Mondiali 1962: BRASILE

I sei Capocannonieri

VALENTIN IVANOV – URSS
Era un ragazzino quando entrò nella scuola cal­cio della Torpedo Mosca. Un ragazzino con parecchio talento, se è vero che il suo apprendistato fu rela­tivamente breve. Già nel ’52, infatti, Valen­tin Ivanov era passato in pianta stabile nella rosa della prima squa­dra: centravanti puro, col fiuto del gol, pare­va un esperto nono­stante la giovane età. Tre anni appena e ar­riva il debutto in Na­zionale, accanto al mitico bomber Nikita Simonjan, che pro­prio in quella stagione aveva stabilito il re­cord assoluto di mar­cature in una stagione per il campionato rus­so, attestandosi a quo­ta 34. Con la Torpedo vince il titolo nel 1960 e si ripete nel 1965. Ma è proprio il ’60 il suo anno indi­menticabile: oltre al campionato, si aggiu­dica la Coppa dell’Urss e guida la Nazionale al successo nell’Europeo per Na­zioni, segnando tre reti nella fase finale del torneo e ri­sultando decisivo nella semifinale con la Ce­coslovacchia (firma una doppietta nel 3-0 finale). Quella maglia della CCCP gli porta indubbiamente fortu­na: a Melbourne, quat­tro anni prima, era sta­to campione olimpico. Nel 1962, ai Mondiali cileni, sale sul trono del gol, da condividere con altri cinque cam­pioni. Segna senza so­luzione di continuità nel gruppo 1 degli ot­tavi di finale (un gol alla Jugoslavia, due alla Colombia e uno, quello decisivo per il successo finale, contro l’Uruguay), ma le sue reti non bastano a far volare l’Urss, che si ferma ai quarti sbat­tendo contro l’ostaco­lo Cile. Da lì in avanti inizia la sua parabola discendente, che anco­ra gli consente di agguantare la finale del­l’Europeo per Nazioni 1964, in cui l’Urss vie­ne battuta dalla Spagna. Chiude in Nazionale l’anno dopo, lanciando le stelle nascen­ti Malafeev e Banichevski.

DRAZAN JERKOVIC – JUGOSLAVIA
Fedele alla maglia. Drazan Jerkovic non tradì mài la Di­namo Zagabria. Nelle giova­nili della società mosse i primi passi, fece la trafila fino ad appro­dare alla prima squadra, si mise in luce al punto da meritarsi un posto da titolare. Nel ’58 fu uno dei trascinatori del grup­po che si laureò campione di Jugo­slavia, due anni do­po debuttò in Na­zionale, a maggio contro l’Inghilter­ra. Di quella for­mazione diventò la punta di diamante, in una stagione d’o­ro che gli assicurò il secondo posto nel primo Campionato Europeo per nazioni, alle spalle della fortissima Unione Sovieti­ca. E fu soprattutto grazie a lui che la squadra jugoslava agguantò quella finalissima: nel 5-4 con cui si impose sulla Francia in­ semifinale, Jerkovic mise due volte la sua firma. Un infortunio, alla vigilia delle Olimpia­di, gli tolse la gioia più grande, quella di conquistare il ti­tolo. Cosa che riu­scì ai suoi compagni di squadra, un gruppo in cui svet­tavano giovani ta­lenti come Soskic, Durkovic, Jusufi, Sekularac e Galic. Quando Drazan rientrò in campo, ebbe tutto il tempo di ambientarsi all’interno di una squadra che ar­rivò all’appuntamento col Mondiale cileno del ’62 in grande spolvero. Lui si mosse da centravanti di razza, mostrando doti di grande acrobazia e una intelligenza unica nel capire il gioco e nel farsi trovare sempre al posto giu­sto. Fu determinante negli ottavi contro Uruguay e Colombia, in semifinale segnò il gol della bandiera contro la Cecoslovacchia, che vinse per 3-1. Restò nel giro della Nazionale per altri due anni, chiudendo con 19 presenze e 9 re­ti. Nella Dinamo Zagabria andò oltre, fino al ’67. Al titolo nazionale del ’58 aggiunse il successo nella classifica marcatori della stagione ’61-62, con 17 reti, e tre Coppe di Jugoslavia.

