Quando l’Old Trafford divenne italiano

Storia della prima finale di Champions League tutta italiana: il Milan di Ancelotti e Shevchenko, la Juventus di Lippi e Del Piero, una finale storica che segna il ritorno della Coppa Campioni nel belpaese dopo anni di delusioni europee


LA CHAMPIONS ROSSONERA: PIACENZA-UCRAINA ANDATA E RITORNO

Così diversi, così uguali. Così opposti, così complementari. Filippo Inzaghi, detto Pippo, da Piacenza. E Andriy Shevhcneko, per tutti Sheva, da Dvirkivšcyna,Kiev, Ucraina. Persone e personaggi dissimili, nomi e luoghi di nascita agli antipodi, ma destino comune: calciatori di grido, idoli delle folle e simbolo di un cammino dorato, di un percorso vincente. Che, però, è un po’ dell’uno e un po’ dell’altro: la particolarità del caso specifico è servita. Quando si parla di Inzaghi e Shevchenko, bisogna parlare di funzionalità reciproca, di lavoro e gol complementari, e quindi bisogna discernere meriti e snocciolare cifre e gol: quando uno sonnecchia, l’altro si esalta. Quando uno segna a raffica, l’altro va nascondendosi. Fino ad un trionfo a tinte rossonero da ascrivere soprattutto ai due principi del gol: nei loro due volti, nelle loro due storie e nella loro complementarietà realizzativa, storica quanto impressionante, il cammino del Milan nella Champions 2002/2003.

Una Champions che, per i rossoneri, comincia prestissimo, addirittura dai preliminari, eredità della stagione balorda di Terim prima e di Ancelotti poi: lo Slovan Liberec viene domato con qualche patema, e il risultato striminzito (1-0 a San Siro e 1-2 in Repubblica Ceca) ne è la prova. Superata la paura, parte la danza del gol: a menarla, per primo, è Superpippo Inzaghi. In rapida successione, i suoi gol: Milan-Lens 2-1, doppietta; Deportivo-Milan 0-4, tripletta più Seedorf; Bayern-Milan, 1-2, con altri due gol; infine, Milan-Bayern 2-1, un gol più Serginho. Otto gol in quattro partite, sissignore, e qualificazione servita. Il resto è vera e propria accademia, con le indolori sconfitte a Lens e a San Siro col Deportivo.

Nella seconda fase a gironi (è ancora tempo di Champions da abbuffata, con un’incredibile doppia fase all’italiana), la danza cambia maestro di musica, almeno nello spartito più importante: per l’esordio arrivano a Milano le stelle del Real Madrid, campioni in carica e strafavoriti della vigilia. San Siro esplode al quarantesimo, quando Shevchenko si scrolla di dosso le polveri di un campionato mediocre e sigla il punto di un 1-0 che si trascina sino al triplice fischio. Due settimane dopo, a Dortmund, è di nuovo Superpippo l’uomo decisivo: 1-0 e Milan a sei punti.

Alla ripresa di febbraio, il Milan conferma l’abbonamento all’1-0, e la doppia sfida col Lokomotiv, così come la qualificazione, sono pratiche archiviate: Tomasson a San Siro e un rigore di Rivaldo a Mosca lanciano i rossoneri in vetta al girone e verso i quarti di finale, in barba alle due ultime sconfitte, col Real al Bernabeu e con i tedeschi a San Siro. L’urna è favorevole e disegna un Milan-Ajax che sa di storia.

Lo 0-0 di Amsterdam è solo il viatico ad una delle partite europee e rossonere casalinghe più belle ed emozionanti di sempre. Inzaghi, ancora lui: 1-0. Poi, a segno ci va Litmanen: 1-1. Il gol successivo è di Sheva, ed è la prima volta che la coppia va in rete nella stessa gara di Champions: 2-1. Ma non è finita, rete di Pienaar, a dodici giri di lancette dal termine: 2-2. Al novantunesimo, però, scoppia San Siro: lancio di Maldini, torre di Ambrosini, pallonetto di Inzaghi, tap-in di Tomasson. Sembra un’azione perfetta, e nel cuore dei tifosi rossoneri sarà per sempre così: a Piccinini quasi viene un infarto, e lo stadio e tutta la Milano rossonera esplodono di gioia per una nuova semifinale, a otto anni dall’ultima. Solo che stavolta, ad incrociare le armi rossonere, ci sono maglie, facce e colori familiari, anche troppo.

