Oreste Del Buono: cronache spagnole

18 giugno 1982: Più che gli avversari fan paura i giornalisti

Il sole dell’altro giorno è già un ricordo. Ha riattaccato a piovere a Pontevedra. Il professor Leonardo Vecchiet, che sovrintende alla salute azzurra, all’allenamento della vigilia allo stadietto Pasaron, riceve congratulazioni per aver indovinato il cambiamento di tempo. Il professor Vecchiet dispone degli occhi più sagaci e illuminati di tutta la spedizione italiana. Si schermisce: «Avevo semplicemente letto le previsioni del tempo, non ho indovinato nulla…». Ha l’aria di conservare un’ostinata, razionale voglia di un minimo di divertimento. Il commissario tecnico Enzo Bearzot ha la faccia più assorta, i giornalisti italiani si ammassano di là dall’entrata dei vestuarios, e tumultuano, impazienti di sapere tutto sulla prossima partita, non solo la formazione della Nazionale, ma anche il risultato e le conseguenze, oltre che per il futuro immediato per l’altra vita: Bearzot si toglie di bocca la pipa spenta. «Io non posso dire quello che non so ancora. I giocatori devono essere lasciati tranquilli: sono ragazzini, ne hanno il diritto. Questa è la mia filosofia. Quella azzurra non è una mafia, siamo su una zattera…». L’allenamento è finito. Il più anziano dei ragazzini di Bearzot, Dino Zoff, siede su una panca, ascoltando un monologo di Mario Soldati, che dovrebbe intervistarlo. Ogni tanto annuisce educatamente, e con ancora maggiore educazione ogni tanto sorride, al suo modo riservato e pudico. Ha ragione perché Soldati è sempre divertente. Riconosco a Bearzot di aver visto giusto nel rinnovamento del gioco del calcio, Camerun, Algeria, Honduras rivelano che altri popoli sopraggiungono ad aumentare le file della grande “tribù. «Tecnicamente sono molto a posto», dice Bearzot «e sono meno complicati di noi, gli piace giocare…». E chiaro che considera un suo preciso impegno conservare la possibilità di un tale piacere ai suoi ragazzini tartassati più che dagli avversari dai giornalisti italiani. Di là dall’ingresso ai vestuarios, gli inviati (speciali o ordinari) hanno attaccato un coro di delusione: «La musica è finita, gli azzurri se ne vanno, che orribile giornata…». Paolo Rossi è sempre al centro dell’attenzione della stampa. Ogni sua parola o ogni suo silenzio, ogni suo sorriso o ogni sua mancanza di sorriso vengono interpretati prò o contro. Spesso contro, perché un’illazione drammatica ha ovviamente più effetto che una notizia rasserenante. Provo a domandargli se se lo aspettava che la celebrità avrebbe portato a questo. «E’ cominciala quando sono andati alle buste il Vicenza e la Juventus», dice, e, a sorridere, ci prova subito «o, per l’esattezza, Farina e Boniperti. Una cosa che è andata avanti per due anni o qualcosa di simile, e di cui ignoro ancora il meccanismo. Farina e Boniperti me l’hanno spiegata in un modo diverso. Ma non è questo che conta. Conta il particolare che la quotazione che mi è stata attribuita ha fatto di me un bersaglio. E poi c’è stata quell’altra storia…». La storia delle scommesse e delle partite truccate, della dura punizione che gli è stata inflitta per una battuta. Rossi scuote la testa, come declinando la responsabilità della mia affermazione. Sono io a dirlo, non lui. «Sentirsi la coscienza a posto è importante e me la sono sempre sentita, ma questo non significa che non faccia male quando qualcuno ti grida venduto. A ogni modo, è passata, ora si tratta di giocare…», dice, provando di nuovo a sorridere, anche se il sorriso è pallido. Rinforza, a sfidare pure il maltempo, il coro di inviati speciali e ordinari: «La musica è finita, gli azzurri se ne vanno, che orribile giornata…». Mi informo su come vadano i piedi di Rossi. «I piedi vanno bene, ma mi mancano due mesi di gioco. Mi sono allenato, certo, ma non è lo stesso. Mi mancano due mesi di partite ufficiali, di partite vere. Cercherò di recuperare sul campo. Questo Mundial è appassionante. I nuovi Paesi che stanno venendo alla ribalta dimostrano che è ancora passibile divertirsi. Eh, già, è ancora possibile…». Gli azzurri devono raggiungere il pullman che li riporterà alla Casa del Baron per il pranzo. Si tratta di passare tra la calca della stampa. Rossi sospira senza ironia: «I giornalisti vogliono capire come è fatto un giocatore, a me piacerebbe tanto capire come è fatto un giornalista…». Senza ironia, ripeto, con autentica curiosità. Il sorriso diventa più convinto e convincente.