FLORIAN ALBERT – UNGHERIA
Peccato che la Grande Un­gheria fosse già agli sgoc­cioli, quando Florian Al­bert si presentò sulla scena in­ternazionale. Uno così si sarebbe inserito armonicamente in mez­zo a campioni come Puskas, Czibor, Kocsis. Lui, invece, in Nazionale arrivò soltanto nel ’59, cinque anni dopo il trionfo sfiorato e la beffa di Berna. Ave­va diciott’anni, a quell’epoca. E ne aveva ventuno quando quella sua Ungheria molto meno talentuosa approdò in Cile, senza an­dare oltre i quarti di finale, bloc­cata dalla Cecoslovacchia. Lui, però, la sua parte l’aveva fatta: una rete contro l’Inghilterra, una tripletta alla Bulgaria, e ci aveva provato anche contro i ce­chi andando a sbattere contro una grande giornata del numero uno avversario Viliam Schrojf. Nato a Hercegszanto, un villag­gio a duecento chilometri da Bu­dapest, il 15 settembre 1941, Al­bert vestì per tutta la carriera i colori del Ferencvaros. Cresciu­to nel segno di Hidegkuti, si ri­tagliò un ruolo analogo: era un centravanti di manovra, con il compito di lanciare i due interni, Bene e Farkas, veri finalizzatori della squadra. Compito che svol­se egregiamente durante la sua seconda avventura mondiale, il 15 luglio 1966 al Goodison Park di Liverpool in quell’Ungheria-Brasile 3-1 che segnò probabilmente il punto più alto della sua carriera. Alla fine, in Nazionale avrebbe collezionato 75 gettoni di presenza, con trentuno reti. Col Ferencvaros debuttò dicias­settenne, vincendo la Coppa d’Ungheria. Nella stagione ’59-60 fu capocannoniere del cam­pionato con 27 reti, e si ripetè l’anno dopo a quota 21. Il titolo nazionale arrivò nel ’62-63, e nel ’65 fu la volta della Coppa delle Fiere, vinta a Torino in casa del­la Juventus. Dopo il Mondiale, arrivò (nel ’67) anche la gloria con il «Pallone d’Oro», una sor­presa per molti. L’onda del suc­cesso lo porterà un anno dopo a giocare con una rappresentativa Grandi Firme al Maracanà di Rio contro il Brasile. L’eleganza e la fantasia di questo trequarti-sta ante litteram fanno colpo sui padroni di casa: gli arriva una proposta dal Flamengo, ma lui declina gentilmente. Motivando: «Un trasferimento all’estero non sarebbe compatibile con la mo­rale sportiva socialista». Un anno dopo, la sua carriera subì una brusca interruzione a Copenaghen, in un match valido per le qualificazioni mondiali: uno scontro col portiere danese Engedahl gli provocò una brutta frattura a una gamba. Dopo un anno di riposo forzato, Albert non fu più lo stesso. Giocò anco­ra fino al ’74, collezionando 537 presenze col Ferencvaros.

VAVA’ – BRASILE
Evaldo Izidio Neto, in arte pallonara Vavà, classe ’34. Uno che magari non è mai stato considerato un fenomeno, neppure in patria, diciamo pure uno che è rimasto nell’ombra del fenomeno Pelè, anche se entrava sempre a pennello nella famosa cantilena della felicità (ricordate? «Didì, Vavà, Pelè…»). Uno che comunque la si guardi si è porta­to a casa due titoli mondiali in fi­la, e non è un’impresa riuscita a molti. Era il classico attaccante di sfondamento, opportunista puro e in questo così diverso dai cano­ni del football ballato e allegra­mente recitato sui campi brasilia­ni. Non affinò mai troppo la sua tecnica, che restò approssimativa e ben lontana dal concetto di arte profuso a piene mani dai suoi compagni di reparto in Naziona­le. Ma si fece sempre trovare al posto giusto nel momento giusto. E la concorrenza, che era sempre in agguato per sfilargli di dosso la maglia di titolare della Selecao, dovette accomodarsi e guardare sia in Svezia che in Ci­le. Al Mondiale del ’58 partì co­me riserva di “Mazola”, al seco­lo José Altafini. Ma quest’ulti­mo finì presto sulla graticola: aveva chiuso col Milan alla vigi­lia della kermesse iridata, alle prime uscite così così fu accusa­to di avere già la testa concentra­ta sul prossimo campionato ita­liano. E a guadagnarci fu appunto Vavà, che si ritrovò tra i titola­ri di quella squadra destinata a conquistare la prima Coppa Rimet della sua storia. Segnò cin­que reti, il nostro, in quel trionfo. Appena una meno di Pelè, e co­munque a nessuno dei due bastò quel ricco bottino per assicurarsi il primato tra i marcatori, visto che lassù svettò Just Fontaine a un’incredibile quota tredici. Quattro anni dopo, pur segnan­done una di meno, questo non troppo aggraziato rapace delle aree di rigore riuscì ad agguanta­re un trono, sedendosi stretto in­sieme ad altri cinque giocatori. Fu un gran bel ritorno, visto che Vavà aveva da poco riconquistato la maglia verdeoro dopo una non troppo felice parentesi nel calcio europeo. Ci era arrivato diretta­mente dal Vasco da Gama, dove dirigenti e tifosi lo avevano inve­stito, precipitosamente, dell’ere­dità di Ademir. In quanto a stile, il maestro era irragiungibile. Ma Vavà seppe fare la sua parte, e dopo il mondiale di Svezia si guadagnò appunto la chiamata europea. Lo vollero all’Atletico Madrid, dove era attesissimo ma non rese secondo le aspettative: trentatrè reti in tre stagioni. Tor­nato in patria, al Palmeiras, rien­trò nel giro della Nazionale restandoci fino al ’64. In totale venti presenze e quattordici gol (nove ai Mondiali) in verdeoro.

