnellinger sparò il siluro del primo pareggio tedesco) tutti ci avrebbero accusati di catenaccio, superdifesa, italiani asserragliati nell’ultima trincea, e via discorrendo. Non avremmo mai conosciuto il fondo morale e battagliero di ogni uomo in azzurro. I due quarti d’ora dei supplementari hanno legittimato una vittoria, schiantato la prosopopea tecnico-tattica dei tedeschi e fatto vedere chi è un Domenghini, un Burgnich, un Boninsegna. Con un Riva complessato dalla voglia del gol (ma quando lo trova con quei suoi diagonali, che urla si levano al cielo dai giornali messicani), con un Rivera tornato punta e non più centrocampista, con un Mazzola che quando c’è dà ordine a due reparti, la squadra italiana può fare risultato ma raramente può incantare. Presi per il collo dalla sorte e dall’avversario, gli azzurri si sono morsi la lingua fino a farla sanguinare. Ancora un quarto d’ora e i tedeschi avrebbero subito altri sei gol, c’è da giurarci, anche se poi saremmo tutti corsi in campo non solo con bombole d’ossigeno ma con polmoni d’acciaio ed altre diavolerie chimiche e mediche. La finale è imminente. Tre giorni per recuperare sono molto pochi, i brasiliani sono una squadra che fa gioco, combatte, tira da ogni posizione, inventa sempre, recupera come poche altre. Ma, anche stavolta, non abbiamo perso in partenza, se tornano il fiato e un minimo di forza fisica. L’Italia ha stupito tutti, come un grande giocatore di poker che fa suoi i primi «piatti» quasi bluffando, cioè speculando, e con due soli assi o due soli re riesce a darsi un vantaggio legittimo ma poco simpatico agli avversari. Obbligata a giocare davvero con intorno il clamore di chi aspetta più una disfatta che una prova di salute e di orgoglio, ecco che sfodera i suoi poker e non lascia neanche una briciola agli altri. Persino Zagalo, allenatore dei brasiliani, oggi dice la solita frase, e cioè «Vinca il migliore, domenica», senza più lasciarsi andare a proposizioni reboanti. Sissignori, possiamo perdere domenica, ma la posta vale la scommessa, ora siamo sicuri che gli azzurri daranno quanto hanno dentro. Gli errori e le sfasature di mercoledì, le palle-gol sprecate o regalate all’avversario, diventano poca cosa persino sul piano tecnico, quando la forza psicologica riesce a trovare rimedio sul campo, a riacquistare il vantaggio perduto. Gli azzurri questa forza la possiedono, non gli resta che dimostrarlo per la terza volta, dopo Messico e Germania. E poi vada come può andare. Prima che si partisse per Città del Messico, dicevano: come Riva o tutti a casa. Non è stato sbagliato. Il coraggio di Riva ha contagiato ogni compagno, anche se nel goleador la carica continua ad essere eccessiva e quindi controproducente. Molte pagine della storia del football diventano presto polverose, o rimangono nei ricordi privati, ma fragili e secche come erbe chiuse in un libro ostico ad essere riaperto. La gara di mercoledì 17 giugno non ha paragoni, vale di per se stessa ogni titolo e ogni applauso, come qualche memorabile fuga di Coppi, come lo sforzo di Dorando Petri o la folgore del Berruti olimpico. E’ già epopea popolare. Incontrandoci, i messicani allargano le braccia per stringerci con affetto e in silenzio. Dicono appena: «Il vecchio dio dell’acqua sorride», che significa: hai avuto una buona giornata da uomo. Non dimenticarla.