La leggenda della Grande Ungheria

La più grande di tutti i tempi, quanto a espressioni spettacolari e forza d’urto nei suoi momenti d’oro, fu la grande Ungheria di Gusztav Sebes, l'”Aranycsapat” (squadra d’oro). Fu fermata sull’orlo della gloria massima dai tedeschi nella finale mondiale 1954


L’ALLENATORE D’ORO

Le vicende dell’Aranycsapat si legano a filo doppio alla figura e alla forte personalità del suo creatore, il Ct Gusztav Sebes. Era stato un buon centromediano del calcio ungherese, con all’attivo una carriera lunghissima, cominciata nel 1918 e terminata solo nel 1940, con milizia nell’Haladas, nel Vasas e con i francesi del Billancourt, prima di passare all’MTK Budapest, con cui aveva lungamente giocato. Nelle sue memorie (morì il 30 gennaio 1986) ricordava di aver affrontato centravanti famosi come Sarosi, Piola, Sindelar, Svoboda.

Spiegava così i suoi successi da giocatore: «Per me il calcio era una questione esistenziale. La mia passione sviscerata per il pallone mi spingeva a vivere “sportivamente”, perché solo cosi avevo modo di entrare come titolare fìsso in squadra e mantenere il posto. Ero molto autocritico, dopo ogni partita analizzavo il mio gioco, cercavo di individuare le mie debolezze e di correggere le deficienze durante gli allenamenti. Cercavo di mantenermi sempre in buona forma, poiché sapevo che in condizioni fisiche migliori, con una maggiore volontà combattiva, sarei stato capace di avere la meglio anche su calciatori tecnicamente più forti. Così è stato per Sindelar, Braine, Meazza, Piola, Sarosi e altri: io stimavo, apprezzavo tutti i miei avversari, ma non li ho mai sopravvalutati».

Un uomo così scrupoloso divenne un grande tecnico proprio per la maniacale attenzione ai dettagli e l’acutezza nell’esaminare le vicende tattiche. Grande ammiratore del calcio austriaco e italiano, e in particolare di Hugo Meisl (il creatore del Wunderteam) e Vittorio Pozzo, era convinto che non bastassero le doti tecniche a fare un grande calciatore: «L’allenatore può fare un lavoro efficace solo se il giocatore dispone di un ‘intelligenza di gioco speciale. La capacità non è tutto e non serve a molto se non si accompagna all’esercizio, all’allenamento, a un corretto modo di comportarsi e di vivere. Un calciatore che non fa vita da sportivo può avere anche un titolo di studio, ma non potrà mai chiamarsi un giocatore intelligente. Quando Jozsef Turay, uno dei migliori giocatori nella storia del calcio ungherese, entrò nel Ferencvaros e poco dopo nella Nazionale magiara come centravanti, non sapeva né leggere né scrivere. E pensare che in campo era raffinato, geniale. Quando era già conosciuto come calciatore in tutto il Paese, ebbe l’umiltà di ammettere il suo disagio. Si presentò ai suoi dirigenti e disse apertamente che soffriva di un terribile complesso di inferiorità e che lo avrebbe sofferto finché non avesse imparato a leggere e a scrivere. Era giocatore ormai di fama europea quando fini gli studi. Doveva avere una bella forza di carattere!».

Sebes divenne Ct dell’Ungheria nel 1949, trovandosi immerso in una giovane generazione di fuoriclasse, di quelle che in un Paese fioriscono solo per una rara congiunzione astrale. In gran parte, quei fuoriclasse erano concentrati nella Honved di Budapest, la squadra dell’esercito, all’epoca probabilmente la più forte del mondo, in mancanza di competizioni ad hoc (come poi sarebbero state soprattutto la Coppa dei Campioni, nata nell’anno dell’invasione sovietica dell’Ungheria, il 1956, e la Coppa Intercontinentale) a certificare un simile assunto.

Dalle macerie della guerra era uscita una infornata di grandi calciatori, ma anche una nuova organizzazione sociale, che prevedeva il collegamento delle squadre di calcio con le grandi aziende statali e con i corpi istituzionali. Dalle ceneri della Kispest nacque la Honved, in lingua ungherese “Difesa della patria”, la squadra dell’Esercito, che presto sfruttò la propria posizione di preminenza per fare incetta dei migliori talenti e diventare pressoché invincibile. Conquistò il titolo nazionale nel 1950, 1952, 1954 e 1955, prima che la repressione sovietica polverizzasse quella magnifica scuola di calcio, disperdendone i mignon interpreti nell’Europa occidentale.