C’è l’Inter di Cuper, che dopo due gironi vissuti con la suspance che da sempre caratterizza la vita nerazzurra, è riuscita nei quarti a far fuori il Valencia. Benedetti i due gol di Vieri, uno siglato nell’andata di San Siro, chiusasi sull’1-0, l’altro messo a segno al “Mestalla”, dove Toldo protegge l’ultimo risultato utile, il 2-1 per gli andalusi. Viene servito così il derby più importante di sempre. Mancherà proprio Christian Vieri, infortunato.

L’andata, per la UEFA in casa Milan, è di una noia mortale. 0-0, rendez-vous al ritorno. Poi entra in azione il fluido magico e complementare dell’attacco-Milan: Inzaghi si appisola, Shevchenko si sveglia dal torpore e mette dentro il gol più importante della sua ancor giovane carriera. L’1-0 costringe i nerazzurri a segnare due gol: le prodezze acrobatiche di Martins, però, si fanno ammirare una sola volta sul prato di San Siro, limitando il passivo dei rossoneri a quel pareggio con gol che li proietta fino a Manchester, alla nona finale di Coppacampioni della loro storia, ad un passo da una nuova gloria. Appuntamento al 28 maggio 2003…

LA CHAMPIONS BIANCONERA: LA FURIA CECA

Cosa vuol dire essere fuoriclasse? Domanda dal sapore vagamente filosofico e mistico, alla quale ognuno risponde in maniera propria ed incontrovertibile, giusta per mille e sbagliata per duemila motivi. C’è chi dice che essere fuoriclasse è saper inventare sempre la giocata che non ti aspetti, il colpo di biliardo che fa girare gli occhi e il cuore ai propri tifosi e ben altre parti anatomiche a quelli avversi.

C’è chi dice che i fuoriclasse devono per forza essere anche giocolieri, artisti circensi, ticchete-tocchete, dribbling ubriacanti, colpi di tacco e tiri e pallonetti beffardi. Ma c’è anche chi dice che fuoriclasse si può essere grazie alla ferocia agonistica, alla grinta, ad un’abnegazione spaventosa ed alla propria capacità di fare, per quanto concerne il calcio, tutto ciò che si deve, che si può e che ti si chiede rigorosamente alla grandissima.

Ecco perché nessuno ha mai potuto obiettare granché quando, in una stessa frase, la parola “fuoriclasse” era dannatamente vicina ad un nome: quello di Pavel Nedved. Il ceco, bandiera laziale, arriva in bianconero alla vigilia della stagione 2001/2002, come grande colpo della nuova rifondazione, portata avanti nel nome di Marcello Lippi, cavallo di ritorno in panchina dopo la traumatica esperienza interista. Il ceco, dopo alcuni mesi di sonnacchioso inserimento, viene spostato sulla trequarti: intuizione geniale.

La Juve prende a volare, recupera terreno, pressa l’Inter capolista e il cinque maggio del 2002 mette in cantiere la frittata nerazzurra dell’Olimpico laziale (corsi e ricorsi…) ed uno scudetto bello ed inaspettato. Ma è dall’anno dopo che i tifosi bianconeri cominciano a capire davvero la forza e l’importanza che il biondo trequartista bianconero può arrivare a rappresentare.

2002/2003, anno juventino di proclami di double Scudetto-Champions: impensabile nel calcio asfittico del nuovo millennio, incredibile nei calendari fitti come la neve della Siberia. Eppure, la Juve, va: Nedved in campionato se la carica sulle spalle, con gol a grappoli e prestazioni da urlo. In Champions, sebbene i marcatori siano più vari, la musica non cambia: il ceco trascina e i risultati sono eccellenti. 1-1 a Rotterdam col Feyenoord, 5-0 in casa con la Dinamo Kiev, 2-0 al Newcastle per la prima tornata di sfide. Segnano tutti: Del Piero, Camoranesi, Davids, lo stesso Nedved. La Juve perde in Inghilterra, ma grazie ad una doppietta di Di Vaio abbatte il Feyenoord nel ritorno di Torino, chiudendo poi il giro con una vittoria di misura (2-1) in quel di Kiev.

Il primo posto nel girone non rende clemente il sorteggio della seconda fase, che regala in dote ai bianconeri tre squadre di alto livello: Il sempre temibile Manchester United, il forte Deportivo di Javier Irureta e il coriaceo Basilea. Il 2-2 di La Coruna è un inno al calcio e al cuore-Juve: Tristan e Makaay, con il loro uno-due inziale, sembrano affondare i bianconeri, che però, grazie ad un gol-meraviglia di un certo Sandrone Birindelli ed una rete della furia ceca, raggiungono i galiziani e rubano un punto che si rivelerà decisivo.

