La Grande Inter di Herrera e Moratti

A metà degli anni sessanta ci fu una squadra che dominò incontrastata in Italia, Europa e nel mondo: l’Inter di Herrera e Moratti, la Grande Inter.

BRILLANO LE LUCI della grande Ruota nella sera morbida del cielo del Prater. Nella penombra luminosa dello stadio gli uomini in maglia bianca spiccano nitidi mentre si avviano al centro del campo. E intanto scrutano, con fastidio, le facce anonime degli avversari che l’illusione ottica fa sembrare anche meno numerosi nelle loro maglie scure. Tutti illustri sconosciuti, per lo più, tranne uno. Quello lo conoscono bene: è, come loro, un “Grande di Spagna”. Quasi come loro. I calciatori in maglia bianca sopportano pochi paragoni al mondo. Loro sono, presi in blocco, una leggenda vivente. Anche dall’altra parte, in verità, c’è una leggenda. Ma è solo un’eredità. Una pesante eredità. Il capitano dei bianchi ci pensa un momento, accigliato e scontroso, mentre cerca tra le facce scavate dai fari, poi si avvia, deciso, verso il gruppo avversario. Il ragazzo alto e magro dagli zigomi marcati e gli occhi grandi lo vede e, inconsciamente, rallenta il passo, staccandosi dai compagni. Poi si ferma del tutto, e lo guarda venire. L’uomo è di statura media, un viso abbastanza banale e la fronte stempiata. E un accenno di pancetta nel corpo rotondo. Ma porta come nessuno la camiseta bianca del Real Madrid. Per un attimo si arresta e lo fissa, intenso e severo, nella luce artificiale e fredda, poi chiude veloce lo spazio che ancora li separa e tende la mano: «Sono Alfredo Di Stefano. Conoscevo tuo padre. Sii degno di lui». Sandrino Mazzola prende meccanicamente la mano tesa mentre cerca di scuotersi, e richiama alla mente uno spagnolo scolastico per rispondere qualcosa di sensato. Ne esce soltanto un emozionato, banalissimo, «gracias». Alfredo Di Stefano è sempre stato il suo idolo.

LE 19,30 SONO PASSATE da poco a Vienna. E’ il 27 maggio 1964. Dagli altoparlanti dello stadio lo speaker annuncia il programma della serata. Fra qualche minuto, sull’erba del Prater, l’Internazionale di Milano, campione d’Italia, sfiderà i campioni di Spagna del Real Madrid per contendersi la Coppa nata in un bistrot parigino, quasi una decade fa, dalla fervida mente di Gabriel Hanot. Per gli italiani è la prima partecipazione al torneo più importante del continente europeo. Il Real Madrid, invece, è nato con esso, con la Coppa Europa è uscito dai ristretti confini spagnoli per esportare nel mondo il suo fùtbol-arte. E ora partecipa per la nona volta alla competizione: ha giocato sei finali e ne ha vinte cinque, e stasera cerca, sotto gli occhi di venticinquemila italiani che hanno trasportato San Siro sulle rive del Danubio, una vittoria particolare, la vittoria sul tempo. Seduti accanto agli italiani, cinquecento spagnoli attendono l’evento. Lo speaker intanto scandisce le formazioni delle due squadre. INTER: Sarti, Burgnich, Facchetti, Tagnin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani, Suarez, Corso. REAL MADRID: Vicente, Isidro, Pachin, Muller, Santamaria, Zoco, Amancio, Felo, Di Stefano, Puskas, Gento.

MAZZOLA LE ASCOLTA come in trance, mentre cerca inutil-mente di scuotersi. Ma come si parla a un mito? Eppure quando Puskas lo aveva avvicinato negli spogliatoi non si era sentito così impacciato. «Conoscevo tuo padre, ho giocato contro di lui», gli aveva ricordato, affabile, l’antico capitano della mitica Honved, l’ufficiale dell’armata ungherese in fuga attraverso l’Europa dopo la rivolta del ’56. E lui, Sandrino, si era trovato a rispondere con un pizzico di ribalda ironia: «Mio padre l’aveva battuta, Colonnello». Puskas era scoppiato a ridere. La presenza di Di Stefano, invece, lo paralizza.