Forte dei precedenti di Meisl e Pozzo, però, Sebes decise di fondare la squadra su due blocchi, completando il meglio della Honved (cui si dovevano otto undicesimi della rappresentativa nazionale), con elementi del Voros Lobogo (l’ex MTK). A poco a poco, il mosaico prese corpo in una entità di straordinaria forza, che sbaragliò il campo alle Olimpiadi di Helsinki nel 1952. Vittorio Pozzo commentò nell’occasione di non aver mai visto un calcio così spettacolare, la rivista tedesca “Kicker” scrisse che novanta minuti erano troppo pochi per un football così meraviglioso.

Tatticamente, la squadra era schierata secondo il classico Sistema, ma con una modifica fondamentale, che ne fece passare alla storia anche il modulo. L’origine era stata suggerita a Sebes da una contingenza particolare: il più grande centravanti ungherese, “Bamba” Deak, poderoso uomo di sfondamento dalle sensazionali medie-gol, che nel campionato 1945-46 aveva messo a segno 66 reti, aveva lasciato la Nazionale per motivi politici (si era ribellato al regime comunista). Lo aveva sostituito Palotas, altro notevole interprete, privo tuttavia delle caratteristiche preferite dal tecnico, che aveva messo gli occhi su un altro campione.

Si chiamava Nandor Hidegkuti, era una grande ala, ma non un uomo di sfondamento. Disponendo di due interni da vecchio Metodo, Kocsis e Puskas, eccezionali uomini gol, Sebes riteneva di dover schierare per l’appunto un attaccante più portato alla manovra che alla conclusione diretta. In pratica, si trattava dello sviluppo dell’evoluzione già attraversata dal Metodo: i cui centravanti, come abbiamo visto in precedenza, in gran parte avevano finito col perdere le caratteristiche di sfondatori, spinti ad arretrare dal continuo avanzamento dei due terzini schierati uno davanti all’altro.

LA “CREAZIONE” DI HIDEGKUTI

Sebes ebbe il grande merito di individuare l’uomo giusto in Hidegkuti, fino a quel momento un’ala di ottimo rendimento, non considerata tuttavia all’altezza dei fuoriclasse della Honved. Ecco come lo stesso Ct ne raccontò lo “svezzamento” in Nazionale: «Di lui sapevo già da anni che era un buon giocatore. Più volte l’avevo anche provato nella Nazionale, ma senza ottenere i risultati che speravo. Hidegkuti giocava magnificamente nella sua squadra di club (il Voros Lobogo) come ala destra, era lui che dirigeva il gioco. In Nazionale, invece, ogni sua prestazione era nervosa, imprecisa. Che fosse un grande giocatore non potevo avere dubbi, però non riuscivo a farlo giocare come mi sarebbe piaciuto. Aveva una lucida visione del gioco solo quando stava con i vecchi compagni. Aveva straordinarie capacità tecniche, ma in Nazionale – ripeto – le poche volte che lo impiegavo non riusciva a mostrarle. Al punto che, se facevo tanto di chiamarlo in squadra, la stampa specializzata mi attaccava. D’altra parte inutilmente cercavo di trovare in altre squadre un uomo che mi potesse dare il suo stesso apporto potenziale. Eravamo nel 1951, l’anno prima delle Olimpiadi e la nostra Nazionale continuava a mancare di un centravanti. Tra Kocsis e Puskas non potevo mettere uno qualsiasi. Qualche mese prima dei Giochi erano in programma due partite a Varsavia e a Helsinki con i polacchi e i finlandesi. Non potei accompagnare la squadra e perciò mi affidai a Gyula Mandi come allenatore e a Ferenc Puskas come giocatore di fiducia. A loro due diedi precise disposizioni per la trasferta, il ritiro e la formazione della squadra. Il centravanti doveva essere Palotas. Tuttavia consegnai a Mandi una busta avvertendolo che doveva aprirla soltanto negli spogliatoi. Incaricai lo stesso Puskas di ricordare a Mandi la busta, semmai se ne fosse scordato. Negli spogliatoi dello stadio di Varsavia, fu proprio Puskas a sollecitare l’allenatore: «Mandi, si ricordi la busta, deve aprirla ora». Credevano entrambi che contenesse parole di circostanza per i ragazzi. Invece sul biglietto c’era solo questo: centravanti, al posto di Palotas, doveva essere Hidegkuti.Palotas era già in divisa, Hidegkuti stava in tribuna. Quest’ultimo venne immediatamente avvisato e in tutta fretta, senza aver neanche il tempo di pensare, dovette cambiarsi per entrare in campo. Morale: Hidegkuti giocò in tutta tranquillità, fece una magnifica partita, segnò due gol e l’Ungheria vinse per 5-1. Quando gli fu chiesto perché tutt’a un tratto si fosse trovato in una forma così smagliante, il giocatore rispose che, siccome si era coricato alla vigilia sicuro di non giocare, aveva dormito benissimo. Aveva trascorso tutta la giornata pacifico, senza pensieri: senza pensare alla partita e a quello che sarebbe potuto accadere se avesse giocato male.Fu così che io potei finalmente scoprire il centravanti che desideravo per la Nazionale, e che desideravo da anni. E l’evento, felice per Hidegkuti, che poté così affermarsi al massimo livello, fu esemplare per me, che ero il selezionatore. Mi diede maggiore fiducia per il lavoro successivo. Da allora posi più cura nello studio dei caratteri delle persone che lavoravano alle mie dipendenze»

