Giovanni Arpino: Cronache tedesche

15 giugno: Tocca agli Azzurri

logo74-bar3-address-wp La Coppa del mondo è partita col piede sinistro, malignamente indicando lo scarso o nessun valore dei vecchi blasoni. Sfuggiti per un pelo alla «punizione» jugoslava, i brasiliani litigano ferocemente, gli altri «clan» cercano di tesaurizzare la lezione. Senza Pelé, Tostao, Gerson, con Rivelino ridotto a un fantasma, i giocatori sudamericani hanno mostrato come nella filigrana della loro squadra non vi sia talento, non esista una mentalità collettiva capace di dar frutti. Dopo i fischi allo stadio di Francoforte, i brasiliani meditano riforme strutturali adeguate, non facili nel bollire delle polemiche, davvero furenti. Si è cominciato con un «nullo» che la dice lunga su cosa sarà questo decimo campionato del mondo. La squallida vittoria della Germania Ovest sul Cile ha ribadito le ruggini psicologiche che hanno condizionato l’esordio. Può darsi che i nostri azzurri non possano far molta strada (e tocchiamo ferro; più di noi fanno gli scongiuri gli emigrati tra Amburgo e Monaco) ma è certo che la lezione del «gioco all’italiana» ha ormai imposto le sue regole in ogni parte del globo. Brasile e Argentina si schierano con due «liberi», quasi tutti gli attacchi non spingono verso la porta avversaria più di due «punte», la marcatura a uomo è crudele, ossessiva. Si gioca la palla in spazi ristrettissimi, dovendo subire cariche pazze. Dopo un «corner» dalla bandierina, ricadono in area grappoli di giocatori elevatisi per disputare il pallone, si srotolano a terra gambe e torsi a decine, come in un folle gomitolo. Queste e non altre saranno le costanti della Coppa. Tocca all’Italia, nella terza giornata del «rendez-vous» mondiale. Gli azzurri scendono in campo allo stadio olimpico di Monaco contro gli haitiani. La pelle di drado distesa a copertura del verde bavarese ricorda ancora le corse di Mennea, i fulmini del velocista Borzov. La cornice è lussuosa, fremente. Le gradinate saranno stracolme di italiani convenuti da ogni parte del mondo: arrivano con ogni mezzo gruppi di emigrati che da mesi hanno stabilito negli stadi tedeschi l’appuntamento per le loro vacanze «tifose». Gente che abita in Australia, in Canada, in Sudafrica. Volti duri e ridenti, occhi eccitati e buoni. Sepolti in cassaforte i possibili «moduli» e tutte le varianti tattiche suggerite o sognate o paventate, zio Ferruccio schiera i suoi prodi secondo la formazione del primo tempo di Vienna. Riva abbisogna di gol, Rivera e Mazzola sanno (ma davvero?) che questo è un esame decisivo per loro. Dopo quattro anni dall’avventura messicana, non ci sembra lecito né logico riproporre i soliti quesiti sulla «staffetta» tra i dioscuri, su chi deve o no andare in cabina di regìa, su chi deve o meno proteggere il centrocampo. Rivera e Mazzola sono arrivati al «tetto» della loro fama e anche dell’usura agonistica. Il primo può salvare anima e prestigio offrendo impeccabili palloni da gol, il secondo deve fungere da ala ed eventualmente mettere qualche pallone in porta. Rivera va rassomigliando, almeno nei discorsi, al vecchio Meazza, che oggigiorno dice a tutti: «Tu sai zero di football». E in questo «tutti» riassume critici, giocatori, colleghi, allenatori a partire dagli Anni Trenta. Dialettico sopraffino, Giovannino Rivera ha un bagaglio diplomatico come nessun altro mai: a suo confronto, «o rey» Pelé è un analfabeta. Però si rende conto che ancora una volta, a trentun anni suonati, la squadra ed i tifosi attendono una prestazione degna. Mazzola, che una volta riuscì ottimamente a far l’ala (contro la Svezia) deve sfoderare le sue capacità logiche e polemiche sul campo, non tra i corridoi. La squadra, nel bene e nel male, nella mediocrità e negli attimi di fulgore, c’è. La temono tutti, perché sanno che gli azzurri, se non sono maestri di gioco, hanno la formidabile capacità di non lasciar giocare gli altri. Le polemiche attendono dietro l’angolo, e potrebbero scoppiare con inaudita violenza se la gara con Haiti non registrasse un successo più che convincente. Non sono state spese molte parole sui neri uomini di Port-au-Prince, ultimi arrivati nel firmamento pallonaro. Di solito, si celia intorno a loro e al commissario che li dirige con battute facilone, sul tipo: «Andiamo a prenderci questo Tassy». Nessuno vuol vedere gli haitiani come nuovi dentisti d’una misteriosa Corea. Ed è pacifico che il confronto favorisce gli azzurri in una giornata che vede lo scorbutico duello tra Polonia e Argentina, nostre rivali di gruppo. Ma neanche a Tassy è proibito sognare. Il calcio contratto, trepido, spaurito dell’avvio in un campionato del mondo fa i suoi primi gradini con il terrore di perdere, e quindi crea deleteri complessi di inferiorità in chicchessia. Nessuno osa, nessuno si permette gesti da «pazzariello», vista anche l’abolizione ferrea di certe «medicine» tonificanti. Il pronostico è tutto azzurro, partendo dal recordman Zoff a Chinaglia. Il nostro centravanti può essere una pedina degnissima sul palcoscenico mondiale. Ha struttura e peso atletici, orgoglio da vendere. Se mette a segno un paio di reti, Io vedremo subissato dall’attenzione straniera, per ora ferma sulle tradizionali doti difensive del Club Italia. I ricordi di ieri o di ieri l’altro e anche di tempi più lontani dicono: gli azzurri non hanno mai esordito con la necessaria scioltezza. L’occasione odierna — tra l’appoggio popolare e la consistenza avversaria — offre il momento adatto per smentire certe cattive abitudini. Squadra vecchia e quindi esperta, squadra che non distilla sublimi liquori ma sa come ritrovarsi nei momenti decisivi, la nazionale italiana sceglie, in questo pomeriggio, la sua fisionomia. Dovrà sudare sangue per superare il turno, quell’Argentina e quella Polonia che ci attendono nella prossima settimana le conosciamo come ossi durissimi: ma è forse più ambiguo il primo passo, contro i cameadi haitiani. Perché gli azzurri hanno un temperamento nervoso, sono cavalli che superano ostacoli alti due metri ma si impennano davanti a un pezzo di carta in volo, insomma riassumono pregi e difetti caratteriali ben noti. Gli undici che giocano oggi lo sanno, così come sanno degli umori e delle riposte speranze covati nel cuore dagli esclusi. E’ ancor una Nazionale «di ieri» quella che scende sull’erba di Monaco. Una nuova sarebbe possibile, ma azzardata, dati i ristretti «tempi di lavoro». E allora: dia la vecchia botte il vino che ha. Speriamo non sia torbido.