Giovanni Arpino: Cronache tedesche

13 giugno 1974: Il Campionato dell'inquietudine

logo74-bar3-address-wp Comincia il Campionato mondiale di calcio. Come finirà? La domanda non riveste un carattere sportivo ma politico. Nel preciso momento in cui brasiliani e jugoslavi appariranno sull’erba dello Stadio di Francoforte per la gara d’esordio, stringerà al massimo le sue maglie il dispositivo di difesa che si estende attraverso l’intera Germania federale, dalle frontiere al cuore delle nove città deputate ai riti del pallone. Sarà una festa, però armata. Saranno applausi ed entusiasmi; però in mille uffici, dalle «centrali» della polizia ai «Pressezentrum» dei cronisti, verrà attesa soltanto la fine. Quale fine? L’incubo del sanguinoso attentato terroristico che investì le Olimpiadi nel ’72 è un nodo di dolore mai sciolto, mai dimenticato. E gli interrogativi degli osservatori più responsabili suonano, oggi: professionisti come Cruyff e Rivera, come Beckenbauer e Rivelino, in che modo reagirebbero se un qualsiasi «commando» ferisse un arto del complesso sistema che dà vita al Campionato? Ricordiamo tutti quell’estate del ’72. Scrivemmo: hanno derubato il mondo. Però lo spirito olimpico riuscì a salvarsi, pur fermando gli orologi, pur affrontando crìtiche dure. Gli Spitz e i Borzov, i Mennea e le Korbut seguitarono nelle loro imprese atletiche. Ma dipendevano dalle varie federazioni, erano ragazzi, studenti entusiasti, malgrado i guadagni risultavano pur sempre dilettanti, persone che «fanno soldi», se li fanno, dopo un’Olimpiade, dopo le medaglie, e non prima. Mentre i Rivera e i Beckenbauer dipendono da società per azioni, da presidenze private, da agenti assicurativi che garantiscono per centinaia di milioni la salute dei loro stinchi. Cruyff è addirittura una sigla di commerci, come Pelé, e la Nazionale tedesca in blocco fa in questi giorni mostra di sé lungo manifesti di quattro metri per pubblicizzare un succo di frutta. La fuga o il ritiro di uno solo tra costoro potrebbe trasformare il Campionato mondiale in una emorragia di uomini, quindi in un fallimento. Ecco le ragioni di quel «come finirà?», che rimbalza dai carri armati in triplice fila intorno ai cileni (a Berlino) fino alle mitragliere dei posti di blocco che isolano gli haitiani (a Monaco). E’ il Campionato dell’inquietudine, che obbliga l’Europa a sfidare le sue stesse paure. Se terminerà regolarmente, non la sola Germania parlerà di vittoria politica, e centinaia di milioni di uomini tireranno il fiato. Viviamo in un’età di violenza organizzata, e la salvaguardia di una manifestazione sportiva mobilita migliaia di soldati e tutti i mezzi possibili, dagli elicotteri ai rilevatori dì dinamite, purché trecentocinquantadue giocato-ri possano svolgere le loro trame da oggi al 7 luglio. Il vecchio Continente non ha mai palesato come in questa occasione la sua debolezza, e, insieme, il desiderio di pace. Per simili ragioni l’enorme «affare» sfugge alla cornice classica del gioco, diventa una prova di vitalità, efficienza, possibile rinascita. Il football che fu epico e povero ha lasciato il passo ad un football che è miliardario ma strumentalizzato e che ha calamitato su se stesso troppi stimoli, troppi interessi, troppa passionalità morbosa. E’ ormai un calcio di intrattenimento che viene consumato da una infinita platea televisiva e poi commentato, rovistato, rimasticato nei suoi risvolti dalle pagine degli «esperti» e un numero enorme di lettori. E’ una favola che ci raccontiamo a vicenda per allontanare il buio della notte, delle preoccupazioni personali e civili. Ma che resiste proprio per i suoi caratteri di favola adulta. Da oggi la mastodontica piovra a nove braccia si mette in cammino, nutrita di pubblicità, souvenirs e bigiotteria. Inutile ormai ritornare con argomenti più che sviscerati sulle possibilità azzurre, sull’assetto poderoso dei «bianchi» tedeschi e degli olandesi, sulle capacità funamboliche brasiliane e sulle virtù degli outsiders dell’Est. Un pallone deciderà per loro. Un pallone che fermerà i battiti del cuore di bambini ed anziani, dalla Scozia all’Argentina, dall’Uruguay all’Australia. L’Europa spera di poter discutere di football in santa pace. Perché questa è la verità: fino a ieri diversi critici dal sopracciglio aggrottato non perdonavano agli appassionati di perdere il loro tempo dietro e dentro le storie di un gol. Oggi si riconosce che questo «parlar di football» significherebbe ancora fiducia, salute. Il decimo Campionato del mondo è una terribile cartina di tornasole, capace di ridar smalto ad un avvenimento popolare oppure di stingerlo in colori moribondi. Se tutto «finirà bene», probabilmente ci renderemo conto che le nostre risorse morali, le nostre autodifese funzionano, come gli anticorpi nel sangue. Dopo tanti discorsi pieni di ragionamenti capziosi, dopo tanto scientifismo sportivo, dopo aver sogguardato con binocoli e microscopi un dribbling e una traiettoria in area di rigore, ritroviamo nel gioco di pallone la sua più elementare verità: cioè il divertimento lecito, lo scontro leale, la prestazione atletica valida. Quei trecentocinquantadue giocatori chiusi in nove, ferrigni colossei, sono l’esca lanciata per attirare un futuro più benigno. Solo questo gli auguriamo: che possano muoversi a loro piacere, comandati dalle necessità della partita. La vecchia, logora frase «vinca il migliore» va detta e ripetuta: perché stavolta significherebbe che può esistere un vincitore, che dal 13 giugno al 7 luglio nessuno ha infranto quel minimo argine in grado di differenziare l’homo ludens dalla belva.