MARCO TARDELLI – Intervista maggio 1980

Dal Pisa al Como, dal Como alla Juventus, Marco Tardelli ha davvero bruciato le tappe della popolarità. Un’escalation a dir poco stupefacente

Schizzo-capolavoro

CON DISARMANTE sicurezza, Tardelli ha scalato un gradino alla volta, a passi sicuri. La sua prima squadra fu il Pisa, in serie C, allora Tardelli era davvero soltanto uno… «schizzo» di giocatore. Otto partite nel 72-73, una maglia da titolare nel campionato successivo.
La sua prima formazione ufficiale? Presto detto. Leardi, Scotto, Rapalini; Tardelli, Luperini. Gonfiantini; Amenta, Giannini, Cini, Nosè, Giannotti. Adesso Tardelli è un calciatore famoso. Ma allora? Quali erano i sogni e le aspirazioni del giovane campione nerazzurro? «E’ superfluo dire», ricorda lo juventino, «che a diciannove anni sognavo di arrivare un giorno a vincere uno scudetto, a vestire la maglia della Nazionale. Erano i sogni che facevano tutti, i miei compagni di allora si chiamavano Palla, Prendo. Nel Pisa di quel periodo, a lanciarmi in prima squadra fu il tecnico Balestri. E, sul momento, feci qualche fatica ad inserirmi con convinzione, i titolari più anziani m’incutevano una certa soggezione. Per mia fortuna, ne trovai alcuni assai ben disposti nei miei confronti. Uno di questi era Gonfiantini, il vecchio ex giocatore della Fiorentina che, allora, sembrava agli sgoccioli della carriera. Gonfiantini mi fu di moltissimo aiuto, con lui accanto non ebbi problemi a superare ogni titubanza. E se il vecchio capitano era un vero e proprio esempio di saggezza calcistica, c’era Amenta (l’attuale jolly della Roma) che mi mostrò per primo come ci si potesse far valere sul campo anche all’insegna dell’attitudine opposta, “genio e sregolatezza”. Era un ragazzo formidabile, Amenta, sempre di buon umore, un trascinatore tanto in campo quanto nella vita. Insomma: con due compagni di questo genere al mio fianco, cercai di “prendere” un po’ dall’uno e un po’ dall’altro».

– Ti ci volle molto a divenire la piccola «perla» del Pisa?
«Le cose mi andarono subito bene. In realtà, a inizio stagione nella rosa di prima squadra c’era un giovane, Botteghi, che faceva letteralmente stravedere pubblico e dirigenti, sembrava destinato a fare carriera. Di me non si parlava molto, perché questo Botteghi – una mezzala – tecnicamente era un portento, ed era lui a polarizzare l’attenzione di tutti. Purtroppo, questo ragazzo non era sorretto da una personalità sufficiente, quando c’era da ” soffrire ” si tirava un po’ indietro. Così, pian piano cominciò a risplendere anche la mia stella, e la mia carriera prendeva impulso dal rallentamento di quella di un mio giovane compagno. Cose che capitano, nel calcio».

tardelli-intervistar-wp – Chi furono i tuoi maestri ai tempi del Pisa?
«Cambiarono molti allenatori, ricordo Pozzan, Filippelli, Balestri e Robotti. Ma il mio primo maestro, il mio vero maestro, fu un certo Costa, io avevo quattordici anni. Mi insegnò moltissime cose, fu proprio lui a farmi capire che quello di calciatore era un mestiere serio, maledettamente serio. Così, dopo le medie dell’obbligo – mentre i miei compagni si davano tutti alla pazza gioia – io giocavo già a fare il professionista, non era molto divertente. Ma io sono un tipo ostinato, sapevo che, alla fine, avrei senz’altro combinato qualcosa di buono».

– E infatti, dopo una sola stagione da titolare nel Pisa, ecco Tardelli spiccare il volo in direzione di Como, che anche allora significava serie B da primato…
«Proprio così. Ma non fu tutto così facile in terra lombarda, lontano da casa, lontano dai miei fratelli. La squadra andava benissimo, ma io soffrivo di nostalgia, la vita era così diversa, così tremendamente diversa da quella che avevo fatto per vent’anni, senza pensieri. Per mia fortuna, al Como trovai un ambiente stupendo, persone squisite. Marchioro, l’allenatore, mi permetteva tutte le settimane di fare un tuffo dalle mie parti, un trattamento di favore che qualcuno avrebbe anche potuto non gradire. Ma un vero e proprio fratello maggiore si rivelò, nei miei confronti, il capitano Correnti, un calciatore e un uomo eccezionale. Lui era sposato, ma sua moglie era lontana e, così, vedendomi in difficoltà, mi propose di andare ad abitare con lui, dandomi una grossa mano a superare tutti i problemi d’inserimento in una terra e in un tipo di vita che non mi erano per niente familiari. La stagione, così, filò via liscia e il Como non ebbe problemi ad essere promosso in serie A. Ma come avremmo potuto non centrare quell’obiettivo? La squadra era fortissima, c’erano atleti del calibro di Rigamonti, Boldini, Guidetti, Correnti, Lombardi, Scanziani, Cappellini e Ulivieri. Una squadra da serie A, non ci sono dubbi».

– …e fu subito Juventus!
«E con la maglia bianconera realizzai finalmente i miei sogni, una soddisfazione che non è possibile esprimere a parole. D’altronde, degli scudetti vinti con la Juve e della mia stupenda esperienza in azzurro saprai già tutto, spero solo che tutto questo possa continuare a lungo. Perché Tardelli, che qualche anno fa giocava a fianco di Palla nel Pisa e non era nessuno, oggi gioca con Antognoni in Nazionale e, stando almeno a Bearzot, è uno dei migliori undici atleti d’Italia. Se torno indietro col pensiero, quasi non ci credo».

– Sono alle porte gli Europei. Nessuno ti discute più, a differenza di quanto accadde alla vigilia dei Mondiali d’Argentina.
«Ed è una fortuna. Perché allora, essendo alle prese con inspiegabili problemi di forma (che mi permetto di ammettere soltanto adesso), finii ben presto nell’occhio del ciclone, con tutta la stampa a darmi addosso e col mio sistema nervoso messo duramente alla prova. Fu un periodo tremendo, e per fortuna che Bearzot non volle sentire ragioni, presentandomi in campo contro la Francia a Mar del Plata tra la contestazione di tutto e di tutti. Lentamente, riuscii a riprendermi. E finii col giocare un Mondiale se non strepitoso, sicuramente positivo».

– Chi fu il tuo più pericoloso avversario diretto?
«Direi Neeskens. Ma, dire di aver trovato sulla mia strada avversari “abbordabili” è una grossa bugia. A certi livelli, la classe è tale che, qualsiasi avversario ti tocchi prendere in consegna, è sempre battaglia dura. Oltre che con Neeskens, mi trovai faccia a faccia con Platini, con Valencia, con Flohe e via dicendo. Dimmi tu se è giusto fare delle distinzioni di merito».

– Recentemente, sul tuo conto si è sparso un po’ d’allarmismo: è vero che una noiosa forma di pubalgia potrebbe addirittura mettere in forse la tua partecipazione agli Europei?
«Non è vero niente. Quindici giorni fa mi ero prodotto un piccolissimo stiramento alla coscia, ma sono rimasto a riposo e, adesso dovrei riprendere la preparazione a pieno ritmo. Dopo avere rischiato di non prendere parte ai Mondiali, non vorrei ripetere la medesima esperienza agli Europei».