La storia degli stadi del Napoli

Hanno pericolosamente traballato per le serpentine di Sallustro, ondeggiato per le finte a stinco nudo di Sivori, sospirato per le capocciate baffute di Savoldi, per poi prostrarsi davanti al genio iperbolico di Maradona. Come in un ideale escalation di spettacolo calcistico, a far da teatro al talento. Sono gli stadi di Napoli, all’inizio quattro assi inchiodate su impalcature arrugginite, poi cattedrali dai mille contorni, catini ribollenti di passione dalle cento ambizioni nella città del calcio.

La storia del calcio napoletano, almeno quella (solo quella) nasce in modo solito. Comincia con gli inglesi. Grazie a mister Potts, che lavora in città per una compagnia di navigazione inglese e, un bel giorno del 1904, canonicizza il calcio partenopeo dandogli una società. Il “Naples Cricket and Football club”, dove il senso di quel “Cricket” si smarrisce un attimo dopo. La maglia è in azzurro-celeste a righe verticali. Si gioca su campetti improvvisati. Quattro palacci squadrati uniti a far le porte e pubblico in piedi ai margini del campo. Pubblico numeroso per quegli anni, anche rispetto ad altre città, come Milano, Genova, dove il “fobàl” è già un tema (il concetto di “sport” non è ancora assimilato) che appassiona. Si gioca al “Campo di Marte” in zona Capodichino dove ora c’è l’aereoporto e al “Mandracchio” in via Cristoforo Colombo nei pressi del porto, in anni in cui tirare quattro calci a un pallone può anche attirare l’ilarità dei napoletani. Il primo vero “stadiolo” è quello di via Campegna, proprio dietro all’attuale stazione di “Campi Flegrei”, non distante dal San Paolo a Fuorigrotta. Un’esagerazione chiamarlo “stadio”, anche solo campo sportivo. Tutt’altra cosa rispetto a quello che è oggi il campo di calcio e rugby del Cus Napoli con tappeto verde ben curato e solidi spalti in cemento per mille posti.

E’ un calcio pionieristico. Di più: avventuroso. A praticarlo sono soprattutto benestanti. Sembra assurdo, ma già allora, fra carrozze e auto scoppiettanti, cominciano a esserci lievi problemi di posteggio e più di una volta i conti per un mancata precedenza, si regolano direttamente sul campo. I giocatori arrivano già in tenuta di gioco e così, dopo la gara, se ne rivanno. Il terreno è brullo e a tratti pietroso. Fra gli spettatori abbondano contessine, marchese e duchesse, notabili e “gagà” di chiara o incerta provenienza. Pochi anni e c’è un primo salto di qualità. Ad Agnano, proprio dove oggi c’è l’ippodromo ecco spuntare la prima vera struttura dedicata al calcio. Nell’ottobre del 1912 si inaugura il campo, fornito di spogliatoi in legno e di un settore, pure ligneo, destinato agli spettatori. I dirigenti di allora provano anche a far pagare il pubblico. Mezza lire costerebbe il biglietto per assistere alle partite del Naples, ma sono in pochi a passare dal botteghino. La maggior parte preferisce sfruttare i rilievi del terreno adiacente al rettangolo di gioco e godersi (gratis) le macchiettistiche evoluzioni di baffuti calciatori con retine fra i capelli e reggicalza.

la giovane marchesa Padula fa da madrina all’inaugurazione del nuovo campo del Poligono di Tiro ad Agnano.

