Italia-Spagna: Quando Zamora disse no

Poche partite della Coppa del Mondo sono state più discusse di Italia-Spagna del 1934, per anni presa come manifesto dell’arbitraggio casalingo nel giornalismo sportivo di tutto il mondo e che spianò agli uomini di Pozzo la strada verso la vittoria finale.

Spianò si fa per dire, visto che per arrivare al trionfo si dovette battere la squadra europea del momento, il Wunderteam di Hugo Meisl, e la Cecoslovacchia: ma queste sono altre storie, che vi infliggeremo in futuro. Quella di Italia-Spagna necessariamente si basa sulla media delle testimonianze e sulle poche ma non pochissime immagini, tagliando gli estremi italiani e spagnoli, oltre che dei libri e degli articoli dell’epoca.

Stadio Berta (l’attuale Franchi) di Firenze, 31 maggio 1934, ore 15: gradinate piene ma non da tutto esaurito (ci sono le foto…) e spettatori senz’altro inferiori ai quarantamila. Pozzo fa subito una scelta dolorosa, escludendo il declinante vercellese Virginio Rosetta, trentaduenne, in campo nel comodo ottavo di finale contro gli Stati Uniti che della squadra eroica di Uruguay 1930 (terza a pari merito con la Jugoslavia, se non vogliamo dare credito alla finale per il terzo posto fantasma, che in realtà fu solo un’amichevole) hanno conservato pochi elementi: il capitano Moorhouse, Billy Gonsalves, Tom Florie. Combi c’è, mentre all’altro componente del leggendaria filastrocca-formazione juventina, il casalese Umberto Caligaris, di un anno più vecchio di Rosetta, il c.t. ha concesso solo di fare il portabandiera nella cerimonia inaugurale. Italia in campo quindi con Combi in porta, Monzeglio e Allemandi terzini, Pizziolo, Luis Monti e Castellazzi in mediana, più il superattacco Guaita-Ferrari-Schiavio-Meazza-Orsi. Usando le categorie mentali e di giudizio di oggi: quattro juventini, tre interisti, due bolognesi, un romanista e un fiorentino.

Spagna anche lei schierata secondo i dettami del Metodo, in Inghilterra già da anni messo in discussione dal Sistema di Chapman (niente di astruso: semplicemente il centromediano arretrato sulla linea dei difensori e le mezze ali più staccate dai compagni d’attacco, a formare quasi un quadrilatero con i due mediani rimasti): Zamora, Ciriaco, Quincoces, Cilaurren, Maguerza, Fede, Lafuente, Iraragorri, Langara, Regueiro, Gorostiza.

Partita di durezza mostruosa, con il belga Baert che sbaglia qualche fischio ma non a senso unico. Schiavio reclama un rigore, per un fallo di Maguerza che dalla tribuna sembra netto, ma l’arbitro gli fa segno di alzarsi, poi gol annullato a Lafuente per il fallo di un compagno: buona gestione della partita, ma troppe licenze a Monti e alle sue entrate, quelle che quattro anni prima, quando vestiva la maglia dell’Argentina, nella finale non aveva potuto fare, turbato dalle minacce pre-gara di delinquenti uruguayani (in molte storie dei Mondiali, soprattutto sudamericane, trasformatisi in italiani: non si capisce il perché).

L’Italia è più tecnica della formazione messa in campo da Garcia de Salazar e capitanata dal mitico (per una volta aggettivo non abusato) Ricardo Zamora (foto), ma Pozzo sceglie stranamente una tattica da mazzolatori: palloni lunghi verso le ali, con cross anche dalla tre quarti per Schiavio e gli inserimenti di Meazza e Ferrari. L’Italia fa comunque di più, ma la Spagna va in vantaggio con Regueiro al 31′, favorito da un’incertezza di Combi. La forza morale della squadra di Pozzo si vede subito, anche se la tattica non cambia: palloni sparati in mezzo, sperando nella freschezza di Schiavio e nella classe di Meazza.

Ecco la formazione dell’Italia nella prima partita contro la Spagna. Da sx: Combi, Monti, Guaita, Schiavio, Allemandi, Ferrari, Castellazzi. Accosciati: Pizziolo, Monzeglio, Meazza, Orsi

Il pareggio arriva alla fine del primo tempo ma è viziato, viziatissimo: Pizziolo calcia una punizione in mezzo all’area, Zamora esce in presa alta e Schiavio gli dà una spallata clamorosa, permettendo a Ferrari di segnare indisturbato. Proteste spagnole, specialmente di Zamora. Che nel secondo tempo para davvero di tutto, a Schiavio ed a Orsi, con uscite basse alla Ghezzi (per usare un paragone che qualche vivente può apprezzare) e immancabili calcetti-calcioni presi, disputando una delle partite della vita con Baert che dà licenza di picchiare a Schiavio, degli attaccanti italiani l’unico agonisticamente cattivo. Uno a uno dopo i supplementari, con l’Italia che chiude dominando, e subito polemiche a non finire per l’arbitraggio. In realtà Baert sbagliò di grosso sul gol azzurro, e sorvolò sulle entrare di Monti e Schiavio, ma concesse molto anche agli spagnoli, asserragliati in difesa per tre quarti di partita, resistendo alla tentazione di risolvere una delle mille mischie con un rigore casalingo.

