Giovanni Arpino: Cronache Messicane

4 giugno: Gli azzurri debbono imparare il caldo a tempo di

«Olsson, el nùmero 20, no es futbolista, es un sanguinario», è stato il commento di un critico messicano che vedeva Riva malmenato dal difensore svedese. In effetti Riva, anche quando il pallone era ben lontano da lui, sembrava il contenuto di un sandwich, stretto da quell’Olsson che lo afferrava per braccia, maglia, spalle, e il libero svedese, appiccicato al collo dell’italiano come una sanguisuga. Lo si poteva prevedere. Riva è, per tutti, il numero uno in fatto di pericolosità in area (solo i brasiliani fingono di non conoscerlo) e quindi il suo marcamento strettissimo non ha costituito sorpresa. Sarà così ad ogni incontro. Ma non è questa la sola lezione che ci viene da Italia-Svezia, partita combattuta all’arma bianca, tesa come una spada, rude fino alla protervia atletica. L’arbitro inglese Taylor, se ha favorito qualcuno, non ha certamente dato una mano agli azzurri. Le sue rigide interpretazioni sui falli e sulle conseguenti regole del vantaggio hanno sbilanciato varie fasi dell’incontro, qualche eccesso svedese non è stato punito con tempestività. L’Italia ha vinto combattendo. Questo è molto importante. Ma l’incontro di Toluca, oltre a confermare l’omogeneità della nostra squadra e l’assenza di dannosi nervosismi, ha detto anche varie altre cose. Il gioco sudamericano è favorito, per esempio. Il «tango» del football giocato da fermi, a queste altezze, è un modo per sopravvivere fino al termine della partita. Chi azzarda troppo si brucia muscoli e polmoni, vede annebiarglisi la vista. Quindi è determinante governare le linee di gioco a centrocampo, non spremersi in corse successive, non pretendere di recuperare subito dopo una fuga. Abbiamo visto Domenghini addirittura boccheggiante sul finale della partita, pur essendo stato ottimo nel primo tempo. Anche Riva si è bruciato in scatti tremendi, di quelli che lasciano il segno. L’ordine nelle retrovie, dettato da uno splendido Cera e da un grande Burgnich (altamente sorretti da Bertini e Rosato) ha impedito agli svedesi un pareggio non impossibile. Toluca afferma: la squadra azzurra esiste. Poche correzioni tattiche una maggiore coordinazione manovriera a centrocampo potranno rinsaldare un «undici» non privo di possibilità. I primi ad affermarlo sono i critici stranieri, saliti a oltre 2600 metri d’altezza per esaminare con tutte le attenzioni Riva e compagni. La coppa Rimet, dopo un esordio in toni minori, sta erigendosi con le sue leggi spietate. Chi perde non ha possibilità di recuperi, gli incontri diretti si chiudono con risultati irrimediabili. Fa sensazione il Brasile, si continua a guardare al Perù come a una squadra imprevedibile. « Tanto pazzi da poter raggiungere Qualsiasi risultato », dice uno che li segue da tempo, e parla degli incas peruviani come della rivelazione iniziale di questo torneo. Dove arriveranno gli azzurri? Dopo -Toluca gli umori sono più fermi, più contenuti, più responsabili. Anche i dialoghi interni si decantano, nel clan, prendendo punte polemiche e veleni autentici o inventati. Le squadre europee, allenate sullo scatto, sulla manovra rapida, indubbiamente soffrono questo torneo. Il football a duemila metri diventa un gioco diverso. E’ come manovrare un aereo a reazione lungo un’autostrada o far volare un trattore. E’ una sfida, una follia, e insieme uno stimolo nuovo. Vedere un giocatore piegarsi in due per riprendere fiato dopo una fuga di trenta metri è uno spettacolo nuovo, triste ma anche provocante. Perché provocante? Perché al giocatore (e ai suoi compagni di squadra, ai suoi tecnici) tocca inventare soluzioni tattiche e distribuzione di forze in una dimensione agonistica diversa. C’è chi prevede una finale tutta sudamericana, un «doppio tango» di un’ora e mezzo, e c’è invece chi continua a credere nelle possibilità italiane, inglesi, tedesche. Si punta su molte incognite, dunque, e non si può pianificare a lungo il discorso su questa nona Coppa Rimet. I fatti umani, di resistenza fisica accoppiata all’invenzione e alla fortuna, sono troppi per delineare una fisionomia precisa del torneo. Tutti vivono alla giornata, anzi di tre giorni in tre giorni, secondo gli obblighi imposti d»J calendario. Però i ragazzini messicani giocano chiamandosi Riva e gridano, spingendo la palla lungo i marciapiedi: « Soy Riva, soy Mexico ». E’ una verità quotidiana. Speriamo possa durare a lungo.