Il Miracolo di Berna

Vista dagli occhi di un bambino che incontra il suo idolo, il calciatore della nazionale tedesca Helmut Rahn, il film ripercorre la vittoria della Germania Ovest ai mondiali del 1954 contro l’Ungheria nella finale disputata a Berna


1954: doveva essere dura, terribile, la vita nella Germania (Ovest) di quegli anni: un Paese materialmente distrutto e psicologicamente prostrato, una popolazione abbrutita e inebetita da oltre un decennio di terrore e di orrore, e poi messa di fronte allo spaventoso compito di dover ripartire da zero, ricostruire tutto, reinventarsi una vita, un lavoro, ma anche un modo di pensare e di rapportarsi alla realtà, dopo che quella realtà era stata distorta, deformata, dal lungo indottrinamento, diciamo pure lavaggio del cervello, operato da Hitler e soci.

Di questa Germania interdetta, disincantata, spiazzata dall’enormità degli eventi, eppure non svuotata, e anzi intimamente così forte, così solida d’animo da rimboccarsi le maniche senza piangersi addosso né chiedere pietà, fino a ricostruirsi una verginità; di questa Germania, dicevo, il film fornisce un affresco scarno, popolaresco, efficace. Un affresco neorealista, si potrebbe dire, perché tutto ciò lo racconta attraverso le vicende di gente semplice, di una famiglia come tante, la famiglia Lubanski, di una donna con tre figli che, col marito partito per la guerra in Russia e finito chissà come, si è vista costretta a ridisegnare la propria esistenza per mantenere i suoi cari, e lo ha fatto con dignità e successo, aprendo un piccolo bar diventato via via imprescindibile luogo di ritrovo per tanta gente della cittadina (Essen).

Dopodiché, il rientro tanto sospirato del marito dalla prigionia riapre vecchie ferite e trasmette in modo fedele lo strano e controverso clima di quegli anni, di un popolo desideroso di “purificarsi” eppure ancora profondamente segnato, dentro, dall’infezione nazista: così, l’uomo, l’ex soldato Richard, torna a casa e pretende di imporre una nuova – vecchia disciplina a figli cresciuti liberi eppure giudiziosi: deprecabili cascami hitleriani, come quando sostiene, di fronte al figlio più piccolo, Matthias, in lacrime, che “i bambini tedeschi non devono piangere mai”.

Matthias è il trait d’union tra i due mondi tratteggiati da questo film, quello storico tout court della società tedesca occidentale del dopoguerra e quello più leggero del calcio e dei suoi protagonisti: il ragazzino è infatti amico fraterno di Helmut Rahn, attaccante della squadra di Essen e della Nazionale tedesca: questi, fino alla ricomparsa di papà Richard, ha rappresentato per anni quasi una figura paterna per Matthias, che viene considerato dal campione una mascotte, un portafortuna: con lui presente allo stadio, ha disputato le sue migliori partite.

Ecco quindi l’altra storia, quella della vittoria impossibile, della Germania che conquista il primo dei suoi tre titoli mondiali. Ma non è solo calcio: quell’evento, imprevedibile perché il Mondiale del ’54 avrebbe dovuto consacrare l’immortalità della Nazionale ungherese di Puskas e Hidegkuti, una delle più forti squadre mai apparse sui campi di football, rappresenta la conclusione ideale del lungo dopoguerra germanico: il riscatto definitivo del Paese, dopo anni di privazioni, sofferenze, sacrifici di un popolo intero, riparte proprio da lì, dal pallone. Anche se solo simbolicamente, è bello pensare che proprio con quel trionfo sia cominciata l’ascesa tedesca ai vertici mondiali, in tutti i settori della vita, un po’ come, più in piccolo, il successo azzurro al Mundial di Spagna del 1982 segnò la fine degli anni di piombo e l’avvio di una fase di benessere, ad emblema della voglia di un popolo di scrollarsi di dosso brutture e tragedie per tornare a pensare positivo e a costruire qualcosa di grande.

