Mondiali 1934: ITALIA

L'Italia non è favorita

Sedici formazioni dunque presero parte alla fase finale. Dodici europee, tre americane ed una africana. Partecipazione massiccia delle nazionali continentali con i favori del pronostico che indicavano chiaramente l’Austria e la Cecoslovacchia come probabili finaliste. Ma anche la Spagna di Zamora e Langara raccoglieva consensi, così come la Germania di Szepan e Conen. Agli azzurri la stampa continentale non concedeva molto in sede di pronostico, non in ragione di pregiudizi di sorta, ma in base a rilievi tecnici di effettivo riscontro. Dopo la conquista del terzo posto alle Olimpiadi di Amsterdam nel ’28, due avvenimenti molto importanti erano venuti a caratterizzare la vita della rappresentativa azzurra. Innanzi tutto l’avvento di Vittorio Pozzo nella carica di Commissario Unico della nazionale.

Dopo le disastrose sconfitte nell’aprile 1929, 0-3 con l’Austria a Vienna ed 1-2 dalla Germania a Torino, Leandro Arpinati diede il benservito ad Augusto Rangone e a Carlo Carcano che aveva collaborato con una misteriosa commissione per l’incontro con i tedeschi. Da tempo si tentava di riportare nell’ambiente della nazionale Vittorio Pozzo, che già era stato dirigente tecnico a Stoccolma nel 1912 ed in seguito aveva fatto sporadiche apparizioni in commissioni piuttosto numerose o in veste unica per un brevissimo periodo nella primavera del 1924. Come tutte le persone poco avide che fanno dell’onestà la prima virtù da osservare, ad un certo punto della vita Pozzo era stato costretto a cercarsi un lavoro per il sostentamento suo e della famiglia. Era funzionario alla Pirelli di Milano e a tutto pensava fuorché tornare nell’ambiente calcistico. Non seguiva neppure le partite di campionato per timore di essere riassorbito dalla passione sempre vigile e dedicava le ore libere dal lavoro alla montagna. Ma le insistenze ebbero ragione della ritrosia e a condizioni compromissorie che gli permettevano di mantenere il lavoro accettò di interessarsi della nazionale. Pensava ad un incarico di pochi mesi ed invece il suo mandato durò quasi vent’anni. Un record difficilmente ripetibile.

Pozzo a colloquio con Meazza

Vittorio Pozzo è stato senz’ombra di dubbio il miglior tecnico fra i tanti ai quali è stata affidata la guida della nostra massima rappresentativa calcistica. Nelle rievocazioni dedicate agli azzurri dai grandi soloni, si è tentato di sminuirne i meriti e le qualità. Brera addirittura ce lo rappresenta malevolmente da vecchio, costretto a farsi radere da un collega e tende più a sottolinearne i difetti che le virtù, tratteggiando il carattere accidioso e vendicativo. Altri tentarono una assurda interpretazione, ascrivendo gli innegabili successi più alle macchinazioni del regime che alle sue capacità di conduttore di uomini. In realtà Vittorio Pozzo, al di là dei tratti del carattere chiuso e impenetrabile era per quei tempi un tecnico all’avanguardia, informato minuziosamente del calcio di ogni nazione, studioso attento della psicologia degli uomini da mandare in campo e capace di osservare il calcio in proiezione dinamica ben oltre gli schematismi che tanto piacciono agli strateghi da tavolino.