DALLA PANCHINA DELL’INTER due occhi freddi in un volto grinzoso, da zingaro, osservano, scontenti, la scena. Anni prima quella mano era stata negata a lui, platealmente. E Helenio Herrera, detto H.H. oppure “il Mago”, non è tipo da dimenticare o perdonare le offese. Al massimo finge di ignorarle, se gli conviene, stipandole nella memoria. E, inoltre, ora lo preoccupa il comportamento di Mazzola. Nonostante un cervellino intelligente e razionale, quel ragazzo nutre una pericolosa visione romantica del calcio e dei suoi eroi, e lui non vorrebbe ritrovarselo imbambolato sul campo. La partita che sta per iniziare è troppo importante: Helenio Herrera questa sera ha molte vendette da compiere. E un sogno da realizzare: distruggere il Real Madrid. Portare a termine il lavoro iniziato sulla panchina del Barcellona, dimostrare al mondo, e agli spagnoli che non lo avevano capito, che lui non è un ciarlatano ma un uomo che ha il coraggio delle sue idee, che è arrivato al successo soffrendo e penando.

IL SUCCESSO va a chi se lo merita. E Helenio Herrera lo merita. Con lui il Barcellona aveva vinto un campionato e poi un altro. Una Coppa di Spagna e poi un’altra. Ma a loro non bastava, perché il Real Madrid intanto era il padrone d’Europa. E allora Herrera aveva promesso la Coppa dei Campioni. Ma il suo Barca aveva perso a Madrid, nella semifinale che la sorte gli aveva offerto, e poi anche al Camp Nou. La stampa lo aveva flagellato, e i tifosi lo avevano inseguito, furenti, lungo le ramblas. Così se ne era andato, ma non aveva dimenticato. Il Real è la vostra ossessione, signori, e anche la mia. E troverò il sistema per batterlo, e nutrirmi della sua gloria. Perché la gloria es dinero. Era emigrato in Italia, alla corte di Moratti, munifico signore rinascimentale del calcio milanese, che da anni aspettava, inutilmente, uno scudetto. Glielo aveva regalato lui, H.H., infine, al terzo tentativo, attraverso un mare di polemiche e una girandola di acquisti provati e scartati. E l’avversione di stanche primedonne che non ne volevano sapere del suo modo maniacale di intendere il calcio, dei suoi allenamenti snervanti, della sua concentrazione feroce. Tutte uguali le primedonne, erano così anche i suoi ungheresi del Barca, contavano solo sul proprio talento. Ma il calcio moderno è ritmo, signori, ritmo più fantasia. E a volte sono più utili gli onesti faticatori di certi campioni sfaticati. All’Inter, sostenuto da Moratti, alla fine l’aveva spuntata, si era liberato di Angelillo e degli “angeli dalla faccia sporca”, e ora era qui, nella notte di Vienna, con una squadra che era un mix perfetto di talento e aggressività amalgamati con ferrea disciplina. Era qui per sconfiggere il Real Madrid nella “sua” Coppa dei Campioni.

PURCHE’ TUTTO funzioni alla perfezione, e i ragazzi ricordino la lezione. Sono così digiuni di calcio internazionale! Ma in campo ci sono Suarez e Picchi, si rassicura Herrera. Picchi, il livornese furente, che lui ha scoperto e valorizzato, non lascerà la trincea, e non permetterà agli altri di farlo. E Luisito Suarez, il Grande di Spagna, che Helenio si è portato dal Barcellona, pagherebbe di tasca sua per battere il Real Madrid. Quei due sono gli allenatori in campo. Ma non sono loro la chiave della serata. Vagando per il campo gli occhi di Herrera si fanno dolci per Tagnin. Mentre risuona il fischio d’inizio lui è già appiccicato a Di Stefano, pronto a seguirlo in ogni parte del campo: il più umile dei faticatori interisti sulla strada di Alfredo il Grande. In tanti hanno gridato alla follia, ma Herrera ha fiducia nell’onesto mestiere di Tagnin.

LO AVEVA RIPESCATO nel purgatorio delle serie minori che scivolava oscuramente verso fine carriera dopo una squalifica di tre anni, lo aveva ricostruito nel fisico e nel morale, e poi proiettato nell’Olimpo del calcio internazionale. Non lo aveva mai tradito, e anche stasera avrebbe fatto la sua parte, in tutta umiltà. Anche Burgnich lo aveva ripescato dalla B, scartato dalla Juventus, e ora era la roccia del suo sistema difensivo. Questa sera si sarebbe preso cura di Gento, la veloce e velenosa ala sinistra del Real che, come Di Stefano, aveva alzato al cielo cinque Coppe dei Campioni, tutte quelle che il Real Madrid aveva vinto nella sua storia. Anche su Burgnich si poteva contare. Sistemandosi comodo in panchina Herrera guarda, senza preoccupazioni, la prima ondata madridista infrangersi contro la sua difesa. Gli va bene così, lui preferisce difendersi.