Tutto facile col Basilea, prima della doppia sconfitta col Manchester, che fa 2-1 all’”Old Trafford”, con gol finale ancora di Nedved e poi passeggia addirittura per 3-0 al “Delle Alpi” di Torino. Diventa decisiva, a questo punto, la sfida casalinga contro il Deportivo di Irureta, già brutalizzato a domicilio dal Milan nella prima fase. Ancora Tristan, ancora Makaay: i due punteri dei galiziani ribaltano il gol iniziale di Ciro Ferrara e rendono complicatissimo la situazione dei bianconeri, che devono solo vincere. E vincere, a questo punto, è un’impresa. Finché non entra in gioco il fattore-T: T come Trezeguet, che al minuto numero sessantatre riaccende le speranze; T come Tudor, che nei minuti di recupero fa esplodere il “Delle Alpi” con una gran botta da fuori, e mette i quarti di finale in bianconero su un piatto d’argento.

Que viva Espana, per Lippi & co.: tocca alla leggenda blaugrana, ad un Barcellona solo lontano embrione della squadra che oggi domina il mondo, ma che è sempre e comunque pericoloso. A Torino è 1-1: alla rete di Paolo Montero rispose Javier Saviola, giovane stella barcellonista. Il ritorno del Camp Nou si presenta quindi, per i bianconeri, come un rebus di difficile risoluzione. La risposta però, esiste, e porta i capelli biondi: Pavel Nedved si beve tutta la difesa catalana e buca Bonano sul primo palo, azzerando l’andata. Xavi pareggia i conti con una stilettata appena dentro l’area, aprendo alla partita lo scenario irrisolvibile dei supplementari. Poi, ecco uscire l’ambo che non ti aspetti: il 15 e il 25, Alessandro Birindelli, del quale in Spagna sono ancora probabilmente pubblicate foto “Wanted” in stile western per strada, e Marcelo Zalayeta, due apparenti carneadi divenuti improvvisi campioni che chiudono un contropiede perfetto e spalancano ai bianconeri le porte della semifinale.

Ancora Spagna, e, se possibile, una Spagna ancora più d’aristocrazia: c’è il Real Madrid. Il Real dei “Galacticos”, di Zidane, Ronaldo, Figo, Raùl, Roberto Carlos: insomma, una squadra che fa paura. Non alla Juve, però: nell’andata del “Bernabeu”, Trezeguet, nei minuti di recupero del primo tempo pareggia il gol siglato dopo ventitre giri di lancette da un Ronaldo non ancora “Gordito”. Il gol bianconero è fondamentale, e mitiga in parte anche l’effetto del secondo gol merengue, siglato da Roberto Carlos con una delle sue proverbiali fucilate mancine.

La Juventus torna da Madrid con la sensazione che il Real è tutto fuorché imbattibile. Ed a Torino avviene il miracolo. Dodicesimo: cross dalla destra, Del Piero fa da torre e Trezeguet gonfia la rete dell’1-0. Quarantatreesimo: Del Piero riceve palla sul vertice sinistro dell’area, ubriaca di finte Hierro e Salgado e fulmina Casillas sul primo palo. Sessantottesimo: rigore per il Madrid. Occhi negli occhi, Luis Figo e Gianluigi Buffon: il pallone pesa come un macigno, ed il destro del portoghese non è potente quanto una ruspa. Il tiro è flebile come la paura, Buffon intuisce, devia e scaccia le streghe dei supplementari.

Settantatreesimo: lancio millimetrico di Zambrotta. Per chi, se non Nedved? La furia ceca si traveste da Attila, brucia tutto ciò che è intorno, erba e difensori in maglia bianca, chiudendo l’apoteosi bianconera sul 3-0. I minuti finali servono solo a rimpinguare il tabellino: alla voce gol si registra un gol dell’ex Zidane, che fa 3-1 ma non paura. Alla voce ammonizioni, però, spunta un nome che sa di beffa: Nedved, in un eccesso di zelo e foga, abbatte McManaman nel centro del campo. Diffidato più ammonito uguale squalificato. Addizione semplice, purtroppo: il grande protagonista della Champions bianconera abbandona il sogno di giocare la finale.

Una finale storica: perché la notte precedente a quella del trionfo con il Real, un’altra compagine italiana, il Milan, con il pareggio più prezioso della sua storia, ha fatto fuori l’Inter, guadagnandosi Manchester 2003. Poi è toccato alla Juventus: l’Italia si prepara alla grande festa. Per la celebrazione, appuntamento al 28 maggio 2003…

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