GIUSEPPE SAVOLDI – giugno 1975

Alla vigilia di quello che sarà il trasferimento record del calcio italiano, il Beppe fa il punto della sua carriera…

Intervista di Stefano Germano – Guerin Sportivo giugno 1975

BOLOGNA – Beppe Savoldi: 1,75 d’altezza; 75 chili di peso; 28 anni d’età; un miliardo e settecento milioni alla… borsa dei piedi. Sarebbe come dire che il centravanti del Bologna costa 22 milioni e spiccioli al chilo: sette volte di più dell’oro. Savoldi, dunque, un ragazzo d’oro.
Che effetto fa, ad un uomo, sapere che vale tanti soldi?

Savoldi mi guarda, socchiude gli occhi come suole quando sta per rispondere e poi spara: «Come uomo non mi fa né caldo né freddo; come calciatore, invece, mi fa piacere».
«Anche se — aggiunge subito — mi viene sempre in mente la storiella del cane da un milione scambiato con due gatti da mezzo milione. Diciamo che la mia valutazione è convenzionale e che tutto finisce lì».
Da dieci anni in serie A, Savoldi è uno dei pochi giocatori che siano arrivati subito alla massima divisione e che abbiano sempre o quasi rivestito la stessa maglia. Ma è anche uno dei pochi per i quali da un paio d’anni a questa parte, c’è gente disposta a scannarsi e a dissanguarsi. E il bello è che lui, alla fine, resta dov’è.
«E mi sa tanto — dice — che anche questa volta andrà a finire così. Se mi dispiace? Sinceramente no: a Bologna mi ci trovo bene e cambiare per cambiare, per me non ha alcun significato».

— Juve e Milan, però, non sono squadre qualunque…
«Esatto, ma nemmeno il Bologna lo è».

— A dire queste cose è il Savoldi calciatore o il Savoldi uomo?
«Perché, lei riesce a scindere il giornalista dall’uomo? Diciamo che l’uno e l’altro si compenetrano. Come capita sempre ad ogni essere umano, qualunque lavoro faccia».

Figlio di gente modesta («Mio padre, dice, faceva il ferroviere e mia madre si occupava della casa») Savoldi appartiene a quella categoria di persone che per arrivare a fare quello che vuole, non si ferma di fronte a niente.
«Potevo avere tredici quattordici anni – ricorda – quando mi misi in testa di fare il calciatore. Già allora giocavo a basket e studiavo. Mi presentai all’Atalanta per la squadra ragazzi che era allenata da Angeleri e Kincses. Mi dissero di ripassare dopo due, tre anni. E due, tre anni dopo, ripassai. E fui assunto. Per potermi allenare – e per poter giocare anche a basket – smisi di andare a scuola regolarmente e mi iscrissi ad una scuola serale perché, durante il giorno, lavoravo per dare una mano in casa. Dopo un paio di campionati nelle giovanili, esordii in serie A e da allora non sono più tornato indietro».

Un miliardo e settecento milioni sono tanti: ma per Savoldi, il calcio è un piacevole passatempo che rende soldi o un lavoro che piace malgrado tutto?
«Nella mia carriera sono passato attraverso tre fasi distinte: all’inizio, il calcio era un lavoro che mi divertiva; poi è diventato un lavoro e basta. Adesso è tornato ad essere un lavoro che mi diverte».

– E ci vuol poco a crederlo, considerando quanto uno come lei guadagna in un anno! Ma a proposito di guadagni: come riuscite a conciliare, voi calciatori, la vostra natura di «prestatori d’opera» con i diritti che ne conseguono, con il fatto che siete i soli lavoratori che vengono pagati sulla promessa del lavoro che svolgeranno in seguito?
«A parte il fatto che se noi calciatori ci siamo mossi per avere determinate garanzie, lo abbiamo fatto per la categoria e non per pochi fortunati singoli, vorrei dire una cosa: quando cominciai a giocare, l’Atalanta mi dava poco più di centomila lire al mese. Il primo anno feci solo quattro partite per cui non lo conto. Il secondo, però, ne feci 26 segnando 5 gol e sempre lo stesso stipendio. Mi sembra logico e umano, quindi, che quando andai a trattare il reingaggio abbia cercato di rientrare anche di quei soldi che non mi erano stati dati prima. Sì, è vero che noi ci facciamo pagare prima: solo che, della cifra che prendiamo, una parte va sempre a coprire il… mancato guadagno dell’anno prima».

