Giovanni Arpino: Cronache Messicane

19 giugno: La forza di una squadra contro undici giocolieri

La vigilia è durata trentadue anni. Finisce domani. Riusciranno gli azzurri a metter le mani sulla Coppa Rimet? Riuscirà la «scuola europea più astuta e piena di inventiva», come ci definiscono i messicani, a imbrigliare il gioco danzato, sottile, penetrante e potente dei mostri brasiliani? L’impresa è difficilissima, ma lascia un margine alle nostre possibilità. Gli azzurri avranno tutto contro: il pubblico decisamente (e logicamente) di tifo sudamericano, le fatiche di centoventi minuti con la Germania, il pronostico, che obbligatoriamente indica i «cariocas» come favoriti. Pelé, Tostao, Rivelino, Gerson, Jairzinho, sono giocatori di valore assoluto, capaci di compiere da soli qualsiasi gesta. Hanno rischiato solamente contro gli orgogliosissimi inglesi, dominatori per un tempo, spreconi in fase realizzativa, e infine trafitti proprio da un passo vellutato di Pelé e dal guizzo irresistibile di Jairzinho. Piedi come snodati, invenzioni rapidissime in corsa, movimenti da giaguari, recuperi di palloni impossibili, dominio assoluto nel dribbling, ecco gli eterni requisiti brasiliani, questa volta sostenuti da una volontà feroce di impadronirsi per sempre della coppa. Il gioco si regge sui due laterali, capaci di costruire azioni a getto continuo, avanzare e farsi uomini-gol in qualunque momento. Se la difesa non è fortissima, il Brasile non se ne preoccupa granché: perché il suo gioco è attaccare, creare ventagli di azioni dal centro campo e inserire ogni uomo sul pallone e sulla puntata decisiva. Ha detto l’ex allenatore dei « cariocas » Saldanha, che in questa Coppa si limita, dopo il defenestramento, a scrivere articoli sportivi: «Nessun cliente è peggiore per noi dell’Italia, che ci ha quasi sempre battuti e ci farà soffrire. Qualunque altra squadra era preferibile in finale al posto degli azzurri». Speriamo abbia ragione. Se gli italiani sapranno manovrare con slancio e aggressività al momento opportuno, e soprattutto non perderanno mai animo e lucidità in difesa, potrebbero giocare un brutto scherzo al «rey» e ai suoi sudditi. Più o meno, se il paragone è lecito, si comporterebbero come la nazionale di basket, che superò gli imbattibili americani proprio spezzandone il ritmo, impedendogli il controllo continuo della palla, cosa carissima ai brasiliani innamoraci di sé e del virtuosismo fine a se stesso. Una squadra compatta, audace, pericolosa, come quella azzurra contro un gruppo di individualità eccezionali. Su dieci incontri col Brasile, forse potremmo perderne sei. Ma domani è «quell’incontro», quell’unico. Che non può finire in pareggio, che si giocherà al limite delle forze, delle tattiche, dell’astuzia dei singoli. C’è chi dice, tra i tanti critici alle prese con un pronostico: o ci fanno neri, o li battiamo di misura, perché è possibile che all’ultimo incontro un po’ di emozione tradisca qualcuno, e allora la finale può assumere aspetti sconcertanti. Gli azzurri hanno disputato un torneo stupendo, per intelligenza e generosità. Indubbiamente hanno dimostrato di essere i migliori d’Europa. Un po’ di astuzia iniziale, un po’ di prudenza per diventare amici dell’altitudine e dei campi, e poi hanno saputo esprimere il meglio di se stessi e del nostro football attuale. Il moderato ottimismo dei critici più attenti è stato largamente ricompensato. Si può sperare in questa domenica di grande calcio. E si può accettare una sconfitta se i brasiliani dimostreranno davvero la loro superiorità tecnica. Zagalo e il suo Pelé sono ottimisti. Sono certi di poter superare le strettissime marcature azzurre e andare in gol di prepotenza, con la usuale abilità. Tra i nostri c’è un Riva che non ha ancora finito i suoi compiti. Tutt’altro, e medita vendette sul proprio carattere di purosangue e gol per l’immenso stadio Azteca. Da una infinità di anni un simile spettacolo non veniva inscritto nel cartellone di un mondiale. L’antica epopea del calcio italiano legato ai Piola e ai Meazza è stata definitivamente messa sotto vetro dalla prova azzurra di mercoledì scorso. Allo stadio Azteca per quell’incontro leggendario verrà murata una lapide, come comanda il costume dei messicani nelle arene dei tori quando un combattimento è risultato d’eccezione. Quella lapide ci onora, ci rallegra, vale da sola il viaggio e le ansie affrontati da tutta la spedizione. Però sarebbe straordinario ripartire con la Coppa sul nostro aereo, lì in bella vista tra ingenui souvenirs, un sombrero, le valigette a mano. Due volte campioni del mondo, italiani e brasiliani se la meritano entrambi. Le corrono dietro dal 1934 e non possono spartirsela. Il calcio è bello perché impone questa crudele legge del migliore anche se si può risultare migliore per una sola volta. Talora, abbandonando gli esami critici necessari, si vorrebbe che un incontro non finisse mai, a costo di esaurimenti e collassi per tutti, protagonisti e spettatori. Oppure si vorrebbe che terminasse fulmineamente, per salvare il battito cardiaco e il risultato favorevole. Nessuno può sapere se la grandissima lotta di domenica ci sembrerà eterna o troppo breve. Nessuno può dire se quei novanta minuti ci faranno soffrire negli occhi e nel cuore con folli strappi di velocità o appariranno assurdamente rallentati, incapaci di consumarsi sugli orologi. Novanta minuti del rey Pelé contro Riva e il fortilizio italiano. Forse troppo pochi per loro in campo. Ma a noi bastano soltanto per invecchiare. Enea scende sul terreno degli Aztechi con le sue umili armi umane, e lo aspettano gli oscuri dèi del vento, della pioggia, dei vulcani. Sarà vera gloria?