Sul terreno di gioco si alternano il Naples e l’Internazionale, società di poco più giovane. Il portiere di una di queste due ha una curiosa abitudine: si porta una sedia e su quella vi si siede, quando l’azione di gioco è lontana. Contemporaneamente si gioca anche da un’altra parte. Al “Vittorio Emanuele III” , ricavato negli spazi adiacenti del poligono di tiro, il terreno di gioco è sabbioso, e la sua irregolarità fa faticare i giocatori a controllare il pallone. Lo spettacolo ne risente, ma si comincia a pagare il biglietto. In genere fra il primo e il secondo tempo, addetti passano a raccogliere i soldi fra gli spettatori. Il campo è posto proprio dietro l’ingresso delle piazzole di tiro. Gli spogliatoi sono in muratura, gli spalti (quei pochi gradini) in legno. Oggi in quell’area che si affaccia sul mare e che dà sulla strada che porta a Posillipo ci sono ville e condomini di lusso.
In Italia sono gli anni di dominio della Pro Vercelli. Nel 1913 Naples e Internazionale Napoli sono relegate in un angusto “Girone Campano” composto da sole due squadre. Passa il Naples che regola facilmente l’Internazionale vincendo le due sfide. Ci penserà poi la Lazio a interromperne la corsa verso un improbabile scudetto. L’anno dopo avverrà il contrario. Il calcio si mantiene “tema” in crescita, ma non ancora dominante, non ancora “sport” anche se alle stracittadine partenopee si registrano le prime calche e le prime scazzottate. Per i derby, infatti, si arriva anche supporre una decina di migliaia di spettatori, con almeno un terzo paganti. Arriva la prima guerra mondiale e la vittoria italiana non contribuisce a risolvere il problema stadio di Napoli che oltre Al “Poligono” ed Agnano, si appoggia pure a un piccolo stadio all’interno dell’Ilva di Bagnoli. Spalti in legno, senza curve per un massimo di 8mila posti in piedi, proprio sotto Posillipo. E’ il campo dell’Ilva Bagnoli, ma a turno vi si appoggiano pure il Naples, l’Internazionale e la Pro Napoli. Piccole realtà dilettantistiche che, vengono sistematicamente battute non appena varcano le soglie della Campania. Società che abbisognano di una svolta. Sul piano organizzativo e su quello della mentalità.

Arriva il momento di Giorgio Ascarelli. E’ questo industriale tessile che il 1° agosto 1926 fonde Naples e Internazionale, dando vita alla Società Sportiva Napoli che conosciamo oggi. Ascarelli è uno in gamba, che pensa in grande. Uno dei suoi primi problemi è quello di dare stabilità alla società ora diventata “azzurra”. Il secondo è quello di dotarla di una “casa”. Proprio nel 1926, infatti, Ascarelli con un colpo di mano, che gli costa denunce e aspre polemiche, occupa di fatto un campo sportivo, con pista ciclistica, in località “Arenaccia” rimodernandolo fino a portarlo a una capienza di 12mila posti. Il novanta per cento in piedi. Si tratta di un terreno comunale che i militari avevano utilizzato durante la guerra per le loro attività. Con spalti parzialmente in muratura.

In questo clima di inusuale coabitazione e in attesa di un nuovo stadio finalmente tutto suo, il primo Napoli “unificato” fa esordire nelle sue fila il primo vero fuoriclasse della sua storia. Attila Sallustro, poca fortuna nella nazionale di Pozzo, ma grande gloria sotto il Vesuvio dove sarà un idolo per un decennio. E’ un italo-paraguaiano, elegante nel vestire, forte fisicamente e dotato di tecnica sublime. Uno che segna (alla fine 114 gol in 234 partite in 12 anni) e fa segnare. Un dilettante puro che, non vuole soldi, in un epoca dove si arriva a pagare anche 250mila lire per tesserare Enrico Colombari, sorta di Gattuso anni ‘30. Al primo capitombolo davanti al pubblico napoletano “E’ cadut’o banc e’ Napule” grideranno i suoi tifosi al mediano. Attila Sallustro farà spallucce a Pozzo che lo convocherà solo due volte in Nazionale, preferendogli sempre Meazza. Lo stadio dell’Arenaccia esiste ancora, si chiama “Generale Albricci” ed è restato di proprietà militare, dopo aver anche assistito a numerosi arrivi del giro ciclistico della Campania.

Ascarelli, intanto, stufo del tira e molla con comune e autorità militari per l’Arenaccia, lo stadio se lo costruisce da solo, di tasca propria. Nasce lo sfortunato stadio “Vesuvio”. A due passi dalla stazione centrale nel quartiere “Luzzati”, tribune in legno su tutti e quattro i lati per una capienza di 20mila posti. Un piccolo gioiello per quei tempi. Una grande impresa, quella di Ascarelli, che si ispira la tradizione inglese degli stadi di proprietà dei club. Alla faccia dell’attualità italiana dove società di piccolo-medio cabotaggio spendono decine di milioni di euro per giocatori e finti campioni, salvo poi aspettare il CONI e le amministrazioni comunali per dotarsi di impianti anche solo dignitosi. Costruito in soli sei mesi il “Vesuvio” è inaugurato giusto una manciata di giorni prima che Giorgio Ascarelli muoia d’infarto nel marzo del 1930.