– Un’accusa che sono in molti a rivolgere a voi calciatori riguarda la vostra avidità che – dicono – trova pochi riscontri fra altre categorie di professionisti.
«Ma ha mai provato, questa gente, a pensare perché siamo… avidi? Hanno mai pensato che per uno di noi che sfonda ce ne sono mille altri che non arrivano? E poi: hanno mai pensato che tutte le domeniche noi rischiamo di smettere il giorno dopo? D’accordo: c’è tra noi chi guadagna molto, ma la stessa cosa capita anche tra i cantanti o gli attori. Solo che di loro nessuno parla mai. E poi: tra gli sportivi, guadagniamo solo noi che giochiamo al calcio o non è vero che guadagnano anche gli sciatori, i cestisti, i tennisti, i corridori in auto e moto? No, tutti gli altri sono dei dilettanti mentre solo noi siamo dei professionisti per cui tutti addosso !».

– Non vorrà negare, però, ohe tra quelli ohe guadagnano di più ci siete voi calciatori…
«Piano, piano: ci sono alcuni calciatori. Ed io sono tra quelli: ma che colpa ne ho se sono tra i pochi che vanno in gol più spessa che altri?»

– Ma non le pare immorale una situazione del genere?
«Più che immorale mi pare derivi direttamente da una legge economica – quella della domanda e dell’offerta – che, o la si accetta o la si nega. E noi, sino a prova contraria, l’abbiamo accettata».

– Anche perche, con le frontiere chiuse, tutto gioca a vostro favore.
«Fosse per me, le frontiere le riaprirei domani mattina. Io infatti, dai calciatori stranieri, ho sempre imparato qualcosa e penso che come a me Hitchens, tanto per citare un esempio, è stato di grande utilità, la stessa cosa capiterebbe con i giovani di oggi».

– A proposito di giovani: che differenza c’è tra quelli di adesso e quelli di ieri o dell’altro ieri?
«Una sopra tutte: noi – e quelli prima di noi – eravamo modesti; sapevamo di avere sempre qualcosa da imparare. Quelli di oggi, invece, si considerano già arrivati anche quando la loro carriera è appena iniziata. E senza modestia, vorrei aggiungere, così come senza sacrifici non si ottiene niente anche se oggi è più semplice avere un grosso titolo sui giornali di quanto non fosse in passato».

– Savoldi: c’è chi l’accusa di essere… pilotato da sua moglie che in altri termini, le farebbe da manager. E’ vero?
«Sì, è vero: mia moglie mi consiglia in quello che debbo fare al di fuori del calcio perché lei, di certe cose, si intende molto più di me. Questo vuol dire che mia moglie mi fa da manager? Se è così, allora è vero: il manager di Beppe Savoldi è Eliana. Ma la verità è un’altra: io faccio il calciatore e il mio è un mestiere che di tempo libero ne lascia davvero poco. Mia moglie mi aiuta a risolvere i problemi extra calcistici: tutto qui».

– Lei è stato uno degli ultimi ad essere stato «pescato» da Bernardini per la Nazionale. Come considera l’anno azzurro del «licenziando» CU.?
«Senza dubbio come un fatto positivo. Forse Bernardini avrà anche commesso degli errori ma unicamente perché ha tentato delle strade nuove. Diciamo che ha avuto il coraggio di mettere da parte gente come Rivera e Mazzola e, quindi, di cominciare una vera e propria rivoluzione. E, sempre, le rivoluzioni costruiscono qualcosa di positivo».

– Da buon bergamasco, lei dovrebbe essere credente: crede davvero in Dio?
«Senza dubbio: io in Dio ci credo ma credo anche ohe ogni uomo ha a disposizione i mezzi e le opportunità per farsi da solo. Se non le utilizza o se non riesce ad ottenere ciò che si è prefisso, quindi, la colpa è sua o di altri ma mai di Dio».

– Lei, quindi, non chiede mai aiuto a Dio se si accorge di giocare male né lo bestemmia se una cosa in campo le va storta.
«No mai: se sbaglio un gol, che colpa ne ha? E se gioco male, che colpa ne ha? E se non riesco ad impormi al mio avversario di turno, perché mai dovrei offenderlo? No, per tutte queste cose, scomodare il Padre Eterno non ha senso».

– Lei però prega; lei si rivolge a Dio: per che cosa?
«Per cose che riguardano l’uomo Savoldi e non il calciatore. Ma soprattutto per cose nelle quali l’uomo, pur con tutta la sua scienza e le sue conoscenze, nulla può per cui, o ti aiuta lui oppure sei fregato…».