RYSZARD KAPUSCINSKI: La prima guerra del football

A volte lo sport può risultare pericoloso, anzi letale, se finisce per essere, suo malgrado, all’origine di uno scontro bellico


A volte lo sport può risultare pericoloso, anzi letale, se finisce per essere, suo malgrado, all’origine di uno scontro bellico. La vicenda raccontata da Ryszard Kapuscinski – giornalista e scrittore di origini polacche spentosi nel gennaio 2007 – ha dell’incredibile, se non fosse tristemente certificata dalla storia. Nel libro La prima guerra del football – raccolta di articoli e corrispondenze scritte in qualità di inviato in giro per il mondo, soprattutto quello più povero e marginale – Kapuscinski rievoca una guerra assurda, scoppiata più di trent’anni fa. Ma procediamo con ordine: prima della guerra, una partita di calcio, anzi due. 8 giugno 1969, Tegucigalpa, capitale dell’Honduras. Siamo alle qualificazioni per il campionato del mondo, in programma in Messico per l’estate dell’anno successivo.

È in calendario una partita tra l’Honduras e il Salvador. La squadra ospite, arrivata a Tegucigalpa il sabato, ha trascorso in albergo una notte insonne. Una folla di persone assiepate intorno all’hotel ha fatto di tutto per tenere svegli i giocatori: sassi contro le finestre delle camere, rumori e fracassi di vario genere, con lamiere e lattine vuote, scoppi di petardi, strombazzate di clacson, fischi.La domenica il Salvador viene sconfitto uno a zero, anche se non si tratta di una vittoria così scontata.

È Roberto Cardona, l’attaccante dell’Honduras, a segnare il gol della vittoria, proprio all’ultimo minuto. Subito dopo, in Salvador, una ragazza di diciotto anni, di nome Amelia Bolanos, prende la pistola del padre e si spara rimanendo secca sul colpo. Sapete cosa succede a questo punto? La giovane diventa una sorta di eroina nazionale, morta – come scrive un quotidiano del Salvador l’indomani – «per non aver retto al dolore di vedere la patria messa in ginocchio».I suoi funerali vengono trasmessi in diretta televisiva e vi partecipa l’intera capitale: il picchetto d’onore dell’esercito, il presidente della Repubblica e tutti i ministri. In fondo al corteo, gli undici giocatori del Salvador, fischiati, insultati, coperti di sputi e improperi.

Così la situazione si esaspera sempre più. Fino alla settimana dopo, quando a San Salvador è la volta della rivincita. Ora è l’Honduras a non dormire. Il chiasso e le violenze questa volta sono ancora peggiori che per i loro colleghi del Salvador: tutti i vetri dell’albergo sono distrutti, nelle stanze vengono lanciate uova marce, stracci sporchi e addirittura topi morti. L’indomani la squadra è portata allo stadio nei carri armati della prima divisione corazzata del Salvador, per sottrarli alla folla inferocita, determinata a vendicare la morte di Amelia Bolanos. Lo stadio è circondato dall’esercito e il campo da soldati coi mitra spianati. Fischi e urla all’inno dell’Honduras, la cui bandiera nazionale viene pubblicamente bruciata. Pensate in quali condizioni psicologiche la squadra di Tegucigalpa poté affrontare la partita. Probabilmente la preoccupazione degli sportivi, più che di vincere, era quella di salvare la pelle. Il Salvador, difatti, vinse tre a zero. «Fortuna che abbiamo perso», commentò con sollievo al termine della partita l’allenatore dell’Honduras.

Ma quello era solo l’inizio. Ripartita, sempre trasportata su carri armati fino all’aeroporto, la squadra ospite, lasciati «sul campo» due morti, venti feriti, centocinquanta automobili distrutte, tutta quella violenza non si sarebbe riassorbita tanto rapidamente. Anzi, sarebbe deflagrata in una vera e propria guerra tra i due Stati. Inaspettatamente per l’osservatore occidentale, ma non per chi è addentro alle cose dell’America Latina, dove – come spiega a Kapuscinski un amico esperto di quei Paesi – «il confine tra football e politica è molto sottile e lunga è la lista dei governi caduti o rovesciati dall’esercito per una sconfitta della nazionale». Nella fattispecie, la guerra tra Honduras e Salvador non si fece attendere. La sera successiva il Salvador cominciò a bombardare il Paese rivale, facendo scoppiare un conflitto che sarebbe durato cento ore. Risultato: seimila morti, decine di migliaia di feriti, cinquantamila senza tetto.

Tutto questo per una partita di pallone? In realtà Kapuscinski va alle radici del contrasto, mostrando come la contrapposizione agonistica in questo caso non fu che la miccia di una bomba già bell’e pronta, preparata dagli interessi economici dei latifondisti. «Il calcio – spiega Kapuscinski – contribuì a rinfocolare lo sciovinismo e l’isteria patriottica, tanto necessari per scatenare la guerra e rafforzare il potere dell’oligarchia in entrambi i Paesi». E conclude: «I due governi sono rimasti soddisfatti dalla guerra, perché per qualche giorno Honduras e Salvador hanno riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo e suscitato l’interesse dell’opinione pubblica internazionale. I piccoli stati del Terzo, del Quarto e di tutti gli altri mondi possono sperare di suscitare qualche interesse solo quando decidono di spargere sangue. Triste ma vero».

Ryszard Kapuscinski
La prima guerra del football
Feltrinelli, 2005
pp. 237