Stranieri d’Italia: N – O

NENE’ – NORDAHL – NYERS – OCWIRCK – ORSI 


NENE': l'idolo dell'isola

Giocava nel Santos, a fianco del leggendario Pelé, quando fu visto per la prima volta all’opera in Europa durante una tournée della squadra sudamericana.
Nel 1963 Boniperti in persona volò fino in Brasile per convincere quel ragazzo a seguirlo alla Juventus, convinto di poter risolvere il problema del centravanti, lasciato aperto dai tempi dell’addio di Charles. Sulle prime Claudio Olinto de Carvalho, detto Nené, non volle saperne, perché la mamma non gli avrebbe mai dato il permesso di allontanarsi tanto da casa. Ma i compagni di squadra lo incoraggiarono a varcare l’oceano. Come tanti suoi connazionali, Nené ebbe parecchie difficoltà di adattamento al calcio italiano. Impiegato come prima punta, duramente osteggiato da Sivori, a fine stagione, nonostante undici gol, venne ceduto a rate (caso più unico che raro nella storia del nostro calcio) al neopromosso Cagliari. Impiegato come tornante e poi centrocampista, divenne l’idolo brasiliano che con Riva avrebbe vinto il primo e finora unico scudetto dei sardi, dispensando geometrie e fantasia a una squadra rimasta nel ricordo degli sportivi dell’isola. Rimase con i sardi fino al termine della sua carriera, nel 1976.

NORDAHL: il bisonte dall'animo gentile

Gunnar Nordahl nacque a Honefors, cittadina svedese situata oltre il circolo polare artico, nell’ottobre del 1921. Il che, a quei tempi, significava essere tagliati fuori dal resto del mondo. Questo spiega come mai un campione del suo calibro abbia tardato tanto a venire alla ribalta del calcio mondiale. Solo a ventitré anni venne ingaggiato come dilettante dal Norrköping, che, per garantirgli un minimo di sicurezza economica, gli procurò anche un impiego come pompiere. Il suo nome si impose all’attenzione del calcio italiano dopo la conquista da parte degli scandinavi dell’oro olimpico nel 1948. Dotato di un fisico esplosivo (180 centimetri per 95 chili, senza un filo di grasso!), poteva travolgere senza il minimo sforzo qualunque ostacolo, e il suo tiro al fulmicotone faceva il resto. Queste caratteristiche gli valsero, in Italia, il soprannome “Bisonte”. Nonostante questo, la sua correttezza fu sempre esemplare. Con la maglia del Milan Nordahl conquistò due scudetti e per ben cinque volte il titolo di capocannoniere. Con l’arrivo in rossonero dei connazionali Gren e Liedholm, formò un trio d’attacco tra i più forti di ogni epoca, l’indimenticabile Gre-No-Li. A 35 anni emigrò alla Roma, dove macinò gli ultimi gol di una carriera straordinaria.

NYERS: il gol come patria

Apolide per vocazione, Istvan Nyers nasce nel 1924 in Alsazia-Lorena, figlio di un minatore ungherese emigrato in Francia in cerca di fortuna. Messa da parte una discreta somma, la famiglia Nyers torna in Ungheria, dove il piccolo Istvan non tarda a rivelarsi come un fenomeno del pallone, e poi si trasferisce in Cecoslovacchia, dove pare sia più facile ottenere un visto per l’ovest. La sua fortuna inizia quando lo nota Helenio Herrera, che lo porta a giocare in Francia. Ambidestro, dotato di una classe sopraffina, sa unire la potenza alla velocità e diventa l’idolo dei tifosi dello Stade Francais di Parigi. Ma la dimensione del calcio transalpino gli va stretta. Quando Guido Cappelli, emissario dell’Inter, lo contatta, il magiaro sbotta: «Io sono un grande giocatore, non firmo per squadre sconosciute». L’altro si offende: «Come si permette, l’Inter è stata la squadra di Meazza». «Lei non mi imbroglia. Meazza giocava nell ‘Ambrosiana». L’equivoco viene chiarito e Nyers si trasferisce a Milano, dove si conferma implacabile bombardiere. Conquista due scudetti e se vince la classifica marcatori solo nella prima stagione è perché poi davanti a lui si piazza regolarmente un certo Gunnar Nordahl. Sei stagioni di Inter, due di Roma e decide di lasciare il calcio, poi ci ripensa e si ripresenta in Serie B, con Lecco e Marzotto, chiudendo a 37 anni.