Se la società tedesca e le vicende della famiglia Lubanski vengono rese efficacemente da una sceneggiatura e da una regia di grande impatto realistico, anche grazie a una narrazione per immagini che ricostruisce in maniera suggestiva la quotidianità dei tempi, con un’attenzione maniacale ai particolari, dall’abbigliamento all’arredamento, anche la rappresentazione del mondo del calcio e della Nazionale tedesca appare particolarmente riuscita. Anzi, si può dire che questo sia uno dei migliori film di calcio realizzati, alla pari del pur diverso “Fuga per la vittoria”, anche quello legato alle vicende della seconda guerra mondiale. Il football nel mondo della celluloide non ha mai avuto grande fortuna, a parte l’esempio citato o, agli antipodi, pellicole comiche come il nostro “L’allenatore nel pallone”. Perché? Forse perché il calcio è un qualcosa che regala grandissime emozioni solo quando è “vero”, mentre ricostruito “in vitro”, recitato, trasmette solo freddezza e prevedibilità.

Ebbene, “Il miracolo di Berna” è secondo me una piacevole eccezione: anche in questo caso, vincente risulta l’attenzione ai particolari: le divise d’epoca, in borghese e da gioco, i calciatori in ritiro, con inevitabili fughe notturne e atti di indisciplina, la pressione della stampa sulla squadra, già fortissima all’epoca; e ancora, il campione (nella fattispecie il portiere Turek) che fa beneficenza in diretta tv (una tv agli albori) mettendo all’asta un pallone con tutte le firme dei Nazionali, e poi la gente radunata a fare il tifo attorno al televisorino nel bar dei Lubanski, e i bambini che simulano il derby di semifinale Germania – Austria con la più classica delle partitelle all’aperto, fra terra e fango.

Ma dove il film vince il confronto con le altre pellicole calcistiche è nel modo in cui viene fatta “rivivere” la finalissima mondiale con l’Ungheria: si è optato, saggiamente, per una ricostruzione delle fasi di gioco del tutto aderente alla realtà, allo svolgimento effettivo di quello storico match: le azioni dei gol sono uguali a quelle autentiche, persino le inquadrature sono spesso effettuate dalle medesime angolature dei filmati in bianco e nero tramandatici dalle cronache del ’54; suggestivo anche, seppur ottenuto con un effetto di computer grafica facilmente smascherabile, il colpo d’occhio dello stadio Wandkorf di Berna, così com’era all’epoca. Quando poi, alla fine, compare pure il presidente della Fifa (e ideatore della Coppa del Mondo) Jules Rimet che premia il capitano tedesco Fritz Walter, anche questi nella medesima posa di tante fotografie presenti sui libri di storia del calcio, il groppo in gola, per un vero appassionato, sale inevitabile.

Emozionante il finale, che magari può risultare prevedibile (il padre di Matthias scaccia i fantasmi della guerra e si riconcilia col figlioletto, con la famiglia e col mondo), meno scontato è invece il modo in cui ci si arriva: il ragazzo non si perderebbe per niente al mondo la trasmissione televisiva della finale dei Mondiali, ma proprio quel giorno il padre lo fa alzare di buon’ora perché, per riscattarsi ai suoi occhi, ha deciso di fargli il regalo più bello, portarlo in gita a Berna per consentirgli di assistere dal vivo alla partita: ma tra guai meccanici alla macchina e problemi meteo, il viaggio diventa un’avventura. I due però arriveranno in tempo perché il ragazzo possa entrare nello stadio e incrociare, da bordo campo, lo sguardo del suo amico – idolo Helmut Rahn, il quale, ritrovato il suo “portafortuna”, va a segnare il gol della vittoria. Delizioso.

Testo di Carlo Calabrò – notedazzurro.blogspot.it

TitoloIl Miracolo di Berna (Das Wunder von Bern)
RegiaSönke Wortmann
Durata118′
PaeseGermania
Anno2003
MusicheMarcel Barsotti
MontaggioUeli Christen
CastLouis Klamroth: Matthias Lubanski
Peter Lohmeyer: Richard Lubanski
Johanna Gastdorf: Christa Lubanski
Mirko Lang: Bruno Lubanski
Birthe Wolter: Ingrid Lubanski