La monumentale facciata dello Stadio Partenopeo

La struttura, che ospiterà il primo Napoli a girone unico per un decennio, prende così il nome del suo costruttore. Il Napoli si assenterà dall’Ascarelli solo nella stagione ‘33-‘34, dovendo lasciare l’impianto per una radicale ristrutturazione, in vista dei Mondiali del 1934. Dotatosi di spalti in cemento per una capienza raddoppiata a 40mila posti, lo stadio cambia ancora nome in vista della kermesse iridata, diventando definitivamente lo “Stadio Partenopeo”. Ai fascisti, visto che Giorgio Ascarelli era ebreo, il suo nome dato a uno dei simboli della città proprio non piaceva. C’è chi maligna, anzi, che la scelta del “Partenopeo” da ristrutturare, in luogo del “Vomero” sia voluta dal regime proprio per cancellare la memoria dell’industriale tessile e le sue idee. Lì si giocherà la finale 3°-4° posto fra Germania e Austria . Vinceranno i primi 3-2. Una storia breve e intesa quella del “Partenopeo”. All’inizio del 1942, con il Regio Esercito che arranca in Libia, Napoli entra nel raggio dei bombardieri inglesi “Wellington” che scaricano sui suoi pur solidi spalti una valanga di bombe. Il “sogno” di Ascarelli finisce in macerie. Non il suo nome che verrà dato al Rione Ascarelli sorto sulle sue ceneri.

Ma Napoli e il Napoli rimangono senza stadio solo per un anno. Con il “Partenopeo” a pezzi e saccheggiato e il “Vomero” requisito dagli americani, per qualche mese il Napoli gioca all’Orto Botanico in un campo sterrato con una tribunetta in muratura da 3mila posti in piedi, costruita in tutta fretta alla fine del 1944 sotto gli occhi divertiti degli statunitensi. E’ una soluzione transitoria, in attesa che l’altro stadio ritorni agibile. Quasi contemporaneamente alla costruzione “privata” dell’Ascarelli infatti, per inziativa del fascismo e soldi comunali, era stato inaugurato nell’ottobre 1929 lo stadio “Littorio” nella zona alta del Vomero. Uno stadio in muratura, con una pista d’atletica leggera e una capienza iniziale di 30mila posti che diventavano 40mila con impalcature occasionali. Uno stadio che avrà maggior fortuna dell’Ascarelli e vita ben più lunga, ma anch’esso toccato da più di una tragedia. Nella zona di prato, proprio sotto la curva nord, infatti, verranno sepolti temporaneamente i partigiani uccisi dai nazisti durante le “Quattro giornate di Napoli”. Che proprio nella zona del Vomero videro gli scontri più sanguinosi. Lo stesso terreno di quello che poi verrà chiamato “Stadio Arturo Collana” dal nome di un giornalista poi presidente del Napoli, sarà biecamente usato come campo di concentramento transitorio dai nazisti e quindi come deposito di mezzi dagli americani.

Il Napoli avrà casa al “Collana” per quasi 15 anni. Anni difficili, anche di serie B, a cavallo fra gestioni disconnesse e incapaci e l’arrivo del “Presidentissimo” Achille Lauro. Stagioni (come sempre) di grandi passioni calcistiche, d’illusioni, d’invasioni di campo e tragedie sfiorate. Come quella del 27 gennaio 1946. Quel giorno, durante una gara col Bari, un albanese appena arrivato ma molto atteso segna il suo primo gol in campionato. L’esultanza del pubblico per la rete di Lustha fa crollare una parte di una delle curve. Si feriscono oltre 110 persone. Per miracolo non ci scappa il morto. Al “Collana” il Napoli giocherà fino all’inaugurazione del “San Paolo”, ma per la struttura ci sarà altra gloria minore.

Lo Stadio San Paolo di Fuorigrotta in costruzione

Ristrutturato negli anni ’70 con l’abbattimento delle curve e il rifacimento della pista d’atletica e posti per 12mila persone a sedere, al “Collana” in quegli anni, in serie C, giocherà anche la gloriosa Internapoli. Squadra che sfiorerà la B in più occasioni; che raccoglierà anche 6mila abbonati e lancerà nel grande calcio gente come Giorgio Chinaglia e Pino Wilson; che vedrà allenatori del calibro di Luis Vinicio e ne lancerà altri come Gianni Di Marzio. Negli anni ’80 al Vomero giocherà anche il Campania, altra entità calcistica partenopea che arriverà alle soglie della cadetteria e più tardi inizierà alla panchina Claudio Ranieri. Oggi il “Collana” è ancora in piedi con le sue grandi tribune dalle comode sedute, la sua pista d’atletica. Ma ha seri problemi di agibilità.