Seguiva e studiava i progressi tattici del gioco e quest’aspetto della personalità passava per intollerabile presunzione in un paese che ha sempre prestato eccessiva attenzione ai praticoni e ai venditori di fumo. Certo Pozzo credeva profondamente nella disciplina e nell’amor di patria e per questo era un uomo in perfetta sintonia con il suo tempo, ma i successi del calcio azzurro di quegli anni nascono anche dalle scelte tecniche precise, dalla predilezione per elementi validi sul piano del gioco ma adeguatamente dotati di carattere, di volontà e di voglia di vincere.
Altro evento di grande importanza nella vicenda azzurra di quel tempo la vera e propria razzia di talenti calcistici nel grande serbatoio latino-americano. Sfruttando con pragmatismo il riconoscimento della doppia nazionalità agli emigranti e ai discendenti, il calcio azzurro si trovò a poter disporre di autentici fuoriclasse che consentirono alla nostra rappresentativa un notevole salto di qualità. Già negli anni venti aveva giocato in nazionale Julio Libonatti, che ancora oggi detiene il record delle marcature fra i «reimpatriati» e con l’avvento di giocatori come Monti, Orsi, Guaita ecc. ecc., Pozzo si trovò fra le mani un materiale di prima qualità da plasmare con i prodotti del vivaio che in quel periodo rese elementi di grande personalità tecnica. I primi mesi di lavoro di Pozzo fruttarono una serie di risultati di rilievo e culminarono con il primo grosso successo della nostra rappresentativa con la conquista della Coppa Internazionale alla quale aderivano Austria, Cecoslovacchia, Ungheria e Svizzera. Con la vittoria per 5-0 (3 reti di Meazza) sul campo del Ferencvaros a Budapest, gli azzurri conquistarono la preziosa Coppa Svehla in cristallo di Boemia, ma non fu quello l’unico confortante effetto della esaltante affermazione. Pozzo aveva lanciato in prima squadra un nugolo di giovani elementi che formeranno più avanti la solita struttura della nazionale.

Oltre al già celebre Orsi che debuttò l’1 Dicembre del 1929 con Bertolini e Costantino, Pozzo concesse via via fiducia ad elementi come Meazza, Ferrari; Monzeglio che ritroveremo fra gli artefici delle conquiste mondiali degli azzurri. Altro evento importante nella costruzione del mosaico, l’arrivo in Italia di Luisito Monti, il centromediano del San Lorenzo, che al ritorno da Montevideo era stato accantonato come una scarpa vecchia. Luisito chiamato alla Juve da Cesarini era notevolmente appesantito dall’inattività e lasciò interdetti quanti lo andarono ad accogliere a Genova. Si allenò da solo sottoponendosi ad un durissimo regime alimentare ed in poco tempo riuscì a togliersi di dosso la zavorra che lo opprimeva. Quando Pozzo lo vide giocare capì che quello era il suo uomo, capì che quella carica di aggressività, di volontà dirompente era quanto di meglio potesse trovare per il ruolo di centromediano. Monti sostituì Attilio Ferraris nell’incontro Italia-Ungheria del 27 Novembre 1932 vinto dagli azzurri per 4-2, e proprio alla vigilia del mondiale Pozzo reinserì nella rosa «er core de Roma» quale possibile sostituto del mediano Pizziolo, molto dotato sul piano tecnico e più preoccupato della coordinazione stilistica che dell’efficacia negli interventi difensivi.

La disputa della seconda Coppa Internazionale conclusasi nel 1932 con la vittoria dell’Austria aveva ridimensionato la caratura degli azzurri, ma la stagione successiva fu una delle più positive con sei vittorie a spese di Germania, Cecoslovacchia e Svizzera sui campi di casa e Ungheria, Belgio e ancora Svizzera in trasferta. Di notevole rilievo il primo confronto con gli inglesi nel maggio del ’33. La partita terminò sul pareggio con qualche dubbio per il gol inglese segnato in sospetta posizione di fuorigioco. Fu un risultato di indubbio prestigio, battere i «maestri» non era cosa di tutti i giorni e riuscire a fermarli sul pari costituiva impresa di tutto rispetto. L’Italia sembrava quindi lanciata verso uno standard da grande potenza calcistica, quando pochi mesi prima dell’inizio della Coppa del Mondo, un tonfo casalingo inaspettato impostoci dall’Austria tradizionale bestia nera di quei tempi, fece insorgere nella stampa specializzata il dubbio che ben difficilmente gli azzurri avrebbero potuto liberarsi della sudditanza che mostravano di patire nei confronti della scuola danubiana. A giudizio della stampa internazionale Austria e Cecoslovacchia impedivano ai nostri azzurri ogni velleità di vittoria finale e tale opinione era condivisa da buona parte dei tecnici che si erano espressi prevedendo una classifica finale così composta: Austria e Cecoslovacchia per il titolo, Italia, Germania e Spagna con pari opportunità per le piazze d’onore.