FALCAO: l’ottavo Re di Roma

Paulo Roberto Falcão nasce ad Abelardo Luz, nello stato di S.Caterina, il 16 ottobre 1953. Si trasferisce molto piccolo nella regione di Porto Alegre, a Canoas. Cresce nella squadra del Porto Alegre, dove viene tesserato a soli tredici anni, ma la svolta della sua carriera è dovuta ad una vecchia conoscenza del nostro calcio, Dino Sani. E’ lui l’uomo che ha scritto le prime pagine della storia dell’Ottavo Re di Roma. Lo stempiato regista del Milan di Rocco, classe e sicurezza innata al punto da sembrare neanche così bravo, scopre il talento di un quel ragazzo alto e veloce. All’epoca Sani allenava l’Internacional di Porto Alegre e teneva sotto il giovane Paulo, la stella del vivaio della sua squadra.

La visione di gioco, la padronanza del tocco e un’ottima tecnica fecero diventare subito famoso il giovane Falcão, che dalla tifoseria fu ribattezzato “Il Biondo”. Nel 1972 partecipa con la Seleção alle Olimpiadi di Monaco, dove il Brasile non brilla, eliminato nel proprio girone da Ungheria e Danimarca. L’anno successivo Sani lo giudica ormai pronto per entrare come titolare nel Porto Alegre. Sono anni di successi per l’Internacional che vince cinque titoli regionali “Gaùchos” (1973, 1974, 1975, 1976, 1978) e tre volte il titolo brasiliano, ricordato come “Brasilerio” (1975, 1976, 1979). Nelle sette stagioni giocate con l’Internacional segnerà 78 reti.

La nazionale maggiore comincia ad accorgersi di lui ed il debutto avviene nel 1976, contro l’Argentina a Buenos Aires, per una partita della Coppa Atlantico, ed è vittoria dei carioca per 2 a 0. Seguirà il torneo del bicentenario degli Stati Uniti dove Falcão avrà il primo contatto con il nostro calcio nel match Brasile  Italia terminato 4 a 1. Ma in nazionale le cose non vanno benissimo; non vi è un buon rapporto con il selezionatore Coutihno, che alla prima partita sbagliata, un pareggio 1 a 1 con il Paraguay per il girone di qualificazione per la Coppa del Mondo del 1978, lo mette fuori squadra. I carioca si qualificano per il mondiale argentino, ma Falcão non viene nemmeno convocato.

Con la maglia dell’Internacional sette stagioni giocate con 78 reti

Nell’arroventata estate 1980, il calcio italiano, bruciato dallo scandalo del calcioscommesse, decide di cambiare rotta ed aprire finalmente dopo quindici anni le frontiere ai calciatori stranieri. ll primo ad arrivare, all’Inter, è un austriaco di nome Herbert Prohaska, che suscita l’entusiasmo di una novena. Mentre vengono pubblicate le foto del neo-interista, a Roma si pensa in grande. Le dichiarazioni “cifrate” di Viola, fanno sognare il massimo. Poi, dopo qualche rapida smentita, esce il nome di Paulo Roberto Falcão. All’inizio nessuno ha il coraggio di ammettere che questo nome dice poco o nulla. Mentre Zico è conosciuto “in questo mondo e quell’artro” questo Paulo Roberto Falcão è un nome che non suscita sogni e ricordi. Viene da una squadra abbastanza oscura, l’Internacional di Porto Alegre, quindi è un brasiliano “gaucho”, ovvero il brasiliano “meno brasiliano che c’è”.

Proprio i tifosi dell’Internacional di Porto Alegre, che con lui “no comando” hanno sfiorato la conquista della Copa Libertadores, l’equivalente sudamericano della Coppa dei Campioni, incuriosiscono i giornalisti italiani con scene di autentica disperazione all’annuncio della partenza del loro idolo. Il presidente dei “colorado”, Asmuz, subisce una pesante contestazione e qualcuno comincia a parlare di questo Falcão come di un “grande organizzatore di gioco”. Le emittenti televisive private della capitale, che avevano a lungo proposto le videocassette con i gol e le funamboliche giocate di Zico, si trovano spiazzate: di questo Falcão si trovano solo poche immagini sabbiose e sfuocate. Poco più di 30” ripetuti di continuo. Non un gol, non un colpo di tacco. Si vede la sagoma elegante di un calciatore che corre a testa alta e calcia con i due piedi.

