1950 – Amadei: “Stanchi e senza preparazione”

Nel mondiale che ha voglia di normalità e cerca di dimenticare le atrocità della guerra, l’Italia viene eliminata dalla Svezia. Amadei ricorda la disfatta azzurra.


L’India voleva giocare a piedi nudi e per questo fu squalificata. L’Inghilterra perse contro gli Stati Uniti e a Londra pensarono a un errore tipografico leggendo il risultato sui giornali. Brasile, 1950: il primo mondiale del dopoguerra, vinse l’Uruguay facendo piangere il Brasile in un Maracanà nuovo di zecca. Doveva essere il torneo del Grande Torino, ma finì un anno prima contro la collina di Superga.

C’era una nazionale da ricostruire e un viaggio da organizzare, la Fifa diede più di una mano a una federazione campione del mondo in carica, ma con le tasche vuote. Pio XII benedì la squadra prima della partenza e Boniperti racconta che mentre tutti baciarono l’anello papale, il terzo portiere si presentò al Pontefice: «Piacere Casari», disse. La squadra raggiunse il Brasile via mare, su quella nave c’era anche Amedeo Amadei, il «fornaretto» centravanti di Roma, Inter e Napoli.

«Eravamo in due a voler viaggiare in aereo, a me non faceva paura volare. Però la federazione aveva deciso così: partimmo da Napoli con la motonave Sises, di proprietà degli Agnelli. Sedicimila tonnellate. Un ponte, quello più in alto, riservato a noi. Sotto, gli altri viaggiatori cui era proibito salire al nostro livello».

Quanti giorni durò il viaggio?
«Sedici. Con una tappa a Las Palmas, nelle Canarie. Dove giocammo un’amichevole contro la squadra locale e facemmo tutti schifo, tanto che il migliore fu il portiere Sentimenti IV, ala destra per l’occasione».

Chi era il leader di quella nazionale?
«Senza dubbio Carlo Parola».

E Boniperti?
«Ah, Marisa. Noi eravamo dei figli ‘e ndrocchia, lui un signorino tutto perfetto elegante e distaccato. Da qui il soprannome».

È vero che in quel viaggio tutti i palloni finirono in mare?
«Tutto falso. Gli unici palloni visti erano quelli medicinali per fare i pesi. Per tutto il viaggio abbiamo fatto due sedute fisiche al giorno e tattica. E camminate sui ponti e tante carte. Arrivammo a San Paolo stanchi e senza preparazione ma accolti da duecentomila italiani emigrati laggiù. Cinque giorni e avremmo esordito» .

San Paolo, 25 giugno 1950: Italia Svezia. In piedi da sinistra: Annovazzi, Sentimenti IV, Furiassi, Cappello, Carapellese, Magli, Campatelli, Giovannini. Accosciati: Parola, Muccinelli, Boniperti

Già, Svezia-Italia 3-2: Carapellese, Jeppson (2), Andersson, Muccinelli i marcatori scandinavi senza «stranieri» (per dire, il Gre-No-Li rimase a casa), la stella è Jeppson, mister 100 milioni.
Qual è il suo ricordo?
«Che mentre stavo riposando, come facevo sempre prima di ogni incontro, mi portarono in camera la maglia da titolare e poi vennero a riprendersela, “lasciamo stare, decidiamo sul campo” dissero. Volevano far giocare Campatelli per questioni di mercato, il Bologna aveva intenzione di venderlo e aveva bisogno di alzare la sua valutazione. Uno, tra me e Muccinelli, doveva fargli posto: seppi che non avrei giocato solo venti minuti prima della partita».

Chiese spiegazioni?
«A quei tempi le spiegazioni né si chiedevano e né si davano. Si subiva e basta. Novo e Bardelli, i due commissari tecnici, facevano anche gli interessi delle società».

Brera scrisse che Novo, presidente del Grande Torino, e Bardelli, giornalista di Stadio, quotidiano sportivo di Bologna, «litigavano miserevolmente» prima di ogni formazione. È vero?
«Discutevano, ma allora tutti eravamo più educati di oggi».

Come passavate il tempo nel ritiro paulista?
«Eravamo in un albergo in centro, ci portavano al cinema e a teatro, visitammo anche due rettilari».

Niente scappatelle con le donne brasiliane?
«Dopo tanto digiuno una merendina ci stava bene, ma ci fu chi se la mangiò solo alla fine del torneo…».

La Svezia pareggiò col Paraguay così la vittoria con i sudamericani (2-0, Carapellese e Pandolfinii marcatori) fu inutile. Che cosa ricorda dell’eliminazione?
«Facemmo una figura da pellegrini e per i nostri emigrati fu una batosta incredibile. Gli italo-brasiliani che circondarono il pullman dopo la seconda partita, ci guardavano come cani bastonati».

Tornaste in nave o in aereo?
«Io in aereo, non vedevo l’ora di rivedere casa. Benito Lorenzi scelse la nave, ma sbagliò i conti salendo su un bastimento che fece scalo in Francia per lasciare un carico. Arrivò in Italia un mese dopo, giusto in tempo per ricominciare la preparazione estiva».

Che tipo di mondiale fu?
«Cosa vuole che le dica, sono passati così tanti anni. Ci fece una grande impressione la Svezia. Delle altre squadre non sapevamo un granché. Nell’Uruguay credevamo molto poco, per tutti doveva vincere il Brasile».

Quanto guadagnò perquelle due partite?
«Ogni tanto ci davano 50mila lire, allora solo la medaglietta di partecipazione».

Quali erano gli stipendi dell’epoca?
«All’Inter io guadagnavo 240mila lire al mese, ma a Milano si stava bene. Al Torino, per esempio, non superavano quota 150mila. Con quei soldi rimisi in piedi la mia panetteria di Frascati distrutta dai bombardamenti».

Amadei, cos’era la miseria per i calciatori di quell’epoca?
«Il cestino da viaggio nelle trasferte con la nazionale, se c’era un pezzo di pollo eri fortunato. Una volta in treno io dormivo con Gino Cappello: ci mangiammo il salame che lui aveva fregato a un compagno di squadra».

Testo di Paolo Brusorio