GARRINCHA – BRASILE
“A legna del pueblo”, gioia e felicità di un popolo inna­morato pazzo del football. Così chiamavano Mane, che era l’essenza del calcio, quando vo­lava sulla fascia destra e ubriaca­va gli avversari, bruciandoli nel fuoco sacro dei suoi dribbling. Mane, piccolo grande Mane che cercò per tutta la vita di lasciarsi alle spalle l’ombra lunga della miseria, della solitudine che mai l’avrebbe abbandonato. Fu lui, Manoel dos Santos Garrincha, l’eroe del secondo titolo mondia­le del Brasile, devastante per gli avversari e necessario per la Selecao ancor più di quattro anni prima in Svezia. Quella fu la sua rappresentazione più significati­va, e fu anche il canto del cigno sulle ribalte mondiali di un fuori­classe immenso che quattro anni dopo, in Inghilterra, sarebbe stato soltanto l’ombra di sé stesso. Mane nasce il 28 ottobre 1933 a Pau Grande, da una famiglia che fatica a sbarcare il lunario. Papà fa il guardiano notturno, ma il bambino appena arrivato è il set­timo della famiglia, e si sta stret­ti. Ha fisico fragile, il ragazzo, e la poliomelite gli ha lasciato una brutta eredità, la gamba sinistra rimasta più storta e più corta del­la destra. Per i medici che lo vi­sitano, non c’è storia: possibilità di fare una vita sportiva normale, meno di zero. Vista lunga. Mane ama il football e non fa troppo caso a quella menomazione, an­zi la sfrutta a suo modo, inven­tando un dribbling personalissi­mo e irripetibile che farà la sua fortuna sui campi di gioco. Tutto a tripla velocità, e hai voglia a studiare e a cercare rimedi all’ar­te. I compagni di squadra lo ve­dono caracollare con quell’anda­tura che ricorda un uccello dei Tropici dal saltello apparente­mente ferito, un uccello che si chiama Garrincha e gli regalerà quel soprannome. Mane colle­ziona rifiuti eccellenti: lo snob­bano Fluminense, Vasco, Ame­rica Rio, e quando il Botafogo lo sceglie lui sente qualcosa den­tro, una sorta di riconoscenza che lo porterà a diventarne una bandiera, con le brevi parentesi al Corinthians, al Flamengo e all’Olaria, sprazzi di una carrie­ra ormai in declino. Col Botafo­go vince il titolo nel ’57, un an­no prima della spedizione mon­diale in Svezia, dove ancora ra­gazzino conquista il primo titolo personale. Il secondo, quello ci­leno, porta la sua firma. Respon­sabilizzato dall’infortunio di Pelè, Garrincha diventa faro del­la squadra, va in gol e ci manda i compagni, fa impazzire gli av­versari come e più del solito, dà spettacolo. L’ex ragazzino pove­ro diventa un idolo, anche fuori dagli stadi. Si innamora di una soubrette meravigliosa e così lontana da lui, Elsa Soares, si perde dentro i fumi nebbiosi del­l’alcool. Da lì, la sua vita infila la più ripida e sconnessa delle di­scese. Ai Mondiali d’Inghilterra è un’ombra, nel Flamengo non lascia tracce importanti, nell’Olaria chiude, a trentanove anni, una carriera in realtà finita da un pezzo. Gli resta poco da vivere, e quel poco va avanti nel vuoto della tristezza e della solitudine.