Quando scende in campo i tifosi restano interdetti. Fisicamente sembra più un tedesco elegante che un brasiliano. Alto, slanciato, le gambe che sembrano più lunghe del normale, un torace ben strutturato, un viso chiaro con qualche lentiggine, sul quale dominano due occhi chiari e pungenti ed una fronte alta e spaziosa che lo fa assomigliare più ad un medico di successo che ad un centrocampista della nazionale brasiliana. Anche nel modo di giocare rivela poche affinità con la scuola carioca. Smista il pallone sempre di prima, non teme i contrasti, tende a smarcarsi con facilità perché corre continuamente, ma non tenta mai un “colpo ad effetto”, non si cimenta mai in un dribbling. Raramente colpisce il pallone di tacco e mai per il gusto dello spettacolo.

I tifosi romanisti sono interdetti ma si fidano di Liedholm che pare lo abbia fortemente voluto. “Gran iocatore, intelijiente. Lui piedi come mani.” sentenzia Mastro Nils davanti ai taccuini dei giornalisti romani, tutt’altro che entusiasti dopo le prime amichevoli. Quando cominciano il campionato e le Coppe si capisce che Falcão non è uomo da precampionato e da partite coi villeggianti. Veste la maglia numero cinque, lo ha preteso espressamente. In Brasile è una maglia che ha un significato preciso, chi la veste è no comando do jogo e quando è indossata da un campione, la squadra ruota intorno a lei. E’ esattamente quello che accade con Falcão.

La Roma esordisce vincendo a Como. Si capisce subito che sarà una squadra bella e pratica. Falcão la dirige, ma non si propone come protagonista indiscusso. Le sue trame si innestano sull’ordito del gioco a zona di Mastro Liedholm, dettano i ritmi più consoni ad una squadra che non possiede velocisti. Falcão è al tempo stesso il primo a difendere ed il primo ad attaccare, contrasta come un difensore e lancia il pallone come un fantasista. La squadra giallorossa esalta un pubblico affamato di spettacolo, sì, ma soprattutto di risultati.

Dopo qualche scossone arriva la giornata decisiva, la Roma espugna alla grande San Siro battendo per 4-2 l’Inter Campione d’Italia e Falcão indossa quel pomeriggio i panni di un Von Karajan. La sua bacchetta calcistica dirige l’orchestra giallorossa che concretizza la sua sorprendente superiorità grazie a tre reti di Roberto Pruzzo, ma è Falcão, che fa la differenza, stravincendo il duello a distanza con Prohaska, il regista nerazzurro. Quel pomeriggio la Roma si candida ufficialmente allo scudetto. Con un gioco arioso, anche se non sempre ad un ritmo elevato, i giallorossi tengono testa alla sempiterna Juve ed al sorprendente Napoli, in un campionato incerto ed avvincente come se ne sono visti pochi.

Lo sconosciuto Falcão entra nei salotti della capitale dove si disquisisce se la pronuncia corretta del suo cognome sia “Falcòn”, oppure “Faucon” o ancora “Falson”. Per il tifoso romanista il dubbio non sussiste , lui si chiama “Farcao” oppure “er Divino”. Il 10 maggio, in una giornata piovosa, la Roma sale a Torino per la sfida-scudetto contro la Juventus. Su un terreno fradicio la partita è una battaglia. La Roma dimostra di essere davvero cambiata. In condizioni particolarmente avverse per lo sviluppo del suo gioco palleggiato, la squadra, presa per mano da “Farcao”, si trasforma e combatte la Juve con le armi solitamente caratteristiche della squadra bianconera : la grinta, al limite dell’intimidazione fisica, ed il ritmo. Quella partita passerà alla storia per il “gol di Turone”, un gol non concesso alla Roma, che scaverà un solco fra due tifoserie e due presidenti: Boniperti e Viola.

Paulo Roberto Falcão ha il carattere “gaucho”, fiero ed al tempo stesso orgoglioso. Non polemizza pesantemente come fanno altri suoi compagni, con la Juve si prende le sue rivincite sul campo. Un suo gol la elimina quello stesso anno in Coppa Italia e, l’anno dopo, ancora un suo gol consente alla Roma di espugnare il Comunale di Torino. Quel suo secondo anno sembra destinato ad essere trionfale; un suo magico assist volante col tacco permette a Pruzzo di segnare un gol da cineteca alla Fiorentina, ma ancora San Siro è lo stadio della svolta, stavolta negativa.