RIUSCIRE a passare nel primo tempo: l’ossessione spagnola è questa. Al Real Madrid il gioco dell’Inter suscita più timore che ammirazione. E l’undici madrileno, Di Stefano in testa, si prefigge di consacrare in ambito europeo la superiorità del proprio principio, un principio che si fonda sulla formula offensiva, sulla creazione del gioco di manovra a ondate successive, e le incursioni avvolgenti delle due ali. Ma questa è tattica, e la tattica si attua sul campo, e si è sempre in due a darle corpo. Di Stefano sa che non sarà un gioco facile. Sulle piste del grande Alfredo, che punta dritto al cuore della difesa interista, Tagnin si sente sorprendentemente calmo. Almeno sul campo non ha più addosso la pressione dei giornalisti. Da giorni son tutti lì a chiedergli se ha mai giocato contro Di Stefano. Siamo matti? Quello è sempre appartenuto, calcisticamente parlando, a un altro pianeta. Lo ha visto, questo sì, tante volte in televisione. Cosa prova? Paura no, emozione neanche. Curiosità, e molta. E la certezza che sarà un maledetto affare tenerlo d’occhio. Per ora, però, li stiamo controllando bene.

DOPO LA PRIMA ondata il Real si raccoglie, si fa più guardingo. La cosa preoccupa Herrera che cerca di indovinare il disegno tattico del suo collega spagnolo. Sembra che Munoz non abbia altri progetti, al momento, che le marcature a centrocampo. Ma ammesso che, conoscendolo bene, sappia come marcare Suarez, gli spagnoli non hanno la minima idea di cosa sia Mandrake nelle sue giornate di vena. Già al 5′ Corso è lì, che interrompe il forcing madrileno con una stupenda punizione da oltre venticinque metri. Herrera ha un sogghigno dolceamaro. Questa sera se lo sorbiranno loro il maledetto mancino pieno di talento e di pigrizia che si fa beffe di lui e gli sbilancia la squadra. Ma è il cocco del presidente, e lui, Herrera, deve tenerselo per forza, e fare miracoli di ingegneria calcistica per raddrizzare un modulo zoppo.

UN MODULO che raggiunge la perfezione solo perché davanti a una difesa impenetrabile, magistralmente orchestrata da Armando Picchi, opera un Suarez immenso capace di sacrificarsi in copertura e costruire gioco con la potenza di un motore diesel e la classe della sua regia che illumina di lanci lunghissimi e precisi il contropiede della gazzella nera Jair, del dribbling ubriacante di Mazzola e della fatica puntuale di Milani. E del terzino fluidificante Facchetti. Ma in questa notte di maggio, mentre Suarez se ne sta prudentemente raccolto a coprire la difesa, e Mazzola latita, svanito per il campo, il fragile Corso giganteggia nel deserto del centrocampo, e gioca soffici palloni vellutati per parabole impossibili. Ora è ancora in azione, in combinazione con Facchetti e Guarneri che hanno abbandonato la trincea per cercare gloria in avanti. Herrera non ama quello che vede. Le sortite offensive dei due talentuosi della sua difesa rischiano di creare buchi pericolosi. Facchetti deve marcare Amancio, l’ala giovane e velocissima del Madrid, e dovrebbe essere abbastanza per una sera. Guarneri, poi, controlla Puskas, che avrà pure i suoi anni ma anche un tiro micidiale e un intatto fiuto del gol.

BRIVIDI DI APPRENSIONE gelano il Prater nerazzurro alla mezz’ora, quando Amancio semina il terrore nella retroguardia interista. Due minuti dopo è Picchi a intervenire, a portiere battuto, con uno straordinario salvataggio. Ma a poco a poco si spegne l’impeto del Real Madrid. E intanto si è svegliato Mazzola, mentre continua a brillare Corso. E’ dal suo piede, “il piede sinistro di Dio”, che al 43′ parte il lancio che Guarneri vola a raccogliere mentre sulla sinistra scatta Facchetti che riceve e poi passa indietro a Mazzola. Sandrino aggancia al volo e lascia partire un magnifico pallone che si insacca alla destra di Vicente. Per il Real Madrid è come una pugnalata. Le sue stelle di prima grandezza stanno spegnendosi, fisicamente non ce la fanno quasi più. Ma si battono con orgoglio e dignità. L’inizio della ripresa è un festival di gioco merengue: al palo colto da Gento si aggiunge quello colto da Puskas, è un palo come se ne vedono pochi in un campo di calcio, il portiere era battutissimo e il Real avrebbe potuto pareggiare.