La ripetizione della partita è fissata per il giorno dopo, sempre al Comunale, ed è preceduta da uno dei grandi gialli della storia del Mondiale: le decisione del più grande portiere del mondo di chiamarsi fuori, ufficialmente per infortunio. Una specie di ‘No mas’ in stile Roberto ‘Mano di Pietra’ Duran in una delle sfide con Leonard. Si parla di minacce ricevute, di dolori lancinanti al costato (e di sicuro i calci li aveva presi), ma soprattutto di protesta contro l’arbitraggio di Baert: molto tempo più tardi lo stesso Zamora avallerà la tesi dell’infortunio, che lo porta ad essere sostituito da Juan Jose Nogues e a buttare via così la sua prima e ultima chance mondiale. Un mistero la cui soluzione chiara si terrà per sé fino alla morte, avvenuta nel 1978 all’età di 77 anni.

L’ipotesi più probabile è quella secondo cui Zamora pretenda che la Spagna minacci di ritirare dal Mondiale la squadra e che in definitiva non si sia sentito tutelato, o anche semplicemente ascoltato dai suoi dirigenti, e che d’impulso abbia preso una decisione di cui si pentirà quasi subito: El Divino chiuderà la sua carriera in nazionale con una sola medaglia, l’argento dell’Olimpiade 1920 ad Anversa (dove fra l’altro fu espulso nella partita contro l’Italia, che evidentemente non gli portava bene: il primo giocatore a segnargli una doppietta a livello internazionale fu il barese Raffaele Costantino nel 1930). La stizza del campione poco rispettato è senz’altro più credibile della versione di Zamora antifascista: al di là del fatto che non potesse essere indifferente il 31 maggio ed antifascista il primo giugno, qualche anno più tardi il portiere durante la guerra civile spagnola rischiò la pelle per mano dei repubblicani (fu anche imprigionato) e qualche anno più tardi ricevette un importante riconoscimento da Francisco Franco.

Partita bis, quindi. I due c.t. sono costretti ovviamente a fare cambiamenti: in mediana entrano Attilio Ferraris, più noto come Ferraris IV, per Pizziolo e Bertolini per Castellazzi. L’esausto Schiavio viene sostituito dall’esile ma fortissimo Felice Borel, capocannoniere della Serie A con la maglia della Juve, mentre al posto di Ferrari va Demaria. La prima linea italiana è così composta da tre oriundi su cinque giocatori: Guaita, Demaria (nella rosa mondiale argentina del 1930) e Orsi (vicecampione olimpico ad Amsterdam nel 1928 insieme a Monti, ma già emigrato in Italia ai tempi del Mondiale uruguayano). Secondo gli schemi di oggi: cinque juventini (si era nel pieno del quinquennio di Carcano), tre interisti, due romanisti e un bolognese. Garcia de Salazar è ancora più radicale: otto cambiamenti, con inserimento di un attaccante di cui si favoleggia in un’era di campioni invisibili: Eduardo Gonzalez detto Chacho, che al suo debutto con la nazionale, un anno prima ha segnato sei gol. Firenze questa volta sente l’evento: più di 43mila spettatori, Berta quasi pieno.

La partita è durissima come la precedente, lo svizzero Mercet arbitra peggio di Baert, ma ha la fortuna che non ci siano episodi dubbi, e tutto viene risolto da Meazza al 12′: Borel conquista un corner, batte Orsi alla Orsi e Meazza con la sua brillantina e la sua classe colpisce di testa in modo imparabile per Nogues, che alla fine della partita viene giudicato il migliore dei suoi. Partita di vigoria pazzesca, con fallacci di Monti e Quincoces sistematicamente ignorati. Nel primo tempo l’Italia attacca, conquista calci d’angolo (otto), ma non raddoppia. Meazza e Orsi sono ispiratissimi, Ferraris IV e Bertolini conquistano ogni pallone che sfugge a Monti e convincono pienamente Pozzo, che infatti li confermerà per semifinale e finale.

Ma il gol del due a zero non arriva e nel secondo tempo, avendo meno giocatori freschi, l’Italia crolla. Combi para il parabile, ma la Spagna non molla e schiaccia l’Italia nella sua area, con Monti e gli altri mediani spazzatutto, ma anche con gli attaccanti travolti dalla situazione: tutti fini dicitori, oltretutto stanchi. A due minuti dalla fine l’ala destra Martin Ventolra va via come una freccia e viene atterrato da Allemandi: sì, proprio quello del primo grande scandalo (scudetto revocato al Torino, eccetera) del calcio italiano. Grande partita, quella di Valtonra, il cui figlio José giocherà anche lui un Mondiale, ma con la maglia del Messico, nel 1970. Anche lui a destra ma da difensore, in campo nel quarto di finale vinto dagli azzurri di Valcareggi (una delle due volte della staffetta Mazzola-Rivera).

Torniamo al Berta: punizione di Cilaurren e paratona di Combi, che sullo slancio travolge Chacho. Sarebbe rigore. Gli spettatori trattengono il fiato, tutti gli italiani sono nella loro metà campo, poi lo stadio esplode in un boato seguendo la fuga di Guaita che va via di forza pura a Leque e perde il pallone nel momento decisivo. Ma è finita, Mercet fischia. E il razionale Pozzo, italiano della specie migliore, può lasciarsi andare ad una debolezza accarezzando i suoi due amuleti: un pezzo della prima Coppa Internazionale (una specie di Europeo, senza le britanniche), vinta nel 1930, e un biglietto per l’Inghilterra, la terra promessa di chiunque amasse (e ami) il calcio.

  • Testo di Stefano Olivari