Era nato il modulo a “M”, come sarebbe stato tramandato ai posteri, anche se un dato non va sottovalutato. In quella squadra, la caratura tecnica elevatissima consentiva a quasi tutti i giocatori di disimpegnarsi in più posizioni tattiche durante la partita e proprio una diffusa tendenza all’interscambiabilità dei ruoli al seguito dell’istinto di quei grandi campioni è stato visto da qualcuno come una sorta di anticipazione del fenomeno olandese degli anni Settanta.

Lo stesso Puskas, ricordando quegli anni felici, ha spiegato, forse un po’ semplicisticamente: «Dietro alle nostre vittorie non c’erano molti segreti. Giocavamo per il piacere di farlo, tatticamente non esistevano soluzioni particolarmente innovative. La filosofia era quella, semplicissima, di buttare la palla in fiondo al sacco, sempre e comunque. È vero, gli anni Cinquanta sono stati segnati da molti cambiamenti nell’impostazione tattica delle squadre, e anche noi ne fummo influenzati. Ma la Honved non si è mai persa troppo dietro a questi discorsi teorici. Cercavamo il risultato con naturalezza, impegnandoci fino allo spasimo, correndo fino all’ultimo respiro, senza mai risparmiarci e senza troppe alchimie tattiche». Così è non di rado per i grandissimi campioni: la facilità con cui fluiscono dalle loro doti le prodezze più straordinarie li induce a ricondurre tutto all’anarchico ordine dell’istinto.

LEZIONI A DOMICILIO

La difesa ricalcava la “M” tipica del Sistema. In porta giocava Grosics, fuoriclasse del ruolo. Davanti a lui, un trio di difensori solidi, ancorché non classificabili come campioni: Buzansky e Lantos terzini laterali, Lorant stopper. A centrocampo, era l’immenso Bozsik, considerato il più grande mediano di ogni epoca, classico e potente al tempo stesso, dotato di una nitida visione di gioco e di personalità spiccata, a dettare i ritmi del gioco, con la collaborazione dello “sgobbone” Zakarias, che assicurava copertura e corsa. Per compiacere al massimo la vocazione delle due punte principali (gli interni Kocsis e Puskas), le ali giostravano lievemente arretrate rispetto al Sistema classico, in quanto una, il vivace Budai II o la sua riserva Toth, era un costruttore di gioco; l’altra invece, Czibor, era un fuoriclasse offensivo, con lo scatto bruciante e il dribbling ubriacante dell’estrema ideale, e giostrava da terzo attaccante, istintivamente proiettato alle incursioni nell’area altrui. Sulla loro linea, il citato Hidegkuti, in pratica il rifinitore o trequartista della situazione, peraltro non per questo estraneo ai giochi d’area, come dimostra il suo bottino finale in Nazionale: 68 partite e ben 39 reti.

Niente tuttavia, sul puro piano realizzativo, rispetto ai due “re” del gol: Sandor Kocsis, detto “testina d’oro”, probabilmente il più grande colpitore di testa di tutti i tempi, chiuse con 68 partite e 75 reti (fu capocannoniere al Mondiale del 1954, con 11 reti nelle cinque partite disputate); Ferenc Puskas, micidiale mancino, con 84 partite e 83 reti e venne accreditato, a fine carriera, di 1.328 gol complessivi. I due si completavano mirabilmente a vicenda, entrambi campioni completi, dai fondamentali da favola, pratica-mente inarrestabili nelle loro incursioni in area.Lo schema classico prevedeva il rilancio di Bozsik per Hidegkuti, che apriva sulle ali rimanendo accentrato e così favorendo gli inserimenti dei due interni, che partivano da dietro per andare a concludere sui servizi delle estreme. La “W” a tre punte si era trasformata in una “M” a due attaccanti, di micidiale efficacia.