INVECE ARRIVA, al 17′, il gol di Milani. Quando una squadra conduce per due a zero va sul velluto, osannano i tifosi. Ma quando, sette minuti dopo, Felo segna il gol del 2-1 il Real si scatena. E allora l’Inter comincia a tremare. La squadra bianca scende in massa verso l’area interista e la ragnatela di p ggi che partono dai terzini sembra ogni volta che si concluda a rete. Sugli spalti esplodono l’ammirazione degli austriaci e le speranze degli spagnoli. E’ dal 1960 che l’aficiòn madridista continua a vivere un sogno: tornare al Real Madrid dei cinque titoli europei, porre fine ai regni effimeri delle squadre di un giorno che ne hanno usurpato il titolo negli ultimi tre anni. Ma la nostalgia è a volte tanto cieca come l’amore, pensa Helenio Herrera. A guardare bene si vede che Puskas non riuscirà a piazzare il suo tiro, che Gento non è più Gento, che Di Stefano non ha spazio, e che gli altri, malgrado i dribbling di Amancio e i raffinati palleggi di Muller, sono troppo pochi per avere ragione di Burgnich, Facchetti, Guarneri e Picchi. La difesa dell’Inter si muove all’unisono, elastica e compatta, come Herrera ha insegnato, e in certi momenti par di sentire un’orchestra, tanto perfetto ne è il ritmo.

E ALLORA ESPLODE il gioco di centrocampo e di contropiede dell’Inter. Il Real Madrid è subito alle corde. Salta il gioco delle marcature, Jair ubriaca di finte Pachin, Milani e Mazzola con smarcamenti clamorosi nei punti più impensati della metà campo spagnola facilitano i lanci di Suarez e Corso. La terza rete arriva al 31′: un errore di Zoco dà via libera a Mazzola. Sandrino scatta e dribbla a velocità fantastica, mette fuori causa Vicente e lo trafigge con un rasoterra micidiale, stupendo. La notte di reti e di gloria del ragazzo che quindici anni prima era stato vittima di una delle più spaventose tragedie sportive ammaina definitivamente dal pennone più alto del calcio mondiale la bandiera bianca del Real Madrid.

FINIVA QUELLA SERA, al Prater di Vienna, la favolosa avventura di una squadra che, grazie alla Coppa dei Campioni, divenne leggenda. Era cominciata al Parco dei Principi, il 13 giugno 1956, contro il Reims dell’asso Kopa. Si giocava in quel tardo pomeriggio parigino l’ultimo atto del primo capitolo della Coppa dei Campioni. Finì 4-3 per i madrileni, e Kopa fece meraviglie, ma l’undici guidato da un Alfredo Di Stefano presente in tutte le zone del campo provocò lunghi momenti di terror panico negli ammirati spettatori francesi. Negli anni altri grandi giocatori si erano sommati a Gento e Di Stefano: l’uruguayano Santamaria, Kopa e il profugo Puskas, per esempio, e il Real Madrid era diventato il miglior ambasciatore di Spagna. Il regime franchista era al bando da un’Europa uscita dalla guerra nazifascista, ma ovunque vada il Real le folle si scatenano quando gioca il grande Di Stefano. Ma gli assi madrileni sono soprattutto gli ambasciatori di un calcio inteso come arte. Un calcio che finisce a Vienna. Al fischio finale dell’arbitro, Moratti corre sul campo in mezzo ai suoi ragazzi: e i giocatori se lo issano sulle spalle, il presidente, mentre i tifosi impazziscono sugli spalti, e Picchi alza in alto, sempre più in alto, l’enorme Coppa d’argento. Dall’altra parte del prato i giocatori del Real Madrid, tutti intorno ad Alfredo Di Stefano, escono a testa bassa dal campo. Per un momento Puskas si volta a guardare, triste, i nuovi padroni d’Europa, poi segue i suoi compagni. Il re è morto. Viva il re.