La Roma capolista, in quella partita, lotta ad armi pari con l’Inter che ha nella grinta la sua arma migliore. Ogni pallone, quel pomeriggio a San Siro, viene giocato come se fosse lultimo. Ad un certo punto si affrontano Falcão e Altobelli. L’interista è in vantaggio, ma lasso della Roma si getta a piedi in avanti, colpise il pallone e poi Altobelli che, più per il tentativo di evitare limpatto, che per la violenza dello stesso, vola a terra. Si accende una mischia furibonda e il Divino si vede sventolare sotto il naso il cartellino rosso. L’Inter vince per 3-2, Falcão viene squalificato. Le polemiche televisive infuriano. A Roma ed in Italia non si parla d’altro per giorni. Un certo Pato, fratello di latte (nientemeno!) di Falcão spiega allItalia che quell’intervento in Brasile è tanto lecito da avere addirittura un nome: carrinho.

La Roma esce dalla lotta per il titolo, si barcamena in zona UEFA, ma alla fine della stagione ci sono i Mondiali in Spagna, quei Mondiali che il Brasile vuol vincere. Telè Santana prima convoca Falcão, poi gli assegna la maglia n° 15 e quindi, come diretta conseguenza, la squadra. E’ un Brasile stellare, il Brasile di Zico, Junior, Luizinho, Cerezo, Eder, Socrates ma soprattutto, dopo le prime battute, diventa il Brasile di Falcão. Che di par suo gioca con sicurezza, imposta, lancia, contrasta, tira e segna addirittura, sfatando quella che è considerata la sua unica debolezza in un repertorio ormai rivelatosi, forse asciutto e pratico, ma di sicuro completo: la scarsa confidenza con il gol.

In quel Mundial ne segna uno splendido proprio all’Italia che rovina la festa a quel Brasile “bello e impossibile”. Un Brasile che sul più bello si rivela non il Brasile di Zico, Socrates e Falcão, ma quello di Valdir Peres e Serginho Paulista, autentici paradigmi dell’inadeguatezza nei ruoli di portiere e centravanti. L’Italia segna con Rossi, pareggia Socrates, segna ancora Rossi. Il Brasile, abituato a dominare, a vincere di goleada, a palleggiare in scioltezza, si trova a dover estrarre la sciabola.
Resta lui, “o gaucho”, il “brasiliano meno brasiliano che c’è”, a lottare fino alla fine. Falcão, torna “Farcao”. Contro una legione di bianconeri, di quegli avversari delle sue domeniche di leader giallorosso, “Farcao” dà il meglio di sè.

Quando, dopo una serie di finte in surplace che “aprono” la difesa azzurra, il suo destro tagliato e tagliente batte Zoff. La sua gioia sfrenata ripresa dalle telecamere, entra in migliaia di case italiane e genera altre polemiche. Dopo che ancora Paolo Rossi ha rimesso le cose a posto, il tifo italiano, un po’ carogna, lo individua come bersaglio preferito, come simbolo della sconfitta brasiliana. Qualcuno lo spernacchia apertamente, ma quella che sta per iniziare, dopo la “mazzata” contro gli azzurri che vincono il Mundial, sarà decisamente la sua stagione più serena e felice.

A Roma arriva quel Prohaska destinato a diventare il suo gregario perfetto dopo aver fallito nel ruolo di leader nerazzurro, ma soprattutto alla Juve arriva l’uomo che diventa il suo “alter ego” calcistico, l’uomo cui viene contrapposto sui giornali e nelle trasmissioni televisive: Michel Platini.
Difficile trovare due calciatori più diversi fra loro. L’uno, Falcão, votato alla disciplina di squadra, delizioso nella sua perfetta qualità di “esaltatore della sapidità” di compagni altrimenti sciapiti, l’altro, Platini, finalizzatore principe, figura quasi estranea al gioco dei comuni mortali spesso folgorati dalle saette del suo genio.

La Roma domina il campionato, mentre la Juventus, nella quale Platini è quasi un sopportato a causa del suo ingaggio superiore a quello dei Campioni del Mondo bianconeri, e soprattutto, per la superiore considerazione di cui gode a Palazzo Agnelli, non riesce a trovare la sua proverbiale continuità per quasi tutto il girone invernale. Quando i bianconeri, che hanno vinto all’andata, rendono visita alla Roma in un Olimpico pavesato a festa, è arrivata ormai la primavera. I giallorossi hanno cinque punti di vantaggio, ma, da qualche settimana, le redini della Juve sono passate dai ruvidi piedi di capitan Furino a quelli decisamente più nobili di Michel Platini.