OCWIRCK: lo specialista della normalità

Curioso il modo in cui sbocciò l’amore fra Ernst Ocwirk e il nostro Paese. 22 maggio 1949, Firenze, durante un’amichevole fra Italia e Austria un contrasto duro e involontario con Boniperti, che salta fuori tempo e colpisce l’avversario al volto con una pedata, costringe Ocwirk fuori dal campo in barella e poi all’ospedale col naso fratturato. Ma le cortesie e l’affetto con cui viene trattato durante la degenza, in special modo da un dispiaciutissimo Boniperti, lo fanno innamorare del nostro Paese. Malauguratamente, le norme austriache impedivano all’epoca ai giocatori di trasferirsi all’estero prima di avere collezionato 50 presenze in Nazionale, per cui a Ocwirk non fu concesso di lasciare la sua squadra, l’Austria Vienna, fino al 1956. quando venne ingaggiato dalla Sampdoria. In coppia col “razzo” Firmani, non tardò ad accendere le fantasie dei tifosi blucerchiati, nella squadra portata dall’armatore Ravano a ridosso delle grandi storiche del campionato.
Di stazza fisica notevole, dotato di un ottimo controllo di palla, “Ossie” (questo il suo soprannome) divenne la mente della squadra, l’imprescindibile e illuminato leader di centrocampo. Fu definito un “operaio specializzato” del calcio, per la capacità di coniugare il bel gioco privo di orpelli con la sostanza. In cinque splendide stagioni con la maglia blucerchiata, Ocwirk collezzionò 164 presenze per 38 reti.

ORSI: il violinista che fece grande la Juventus

Bisognava fare qualcosa, per aggirare l’ostacolo della “Carta di Viareggio”. Ovvero quella regola che negava il tesseramento dei giocatori stranieri, entrata in vigore nel ’26. Bisognava davvero trovare un’idea, o almeno così pensava il conte Mazzonis, braccio destro di Edoardo Agnelli alla Juventus. Perché a Torino Raimundo Orsi lo volevano a tutti i costi. L’avevano visto all’opera alle Olimpiadi del ’28, ad Amsterdam, con la maglia dell’Argentina. Erano rimasti incantati. Una soluzione, a pensarci, c’era: stava scritta nel cognome del campione, Orsi. Così chiaramente italiano. Il ventisettenne Raimundo Orsi, detto “Mumo”, era figlio di emigranti.
Da oriundo, avrebbe potuto giocare nel nostro campio- nato. Mazzonis lo convinse con un’offerta che, per l’epoca, era allettante: centomila lire d’ingaggio, ottomila lire al mese e una Fiat 509 nuova di zecca. Orsi disse di sì, e a quel punto a scatenarsi furono gli argentini. Sui giornali d’oltreoceano, la faccenda della doppia nazionalità venne alla luce nei suoi aspetti più negativi, al punto che i dirigenti della Juventus si convinsero a mettere il loro campione in naftalina, in attesa di tempi migliori. Così, “Mumo” passò la stagione ’28-29 a guardare la sua Juventus dalla tribuna. Una stagione all’inferno, per uno che aveva il calcio nel sangue. La rivincita arrivò esattamente un anno dopo, e si protrasse nel tempo. Orsi si mise all’ala sinistra e nessuno lo spostò più fino al 1935. In mezzo, l’epopea della Grande Juve, quella dei cinque scudetti consecutivi, quella che entrò nella leggenda del calcio. E di quella leggenda, Mumo Orsi fu parte integrante. Talento infinito, piedi miracolosi che gli permettevano dribbling ubriacanti, inventore puro di grande calcio, capace di intuizioni geniali e di giocate sopraffine. Fu una colonna di quella Juve magica, e lo divenne anche della Nazionale di Vittorio Pozzo, che anche grazie a lui conquistò il titolo mondiale del 1934. Era davvero un bel tipo, Mumo Orsi. Istrione dalla lingua lunga, non conosceva la modestia. Si sentiva il migliore, e in fondo non aveva torto. Ma era anche generosissimo, simpatico e altruista. Sapeva stare in compagnia, aveva solo quel dannato difetto di sentirsi, oltre che un grande calciatore, un grande musicista: suonava il violino, e i suoi assolo erano la disperazione dei compagni di squadra. In sei stagioni bianconere, collezionò una serie infinita di reti e di prodezze. Aveva ormai trentaquattro anni, quando abbandonò l’Italia.
All’ultimo dei cinque scudetti juventini partecipò solo in parte. Non gli piaceva la piega che stava prendendo la situazione politica in Italia. Non gli piacevano quei venti di guerra e l’intolleranza che sembrava aver invaso i pensieri degli italiani. Così, per evitare problemi, nella primavera del 1935, il minuscolo, grandissimo Mumo fece le valigie e tomo in Argentina. Poche settimane dopo, la grande Juve chiudeva il suo ciclo irripetibile.