DAL PRATER DI VIENNA l’Inter vola verso l’Avellaneda di Buenos Aires dove a settembre si gioca la partita di andata della Coppa Intercontinentale. Nessuna squadra italiana ha mai vinto quel trofeo. L’anno precedente il Milan era stato battuto dal Santos e gli argentini dell’Independiente non sono meno pericolosi dei brasiliani. E certamente più rognosi. Lo stadio è una bolgia dantesca, e i giovani campioni d’Europa all’andata limitano i danni, perdendo 1-0. Al ritorno a San Siro superano per 2-0 i campioni sudamericani. Ma non basta. Il regolamento non prevede ancora il calcolo della differenza reti, e si deve ricorrere allo spareggio. La “bella” si gioca a Madrid, sul campo del Real, e Corso regala ancora, ai fini palati spagnoli, saggi d’alta scuola, e agli italiani il gol che vale il titolo mondiale. Solo il Bologna contrasta il cammino dell’Inter e ne interrompe il volo all’Olimpico di Roma nello spareggio-scudetto 1964. Herrera urla al furto e, non pago dei titoli euromondiali, parte alla conquista del titolo italiano per il 1965. Le cose vanno male all’inizio. Alla fine del girone d’andata l’Inter è distanziata di ben cinque punti dal Milan che presenta in panchina la sua mitica bandiera: Nils Liedholm. Alla diciannovesima giornata il distacco è addirittura di sette punti. Sembra la fine del discorso-scudetto, invece è l’inizio della fine del sogno milanista.

IL MAGO ORDINA e programma il miracolo, e dà appuntamento agli increduli alla fine di maggio. E alla fine di maggio l’Inter si presenta con tre punti di vantaggio sul Milan. L’impresa è compiuta. Anche in Coppa dei Campioni c’è bisogno di un piccolo miracolo. Era cominciato tutto molto bene con la formazione appena ritoccata dove Bedin aveva sostituito il vecchio Tagnin, e al centro dell’attacco lo spagnolo Peirò aveva preso il posto dell’umile e tenace Milani, per le partite di coppa; in campionato invece, dove era possibile schierare solo due stranieri, è Angelo Domenghini, da Bergamo, il nuovo compagno di Mazzola. L’Inter regola agevolmente la Dinamo Bucarest e i Rangers di Glasgow, poi s’inceppa a Liverpool. Sono le semifinali, e l’Inter perde 3-1. Sembra finita. Lo pensa anche l’allenatore degli inglesi che ha l’impudenza di avvicinare Herrera per chiedere notizie del benfica, la squadra già qualificatasi per la finale, «dato che dobbiamo incontrarlo sicuramente, visto come è andata con voi».

IL MAGO PIOMBA negli spogliatoi come una furia: «E mi fate subire un affronto del genere! A questi, quando vengono a San Siro, dovrete rifilare almeno tre gol». Quindici giorni dopo, a Milano, è un incredibile 3-0 che proietta i nerazzurri nella seconda finale consecutiva. E’ anche la seconda Coppa dei Campioni consecutiva. La conquistano, sempre a Milano, battendo il Benfica con un gol di Jair, in una partita segnata dall’espulsione del portiere lusitano. «Ora ci basterà tirare in porta per segnare», pensarono i giocatori. Non fu così. Si rimase sull’uno a zero. L’Inter che ritorna all’Avellaneda per la seconda volta in cerca del titolo mondiale è ben più perentoria di quella precedente. Gli argentini li ha già regolati a Milano, con un comodo 3-0, e non si lascia impressionare dall’assalto violento del pubblico. Picchi ricaccia i tifosi ai limiti del campo, e Sarti para tutto, anche le biglie che piovono dagli spalti. Alla fine è 0-0 e il secondo titolo mondiale.

IL 1966, L’ANNO DELLA COREA, vede l’Inter trionfare facilmente in campionato, ma in campo europeo c’è un imprevisto stop nei quarti di finale. E’ ancora il Real Madrid sulla strada dei neroazzurri, un Real largamente rinnovato: della formazione che dieci anni prima, a Reims, aveva spaventato i francesi e posto le basi della propria leggenda era rimasto solo il vecchio Gento. L’eliminazione è colpa soprattutto dell’errata impostazione tattica di Herrera che a Madrid, in un eccesso di prudenza, presenta Bedin all’ala sinistra. Dal Bernabeu l’Inter esce sconfitta 1-0 e nel ritorno a San Siro non va oltre lo 0-0. Il Real Madrid ha la strada spianata verso la finale di Bruxelles: la partita contro il Partizan è tra le più squallide, ma alla fine Gento alza per la sesta volta al cielo la Coppa dei Campioni, l’unico uomo al mondo ad aver fatto tanto.

