Giovanni Arpino: Cronache tedesche

19 giugno 1974: Quando il football è

logo74-bar3-address-wp Un uomo si muove, corre sull’erba, cambia passo e traiettoria, accelera o si blocca, bruscamente inverte la direzione secondo moduli artificiali acquisiti durante le lezioni ginniche e tattiche, assai lontane dal «passo rotondo» che i maestri di atletica riconoscono nei movimenti spontanei di un bambino in gioco. Quell’uomo corre, lotta, conquista o perde il pallone in velocità mentre convergono su di lui non soltanto gli sguardi di centomila persone gremite nello stadio ma la crudele disamina di obiettivi, telecamere, in grado di ridistribuire per ogni angolo del globo l’immagine di quel certo scatto, di quella certa corsa, proficua o inutile, gloriosa o ridicolizzata dalle superiori capacità dell’avversario. Quale Maria Callas, quale Laurence Olivier resisterebbero a tanta platea, presente e soprattutto lontana, amorfa e tuttavia implacabile nel giudizio? Il dottor Freud è morto prima di trovarsi sul divano un «re» del football moderno, la psicanalisi d’oggi, quando allunga alcuni tentacoli verso il fenomeno del calcio, non distilla che argomenti di nebbiosa genericità.
Un miliardo e mezzo di persone sta assistendo in questi giorni ai campionati mondiali di calcio che si svolgono nella Germania federale. Dal primo mattino a tarda notte, oltre le partite, le reti televisive mitragliano attraverso gli schermi dell’intero pianeta i fotogrammi che vivisezionano, rallentandolo, un assalto di Gigi Riva, l’affondo di Johann Cruyff. Ma questi calciatori: come giudicano se stessi, come «si vedono»? La zavorra psicologica che bloccherebbe una Callas, un Olivier, il «trac» della recita, non lasciano residui nel loro sistema nervoso? Per quali «effetti di estraniamento» un grande professionista del calcio moderno può ancora giocare, mentre l’erba del prato diventa il banco degli imputati, mentre folle anonime, sterminate, si trasformano in giuria? Ne parlo con Giacinto Facchetti, capitano degli azzurri italiani. Facchetti è considerato nell’orbe pallonaro un modello di comportamento. Per le doti di atleta naturale, per il temperamento diritto come una spada, per la dedizione professionistica. «Il carico delle responsabilità lo si sente prima di una partita. Si pensa alla moglie o al figlio, al padre o alle masse dei tifosi», confida capitan Giacinto: «Sono momenti di tensione, di smania, non si vede l’ora di cominciare. Tornano a galla gli errori di ieri, di ieri l’altro, certe paure. E’ sempre una contrazione, uno spasmo. Per fortuna dura pochi attimi. In campo il mestiere già ti lava i riflessi. Perché guardi finalmente negli occhi il tuo diretto avversario, e questo ti impegna, ti distrae subito dalle turbe precedenti. Poi si comincia, e il movimento stesso, la concentrazione agonistica cancellano tutto, persino l’urlo della folla presente. E così si gioca, come se si fosse soli in uno stadio abbandonato».
E’, dunque, una facoltà psicofisica legata a un equilibrio nervoso capace di ribaltare il palcoscenico in un esame privato. Ma la possiamo chiamare anche innocenza, purità sentimentale, tensione dettata dal gioco stesso, identica a quella d’un campione di scacchi che si muove di tavolo in tavolo e compie le sue mosse affrontando contemporaneamente dieci o venti avversari. Vince, sull’uomo, l’aspetto più misterioso e positivo della creatura ludica, che nel meccanismo della partita scorda e sotterra la sua crosta privata. «Vedi?», fa ancora Facchetti con uno di quei suoi i sorrisi taglienti, pudichi: «Io mi sento intimidito quando debbo parlare di ciò che ho fatto in campo o di ciò che dovrò eseguire. Il prima o il dopo, chiacchierati a oltranza, stimolano soltanto pudicizia, non solo a parole. Intorno a un tavolo, durante un’intervista, quando noi calciatori commentiamo noi stessi, siamo poveri di battute, di argomenti. Questo non vuol dire che non siamo in grado di crearci degli alibi. Tutt’altro. Anche troppo. Ma il vocabolario è sempre impacciato, e non perché non lo si conosca. A me, quando spiego qualcosa fatto sul campo, sembra di parlare d’un’altra persona, che si chiama Facchetti, mi è simpatica ma lontana. Quando debbo riesaminarmi, e parlo di “quello là”, non mi sento a posto. Ma nello stesso tempo so che “quello là” ha giocato, giocherà e sarà diverso dall’io che in questo momento parla».