E’ una sfida indimenticabile. ”Farcao”, che quando vede il bianconero diventa irresistibile, porta in vantaggio la Roma e la Juve , da “-7” sembra definitivamente spacciata, ma risorge. Prima Platini su punizione batte Tancredi, poi uno dei “nemici storici”, il gigantesco Brio, segna il gol della vittoria su un assist dello stesso Platini. Su quel gol il francese parte in sospetto fuorigioco, e Viola parlerà della famosa “questione di centimetri”, destinata ad infiammare per anni le sfide “bianconero-giallorosse”. Le polemiche infuriano, violente e cattive, l’ambiente esaperato sembra congiurare per l’inevitabile tonfo romanista. Non bastasse questo la Roma deve andare a Pisa, una trasferta a dir poco insidiosa.

Falcão la prende per mano, segna il gol decisivo e orchestra il gioco da par suo. Guidata dal suo fuoriclasse la Roma ritrova sicurezza, morale, coraggio e, di conseguenza, tranquillità, ovvero gli ingredienti necessari a riportare, dopo quarantuno anni, lo scudetto sulla riva giallorossa del Tevere.
Oramai “Farcao” è l’ ”Ottavo Re di Roma”. Il “gaucho” si è perfettamente integrato, ormai si è “romanizzato” alla grande. La “dolce vita” gli si addice, gli viene attribuita una “love story”, vera o presunta, addirittura con Ursula Andress e le sue foto sui rotocalchi “rosa” si sprecano più che sulla Gazzetta. Si dice abbia un figlio da una piacente signora divorziata.

Quando il campionato ricomincia, Falcão ha un nuovo compagno, il connazionale Cerezo ed un obiettivo dichiarato a chiare lettere addirittura dal presidente Viola che, per una volta, abbandona il suo criptico gergo (il “violese”) per annunciare che: “la Roma punta a vincere la Coppa dei Campioni e conquistarla prima della Juventus”. Che l’ha appena persa contro l’Amburgo per un gol di Magath, una sconfitta che a Roma ha allungato la festa dello scudetto. Proprio questo prestigioso traguardo, nel culmine della carriera di Falcão che in quei giorni compie trent’anni, è destinato a segnare in negativo la meravigliosa avventura giallorossa del fuoriclasse brasiliano.

In campionato, la Roma, dopo un inizio folgorante, boccheggia. Qualcuno sostiene che i festeggiamenti abbiano lasciato il segno, altri parlano di appagamento e le accuse di “notti brave” a questo o quel campione diventano pane quotidiano. ”Solo è problema preparassione”- predica nel suo improbabile italiano Liedholm. In realtà la Roma punta alla coppa dei Campioni. Elimina il Goteborg, poi il CSKA, quindi la Dinamo Berlino. Infine, nella semifinale di ritorno con gli scozzesi del Dundee ribalta lo 0-2 dell’andata con una leggendaria rimonta in un caldo pomeriggio di sole all’Olimpico. E’ il 25 aprile, lo stesso giorno in cui, due anni prima maturò il “caso Turone”. Qualche fedelissimo giallorossi, fideisticamente vede in questa coincidenza una sorta di risarcimento da parte del destino. Come se non bastasse questo, la finale contro il Liverpool si disputerà all’Olimpico. Il Liverpool è un osso duro, la finale è un evento epocale. Roma e la Roma la preparano alla grande.

Tutto viene preparato come se la cosa fosse già accaduta, concerto di Venditti compreso. Invece è linizio della fine. Falcão, come Platini l’anno prima ad Atene, incappa in una delle serate più opache della sua storia giallorossa. Il Liverpool, esperto e solido, prima segna, poi, raggiunto da Pruzzo, pilota la partita ai supplementari e quindi ai calci di rigore. Quando i preparativi sono ultimati, fra i cinque rigoristi della Roma che già deve rinunciare a Pruzzo e Cerezo usciti per infortunio, figurano Bruno Conti, Graziani, Di Bartolomei. L’occhio della telecamera fruga il drappello giallorosso, c’è persino Ubaldo Righetti. Manca il Divino: Falcão non calcerà dagli undici metri.