LEONEL SANCHEZ – CILE
Il nome di Leonel Sànchez, in quel lontano 1962, andava sussurrato piano nel nostro paese. Evocava ricordi amari, su­scitava rabbia. Il motivo? Il Mon­diale, naturalmente, e la sfida tra Cile e Italia che si concluse con la vittoria dei padroni di casa per 2-0. Il pasticciaccio successe quando l’arbitro inglese Aston, che per tutto l’incontro non aveva visto (e molti si domandarono se in buona o cattiva fede) le “carez­ze” che Sanchez distribuiva equa­mente tra David e Maschio, cac­ciò dal campo proprio David che a un certo punto aveva deciso di reagire alle provocazioni del cile­no, e Ferrini, lasciando l’Italia in nove contro undici. Lo stesso ci­leno, a distanza di anni, avrebbe ammesso: «Devo dire che l’arbi­tro sbagliò, in quell ‘occasione. Io e David ci eravamo presi a caz­zotti, dovevamo essere espulsi en­trambi». Al di là dell’episodio, fu proprio Leonel Sànchez il motore della Nazionale cilena, che vole­va fare bella figura al Mondiale organizzato in casa e ci riuscì ag­guantando il terzo posto finale soprattutto grazie a questo attac­cante che era il vero leader cari­smatico della squadra. In un re­parto avanzato che pullulava di giocatori di medio calibro (come Jorge Toro, che sarebbe finito al Modena, o come Fouilloux e Ramirez), Sànchez era certa­mente la stella. A parte la sceneg­giata recitata nella partita con l’I­talia, era arrivato a quel Mondia­le con un curriculum importante: nel ’59 aveva conquistato il tìtolo nazionale con l’Universidad de Chile, finendo anche al primo posto nella classifica dei realizza­tori, e nel ’62, proprio poco prima della kermesse iridata, si era ripe­tuto. In seguito, si sarebbe nuova­mente laureato campione nel ’64, nel ’65, nel ’67 e nel ’69.Un anno dopo il fattaccio che costò l’e­spulsione a David Leonel ap­prodò proprio in Italia, grazie al­la partita “di riconciliazione” or­ganizzata dai dirigenti dell’Inter insieme a quelli dell’Universidad de Chile. In quell’occasione si scusò pubblicamente per il suo comportamento, e il litigio con Maschio si risolse con un ab­braccio sincero. In campo, Leo­nel segnò un gol fondamentale per il successo dei cileni sui ne­razzurri (2-1). Era davvero un bell’attaccante, spinoso e pun­gente, e in Italia ebbe subito la grande occasione: piaceva al Milan, che dopo quella partita-esibi­zione lo acquistò per la notevole cifra di 120 milioni (tre anni pri­ma, la società rossonera aveva ac­quistato Rivera dall’Alessandria per 70 milioni e la comproprietà di Migliavacca). Sànchez af­fiancò Benitez e Sani, gli altri due stranieri approdati in società. Il Milan si attrezzava, attendendo da un momento all’altro l’allarga­mento delle frontiere e l’apertura al terzo straniero. Provvedimento che non passò: così, Sànchez fu costretto a rifare le valigie e a tor­narsene in patria. Giocò ancora, da capitano del Cile, il Mondiale d’Inghilterra del ’66, ma questa volta la squadra sudamericana finì fuori al primo turno (e l’Italia si vendicò del trattamento su­bito quattro anni prima, battendolo 2-0). Tre anni dopo, conquistato l’ultimo titolo nazionale, Leonel Sàn­chez disse addio al calcio a trentatrè anni. All’Italia aveva tirato davvero un tiro mancino, ma in Italia avrebbe voluto approdare, non solo per farsi perdonare quella sceneggiata. Occasione mancata.

CLASSIFICA MARCATORI

4 – Garrincha, Vavá BRA, L.Sánchez CHI, Albert HUN, Jerković JUG, V.Ivanov ZSR
3 – Amarildo BRA, Scherer CZE, Galić JUG, Tichy HUN
2 – Ramirez, Rojas, Toro CHI, Flowers ENG, Seeler GER, Bulgarelli ITA, Sasia URU, Chislenko, Ponedelnik ZSR
1 – Facundo, Sanfilippo ARG, Pelé, Zagalo, Zito BRA, Asparoukhov BUL, Aceros, Coll, Klinger, Rada, Zuluaga COL, Kadraba, Mašek, Masopust, Štibrányi CZE, R.Charlton, Greaves, Hitchens ENG, Adelárdo, Peiró ESP, Brülls, Szymaniak GER, Solymosi HUN, Mora ITA, Melić, Radaković, Skoblar JUG, del’Aguila, Diaz, Hernández MEX, Scheitner, Wüthrich SUI, Cabrera, Cubilla URU, Mamikin ZSR