Non graviamo questa diagnosi e questa autocritica con i soliti eccessi di paroloni e di proliferazione sociopsichica. Troppo sovente si è cercato di appiccicare un’etichetta d’alienazione al giocatore di mestiere, alla star degli stadi. Ma questa identica «realtà» sa muoversi (ed autogarantirsi) in ogni settore: basta citare un Cruyff, che è giocatore olandese alle dipendenze di una società spagnola ma vuol diventare prim’attore nei «mondiali», amministra se stesso con autorità manageriale abilissima, chiede e ottiene dollari per una fotografia, una intervista, una firma: insomma è, insieme, la propria «ragion sociale» e il personaggio, la ditta e la banca che presta il «fido» a questa ditta. Nell’arco di trent’anni il «fenomeno football» ha trasformato i suoi protagonisti. I mitici nomi del passato, si tratti di un Meazza o di Pedernera, di un Monti o di un Sindelar, erano sigle conosciute da una massa ben circoscritta di appassionati. Li vedevano in pochi; li «consumavano», sulle pagine sportive, in numero non straripante. Oggi la velocità della comunicazione e la cosiddetta «civiltà-visiva» fanno in modo che un Facchetti, un Riva, un Beckenbauer, siano conosciuti, «mandati a memoria», persino dai bambini che non hanno mai messo; piede in uno stadio. La leggenda non è esoterica, ma distribuita con particellare mercato. In qualunque aeroporto sbarchi, Giacinto Facchetti è: riconosciuto da gente che non lo ha mai visto giocare dal vivo ma per dieci anni ha assimilato la sua immagine attraverso gli schermi. Di qui deriva anche il contrarlo di quella famosa «capacità di estraniamento». La vita privata di un calciatore di larga fama tende a restringersi. Non ha più bisogno della cerchia d’amici raccolti intorno al tavolo del bar, disposti a consolarlo mentre si distrae al biliardo. Conosciuto da tutti, popolarizzato come una targa autostradale, che leggi e impari al primo colpo d’occhio, quel Facchetti, quel Cruyff pretendono che l’angolo della loro privacy sia minuscolo e raccolto, invisibile. Più grande è la pesca inflazionata della loro immagine, più oscuro, segreto è il nocciolo dove vanno tenuti nascosti i sentimenti personali. Alla spaventosa dilatazione della fama, che crea obblighi e ingiunge un «passo» civile obbligatorio, il calciatore risponde scavando una nicchia, capace di proteggere quella fame di gloria che però crea altra fame, di nuova gloria, e nuovi impegni, nuove sollecitazioni nervose. Ancora una volta la disposizione innocente supera le trappole mondane. L’uomo di football, sillabato e adorato, contestato o illuso dagli applausi, così come dimentica se stesso mentre «deve» giocare, in ugual modo dimentica come ha giocato per ritrovare «l’altro da sé» che corrisponde alla sua oscura vita quotidiana. Allora è nudo di fronte agli assalti del mondo. Non può difendersi come gli accade sul campo. Il mondo delle parole critiche gli rovina addosso, pari ad un uragano. Gli impegni minuti — i figli, la casa, la moglie — lo aiutano a ricrearsi un argine, talora fragile, talora tremendamente robusto proprio perché arcaico. Gli eroi della pedata sono antichi. Possono copiare certe mode, sorridere come manichini pubblicitari, accettare determinati compromessi con la società, ma sono «bravi» solo se riassumono tendenze caratteriali che la gioventù d’oggi respinge. Il mondo dello sport non lo sa, o forse non osa dirlo: ma se non si è antichi, campioni non si diventa. L’innocenza è tutto.