E COMINCIA LA STAGIONE 1967: la più esaltante e la più triste. In campionato l’Inter sembra non avere avversari, e in Coppa dei Campioni l’avvio è una cavalcata travolgente. Si comincia contro la Torpedo di Mosca, una squadra fortissima che perde a Milano solo per 1-0; e al ritorno, nel gelo della Russia, l’Inter realizza, secondo molti, «la più perfetta partita difensiva di tutti i tempi», Picchi e Guarneri dominano, gli altoparlanti dello stadio alla fine spiegano al pubblico che «è difficile trovare nella storia del calcio una difesa più forte di quella della squadra italiana». Il sorteggio non è benigno con i milanesi di Herrera, dopo la Torpedo assegna loro un’altra forte squadra. Il Vasas di Budapest non perde sul suo campo da ventidue mesi ma, quando l’Inter si presenta in terra magiara, dopo aver vinto a Milano per 2-1, l’imbattibilità finisce: è 2-0 per i nerazzurri e i due gol segnati da Mazzola al Nepstadion di Budapest, uno dei templi del calcio europeo, resteranno nella memoria come due tra le più belle reti di ogni tempo. La prima specialmente, con quel tempo lunghissimo dove i secondi diventano minuti e i minuti ore, e Mazzola vagabonda dal centro alla sua destra, fino all’altezza della bandierina e ritorno, dribblando uno dopo l’altro tutti gli avversari che gli vengono incontro, alla ricerca del momento migliore per un tiro che sembra non dover giungere mai.

QUANDO INFINE IL PALLONE gonfia la rete nel silenzio attonito dello stadio, alle orecchie di Sandro giunge soltanto la voce arrabbiata di capitan Picchi:«Se non segnavi ti ammazzavo». Aveva lasciato la trincea, il capitano, e venuto avanti passo dopo passo ordinando “tira, tira, tira”, e alla fine si era ritrovato nel pieno dell’area avversaria, lui che non abbandonava mai la propria.Per il terzo turno il sorteggio affianca ancora una volta al nome dell’Inter quello del Real Madrid. Sono come tre finali, una di seguito all’altra, e sono l’ultimo trionfo dell’Inter in Europa. Dopo aver regolato gli spagnoli a Milano per 1-0, Helenio Herrera assapora la soddisfazione di espugnare il mitico stadio Bernabeu, battendo il Real per 2-0. Ma la fatica di una stagione massacrante, che vede la squadra impegnata su molteplici fronti (dopo il disastro coreano è stata trapiantata praticamente in blocco in nazionale), comincia a farsi sentire: il CSKA viene eliminato a fatica in tre partite.

E POI SI ARRIVA A LISBONA. Il Celtic non è nessuno sui palcoscenici europei e, anche se l’ambiente è ostile, la partenza sembra favorevole ai nerazzurri che dopo sei minuti sono in vantaggio con un gol di Mazzola, su rigore. Ma la grande avventura cominciata a Vienna in una magica sera di maggio finisce lì, sulle rive dell’Atlantico. L’assenza di Suarez, così indispensabile nel modulo dell’Inter, l’azione incessante degli avversari, e un’improvvisa stanchezza che svuota le energie dei giocatori determinano il tracollo: alla fine è 2-1 per il Celtic. E’ il 25 maggio 1967.

UNA SETTIMANA DOPO, a Mantova, l’Inter è ancora sotto shock, piena di rabbia, ma anche di paura. Si gioca l’ultima partita di campionato e la squadra nerazzurra precede la Juve solo di un punto, mentre il Mantova naviga in una tranquilla posizione di centro classifica. L’Inter attacca subito, in massa, ma la porta di Zoff sembra stregata, Mazzola colpisce anche la traversa dopo aver superato il portiere con un pallonetto: è il segnale definitivo della fine, non ci sono appelli, il bel giocattolo chiamato Inter è andato in tilt. A quattro minuti dal termine arriva addirittura la beffa: segna il Mantova, con l’ex nerazzurro Beniamino Di Giacomo. Negli spogliatoi Mazzola piange, e sulle sue spalle piange anche Di Giacomo, che ha dovuto segnare il gol più ingrato della sua vita. La festa è finita.

Testo di Maria Teresa Lattanzi