Giovanni Arpino: Cronache tedesche

14 giugno 1974: L’inaugurazione con molti fischi

logo74-bar3-address-wp Comincia la favola della Coppa ed è subito un prontissimo zero a zero. Il gioco atletico e stretto ha già imposto il suo primo insegnamento. Il risultato nullo leva qualcosa alla Jugoslavia e premia anche troppo un Brasile in pessime condizioni tattiche e fisiche. In una tempesta di fischi si è concluso l’esordio della prima gara sconcertando l’immensa platea ma offrendo agli intenditori le indicazioni di ciò che sarà questo decimo campionato mondiale. Il lunghissimo pomeriggio nello stadio di Francoforte si è consumato tutto all’insegna del grigio: grigio dal cielo ai volti, dai gol mancati allo spettacolo, dai temi individuali alla prestazione dell’arbitro, uno svizzero senza sale e senza pepe, generoso coi più titolati «cariocas» e lungimirante come un’anguilla cieca. Le due eterne ore dedicate alla cerimonia sono andate avanti sotto una pioggia via via più fitta e in obbedienza ad un cerimoniale teutonico privo di autentica regia. Chi ricorda le liete sfilate di Monaco ’72, la verve olimpica, davvero giovane e brillante, non poteva non sbadigliare davanti alla sfacciataggine pubblicitaria e allo sgranarsi di riti ingenui, quasi al limite della goffa esibizione. Abbiamo persino inghiottito un rispolverio della «Cumparsita» ad opera degli uruguaiani e la pazienza del pubblico si è liberata in applausi sinceri solo per gli sbandieratori fiorentini, per alcune «bellezze» brasiliane impegnate in un samba degno del miglior tabarin, e per la tradizionale suonata della banda di polizia scozzese. Chiusi dentro sfere di legno e di gomma che volevano somigliare a giganteschi palloni, i gruppi folcloristici non vedevano l’ora di finirla, per sfuggire all’acqua: fossero capelloni australiani con chitarra o un gruppo di congolesi che mimavano la danza propiziatrice per la pioggia (e l’hanno avuta) con annesso stregone e impermeabili sfoderati subito dopo. Due petardi: e tutti tacciono, nella cornice colorata e festosa solo in apparenza. Perché il minimo scoppio fa venire in mente la bomba gettata ieri a Berlino contro l’ambasciata del Cile, e sottolinea come questo campionato non abbia allegria, nemmeno in superficie. La gloriosa cagnara messicana (però organizzatissima) sembra un ricordo di mille anni. Se la fila anche il gruppo in costume della D.D.R. (Repubblica democratica tedesca) che, contrariamente alle abitudini dei Paesi dell’Est, ci ha propinato una sviolinatina degna di Fred Bongusto. Poi arrivano loro, i semidei del pallone, quello locale, cioè Uwe Seeler, e quello mondiale, cioè l’ex re Pelé. Circondati da bambinetti che reclamizzano la solita bibita analcoolica, mostrano all’inclita e al volgo le due coppe, quella di ieri e quella di domani, la Rimet e la Fifa. Se ne vanno tra scrosci di applausi, mentre si comincia a pregustare almeno l’aria del pallone. Con molta intelligenza il presidente del comitato organizzativo, Neuberger, e il decaduto presidente della Fifa, Rous, non perdono più di un minuto nei discorsetti d’apertura, mentre il capo dello Stato tedesco, Heinemann, rivolge il suo saluto augurale in non più di trenta secondi. E’ tempo, migliaia di bambini che si erano radunati sul prato per formare (poveretti, seminudi, con le magliettine da ginnastica) la sigla dei «mondiali», si scatenano in un caotico «happening», rivestendo il cellophan targato Italia (un ottimo pensiero, dati i tempi inclementi) mentre già brasiliani e jugoslavi palleggiano per riscaldarsi. Assisteranno alla partita, questi duemila fanciulli, dai bordi del campo sino alla fine del primo tempo, una corona da kermesse o festa di strapaese. E’ il via, finalmente, basta coi dirigibili pubblicitari, basta con i risvolti reclamistici, esagerati fino all’indecenza. E’ il via, ed è lotta immediata, tra campioni del mondo e outsiders dell’Est. E’ un gioco duro, rallentato dal terreno pesante, da un’erba viscida che fa sgusciare il pallone come una biglia pazza sul tappeto verde. Il Brasile non sembra lui, non è lui: teme la manovra avversaria, si copre come una squadretta italiana (lo abbiamo visto chiuso completamente nella sua area su una punizione battuta da Dzajic). Risente della mancanza dei suoi grandi assi, più di Tostao che di Pelé oggigiorno. E’ una gara che si costruisce su scontri accaniti, ogni giocatore ha possibilità minime di manovra, data la pressione fisica che deve subire e restituire all’avversario. Gli errori si sprecano, così come le azioni abborracciate o addirittura caotiche, mentre il tifo «carioca» in tribuna avvampa. A tutti, i biancorosso-blu sembrano più efficienti dei giallo-verdi americani, ma il commento generale suona: la Jugoslavia non sa sfruttare le sue azioni, non avanza in profondità, un contropiede brasilero potrebbe infilarla da un momento all’altro. Invece, si arriverà al novantesimo minuto a reti inviolate e con gli osservatori delle altre quattordici squadre impegnate nei mondiali che sorridono se ripensano al Brasile e corrugano la fronte se invece debbono riesaminare questa Jugoslavia. Dove sono i Rivelino e gli Jairzinho di ieri, anzi, di quattro anni fa? Perché non li abbiamo incontrati noi italiani, nel ’70, in questo stato?