Gli stessi che, negli anni, hanno pure riguardato lo stadio più grande e più giovane. L’enorme San Paolo. Costruito (in sette anni) per espressa volontà di Achille Lauro a Fuorigrotta, inaugurato nel dicembre del 1959, il “catino” partenopeo ha a lungo conteso a San Siro e all’Olimpico di Roma la palma di stadio più grande d’Italia. Edificato su progetto di Carlo Cocchia, prende il nome del Santo che la tradizione popolare vuole abbia attraccato dal lontano oriente proprio nella zona di Fuorigrotta. E di “miracoli”, in senso calcistico, ne ha visti parecchi. Dai dribbling di Sivori ai giochi di Maradona, al record si spettatori paganti che appartiene ad uno “strano” Napoli-Perugia del 21 ottobre 1979 con 89.992 taglianti staccati.

Perché un pubblico-record in una gara d’inizio campionato, contro una squadra diversa da Milan, Inter e Juve? La risposta è nel carattere dei napoletani. Espansivi ma di memoria lunga. Soprattutto per i torti o presunti tali. Nel modesto Perugia di quel giorno al San Paolo, infatti, giocava Paolo Rossi. “Pablito” solo tre mesi prima aveva rifiutato clamorosamente il trasferimento agli azzurri di Ferlaino. Oltre 100mila spettatori (compresi i numerosi “portoghesi”) quel giorno si recarono al San Paolo per farglielo “notare”. A modo loro. Raccontano le cronache di quella partita che, ogni volta che il futuro campione del mondo toccava il pallone, erano fischi continui, assordanti. E insulti, ironici e non. La gara finì 1-1 e a segnare per gli umbri fu proprio Rossi, al 71’, su rigore.…

Nemmeno la sfida di Coppa dei Campioni contro il Real Madrid di Butragueno nel 1987 o la finale di Uefa contro lo Stoccarda nel 1989, porteranno al San Paolo più paganti. Solo pochi mesi dopo, proprio in quello stadio, un’uscita sballata di Walter Zenga su Caniggia costerà all’Italia nella semifinale mondiale contro l’Argentina il pareggio temporaneo e la sconfitta ai rigori. Con un San Paolo diviso fra la passione per il suo idolo Maradona e quella per i colori nazionali.

Il San Paolo il 10 maggio 1987, giorno del primo scudetto del Napoli

Già, Maradona. Fra le centinaia di partite disputate a Fuorigrotta dal “Pibe de Oro” in molti ne ricordano soprattutto una. 20 Febbraio 1985: la Lazio di Juan Carlos Lorenzo arriva ospite del primo Napoli di Maradona. L’allenatore argentino, chiamato al capezzale di una “Lazietta” in odore di retrocessione, durante la settimana punzecchia il fenomeno di Lanus. “E’ grasso. Il suo Napoli arranca perché Maradona non è il fenomeno che si crede”. Non l’avesse mai fatto. Il Napoli vince 4-0 e Maradona segna tre gol. Uno su calcio d’angolo e un altro (forse il suo più bello e difficile al San Paolo) con una girata da tre-quarti campo che disegna una parabola a metà fra un pallonetto, una “foglia morta” e una pennellata di Kandinski. La sfera sbeffeggia il palo interno alla sinistra di Nando Orsi ed entra. Commenta un grande scrittore in tribuna: “Questo non è più calcio, nemmeno poesia. E’ arte moderna”.

Un bomber bergamasco, Beppe Savoldi, un decennio prima aveva portato al Napoli oltre 70mila abbonamenti, quasi settemila in più in più saranno invece quelli staccati grazie all’arrivo di Maradona nel 1984. Cifre che parlano di una passione che non ha eguali in Italia in termini presenze allo stadio. Uno stadio che, con “Italia ‘90” cambia volto. In una interminabile serie di ristrutturazioni l’arena viene dotata di una copertura completa, di un innalzamento del secondo anello, della sistemazione di oltre 78mila seggiolini. Ma sono ristrutturazioni “farlocche”, visto che sul piano della sicurezza e della logistica continuerà a dare problemi. Di allagamento, per la mancata posa di tombini adatti al drenaggio del settore spogliatoio e di sicurezza, con recinzioni troppo facili da scavalcare.

Oggi il San Paolo, con la chiusura del terzo anello e una serie innumerevole di restyling più o meno riusciti, ha una capienza omologata dello stadio ridotta a 60240 posti.

  • Fiorenzo Radogna