La leggenda dell’Aranycsapat si snodò attraverso fantastiche dimostrazioni di calcio su ogni campo. Tra il 14 maggio 1950 (sconfitta in Austria per 3-5) e il 4 luglio 1954 (caduta nella finale del Mondiale a opera dei tedeschi, 2-3), collezionò 29 vittorie e 3 pareggi su 32 partite, con l’incredibile bilancio di 143 gol fatti e 33 subiti. Il che la dice lunga sulla propensione offensiva del suo gioco. In particolare, restarono memorabili tre incontri. Il primo, il 17 maggio 1953, a Roma, inaugurazione dello Stadio Olimpico: il 3-0 alla Nazionale azzurra sfatava una lunga tradizione sfavorevole (da 28 anni gli ungheresi non vincevano sul suolo italiano); per la prima volta la radio ungherese trasmise un incontro di calcio in diretta, chiuso con gli applausi a scena aperta dell’Olimpico.

La seconda suscitò un clamore straordinario. Il Ct Sebes, in occasione del successo olimpico, aveva ricevuto da Stanley Rous, presidente del calcio inglese e futuro numero uno della Fifa, l’invito a far cimentare i propri ragazzi nel tempio di Wembley. Di propria iniziativa («E se dovessimo perdere? Faccia bene attenzione!» lo apostrofò stizzito Matyas Rakosi, segretario generale del partito comunista) aveva accettato, combinando senz’altro il match, fissato ovviamente dai Maestri con l’occhio alle loro note preferenze climatiche: novembre, per la precisione il 25, del 1953.

Mai una squadra del “continente” aveva vinto sul suolo inglese, da novant’anni i Maestri non perdevano sul proprio campo. Sebes era un maniaco dei dettagli. Si recò a Londra, all’inizio di novembre, per assistere a Inghilterra-Resto d’Europa, finita 4-4. Accortosi che il pallone non rimbalzava mai per più di mezzo metro, la mattina dopo si recò ancora a Wembley e vestito da passeggio com’era provò a correre, a condurre il pallone, a calciarlo in aria, valutandone le traiettorie. Gli operai che lavoravano sul campo lo presero per pazzo; lui prima di far ritorno a Budapest chiese in regalo all’amico Rous tre palloni di marca inglese.In patria, fece allargare un campo di allenamento per raggiungere i 110 per 70 del mitico tempio del calcio d’Albione e tre volte la settimana vi chiamava ad allenarsi i migliori giocatori ungheresi, ovviamente coi tre palloni britannici. Ebbene, quando il giorno fatidico giunse, “l’incontro del secolo” tra i campioni olimpici e i Maestri si risolse in una abbacinante lezione di calcio a domicilio, chiusa sul fragoroso punteggio di 6-3, con tre reti di Hidegkuti, che stordì lo stopper inglese coi suoi arretramenti, due di Puskas e una di Bozsik. Il fatto destò enorme scalpore, ma ancor più ne procurò la rivincita, concessa il 23 maggio dell’anno successivo, all’approssimarsi dei Mondiali: a Budapest gli ungheresi si affermarono per 7-1:2 reti di Puskas, 2 di Kocsis, una per Lantos, Hidegkuti e Toth.

IL LINCIAGGIO DI SEBES

Il titolo mondiale doveva suffragare la superiorità di quella macchina da calcio. Ma in Svizzera, dopo spettacolari dimostrazioni di gioco (e pure di botte, nel famigerato scontro col Brasile), il crollo repentino nella seconda parte della finale chiuse inaspettatamente e malinconicamente i conti dell’Aranycsapat, decretandone la fine. La sconfitta di Berna era nata in realtà due settimane prima. Durante gli ottavi, a Basilea, già si erano trovate di fronte le due squadre destinate alla finale. I tedeschi erano stati travolti per 8-3, ma il centromediano tedesco Liebrich era entrato con durezza criminale ben tre volte su Puskas. «Mi venne in mente» raccontava Sebes nelle sue memorie «la valutazione della rivista tedesca “Kicker” dopo le Olimpiadi: «I giocatori ungheresi sono i maghi del calcio. I fili convergono in Puskas. E lui che dirige, che guida la squadra sulla via che conduce alla vittoria». Sulla partita, la rivista viennese “Sport Magazin” commentò poi: «L’invulnerabilità di Puskas era ormai un fenomeno leggendario. Per molti anni, in modo incredibile, era uscito indenne da tutti gli scontri, fino alla battaglia del Reno contro i tedeschi dell’8 giugno 1954».

Il terzo colpo di mannaia era stato fatale a Puskas, uscito dal campo con una caviglia distrutta. L’aggressione di dirigenti e giocatori brasiliani dopo il violento scontro nei quarti aveva fatto il resto, traumatizzando la squadra. Pur privi di Puskas, i magiari avevano battuto ai supplementari per 4-2 l’Uruguay. E, all’approssimarsi della gara fatidica, ecco il dubbio amletico ): far giocare o no il malconcio Puskas?

Nelle sue memorie, Sebes si difendeva asserendo che Kocsis (morto suicida in Spagna nel 1979 gettandosi da una finestra), reduce dal poker di reti rifilate a brasiliani e uruguaiani pur senza il grande Ferenc, gli aveva parlato a quattr’occhi: «Puskas farà parte della squadra? Mi creda, è molto difficile per me, da quando lui non gioca. Tutti mi stanno addosso, tutti mi attaccano. Qualsiasi cosa io faccia, non riesco a liberarmi di tutti, potremmo marcare il doppio di reti se ci fosse Ferenc». Il grande, immenso Puskas andò in gol dopo appena 6 minuti, dando illusoriamente ragione al Ct, poi il riaffiorare del dolore lo fece via via svaporare dal match.

L’altra grave colpa poi imputata a Sebes fu di avere scambiato le ali, schierando Czibor a destra, una vera “bestemmia”, nei commenti a posteriori. Il Ct scrisse che l’idea gli era nata dalla considerazione delle caratteristiche del terzino sinistro Kohlmeyer, colonna della difesa tedesca: era mancino puro e Czibor, che palleggiava con il destro, sarebbe stato in vantaggio, potendo effettuare le finte verso l’interno, cioè verso il centro del campo. Quanto all’altra ala, Toth, dopo la sconfitta venne addirittura sparsa la voce che fosse il marito della figlia di Sebes e che a quella coincidenza soprattutto dovesse l’aver partecipato all’atto decisivo. Dal canto suo Sebes ebbe a dolersi di alcune decisioni dell’arbitro, anche sul gol decisivo di Rahn, che a sei minuti dal termine fissava il risultato sul 3-2 per i tedeschi. Poi, sarebbe accaduto di tutto, al povero Commissario tecnico, destinato a trascorrere in fretta dall’altare alla polvere, come spesso accade nelle umane vicende.

L’artefice della Grande Ungheria venne accolto alla frontiera da Zoltan Vas, capo del comitato di ricevimento, che gli chiese dove fosse la figlia maggiore. C’erano infatti la moglie di Sebes, la figlia di undici anni e il figlio di dieci. Appreso che non aveva altri eredi, Vas si volse a un fotoreporter dell’“Esti Budapest” e gli disse di fotografare la bambina, da pubblicare in prima pagina con questa didascalia: «La figlia di Gusztav Sebes, che secondo certuni è la moglie di Mihaly Toth, sta per compiere undici anni».

Sebes era esterrefatto. Di lì a poco, mentre era sulla via del ritorno, il suo appartamento in piazza Baross venne saccheggiato dai tifosi inferociti, riunitisi spontaneamente per manifestare la propria collera. Amareggiato, il Ct rifiutò le dimissioni, nonostante le implorazioni della spaventatissima moglie. Venne esonerato solo due anni dopo, nell’estate 1956, quando ormai la bussola del suo Paese era impazzita e la grande squadra si era dissolta assieme alla rivolta libertaria del popolo ungherese, stritolata dai carri armati sovietici.

Nei giorni della rivolta contro il regime comunista, il nerbo della squadra, costituito dai giocatori della Honved, si trovava all’estero in tournee con la propria squadra di club. Alcuni tra i più famosi decisero di non tornare in patria e, dopo non poche peripezie, vennero raggiunti dai familiari, per accasarsi soprattutto nei club di spicco spagnoli, Real Madrid e Barcellona. Il mito della “squadra d’oro”, forse la più grande di tutti i tempi, era caduto in pezzi. E non sarebbe rinato mai più.