L’impressione è che la squadra, o almeno quella parte di essa chiamata a giocarsi tutto in così poco, senta questa mancanza, più ancora di quanto in pratica sia la reale differenza fra un rigore sbagliato o trasformato. La Roma tutta, quindi anche quei cinque compagni designati dalla sorte più che dall’allenatore ad affrontare Bruce Grobbelaar, è abituata da tre anni a “farsi guidare” da “Farcao”. E’ lui , nel bene e nel male, a condizionarne le decisioni, in campo e, dicono i bene informati, fuori. La barra del timone è sempre stata nelle mani del campione brasiliano che adesso la molla.

Come è andata a finire è noto: il viso stravolto di Ciccio Graziani, il pianto di Bruno Conti, le boccacce irridenti di Grobbelaar, sono rimaste indelebili nella mente dei tifosi romanisti. Negli spogliatoi, si racconta, sia poi successo di tutto. Coloro che come la bandiera, il capitano, Di Bartolomei si sono visti soppiantare dal felpato passo del brasiliano, dalla sua luminosa classe, dal suo abbacinante carisma, adesso insorgono. Falcão, “o gaucho”, non può aver fatto “per viltade il gran rifiuto”. Ad uno come lui non è consentito comportarsi così. Qualcosa, quella notte della finale si rompe definitivamente.

Liedholm ritorna al Milan dove lo raggiunge la “bandiera” giallorossa per eccellenza, Agostino Di Bartolomei. Ma non sono questi i soli cambiamenti. Il presidente Viola diventa gelido verso il campione brasiliano. Le frasi in “violese”, una volta dedicate solo a Boniperti e all’entourage bianconero, diventano una triste consuetudine quando parla di Falcão. Alla Roma arriva Sven Goran Eriksson, un altro svedese, ma di tutt’altra pasta di quella di Niels Liedholm. Viene ribattezzato “Svengo” per la sua non particolare brillantezza d’eloquio e per aggirare le carte federali in panchina siederà Clagluna.

Falcão, in quell’anno, si infortuna seriamente ad un ginocchio e per lui, il divino, comincia un calvario che lo porterà ad essere operato negli Stati Uniti, ma soprattutto a lasciare Roma e la Roma in un modo amaro. La bella storia del fuoriclasse di Xenxere e della Roma più bella che mai si fosse vista, si chiude con una vicenda di procuratori, avvocati, visite fiscali, richieste ora dall’una, ora dall’altra parte e sempre rifiutate. Dal punto di vista del campo vi sono mesi di assenza fra ricadute che mettono in dubbio la sua integrità fisica. Assenze che Viola non sopporta. Ha deciso, il presidente, di ricostruire la Roma senza Falcão.

In campionato la Roma del dopo Liedholm e senza Falcão zoppica, ma i tifosi sperano nel ritorno del divino. Che non ci sarà perchè Viola ha deciso di scaricarlo. La vicenda si trascina, velenosa, per tutta la seconda parte della stagione, poi esplode, in tutta la sua virulenza, in quella estate nella quale Viola, per far dispetto a Boniperti, ha deciso di tesserare Zibì Boniek e, per poterlo fare deve liberarsi di Falcão e del suo contratto. La questione assume tratti spiacevoli, le cadute di stile si sprecano. Mestamente, a colpi di carta da bollo, la sua vicenda di campione e di calciatore alla Roma ed in Italia volge al termine. Si arriva a parlare di soldi, in modo anche sgradevole .

Alla fine la Lega dà ragione a Viola: il contratto viene rescisso “per inadempienza da parte del giocatore”. Durante questa telenovela, Falcão, finisce anche sul mercato, ma Pontello, il presidente della Fiorentina, è lultimo a rifiutargli un ingaggio. Alla sua porta anni prima si sarebbero accodate tutte le grandi del calcio europeo, in prima fila la stessa Juventus, che, stavolta, non si interessa alla vicenda, quasi si gustasse il piatto freddo della vendetta. Stavolta si fa avanti solo il Panathinaikos…

Poiché l’estate successiva ci saranno i Mondiali messicani, gli ultimi per lui che ormai va per i trentratré, torna a giocare in Brasile per avere la sua rivincita su tutti. Si accasa al San Paolo, il destino gli concede qualche risarcimento: la sera del suo esordio il Morumbi, lo stadio più grande dopo il Maracanà, è pavesato a festa. Majorettes, canzoni, applausi, festeggiamenti gli danno il bentornato. Avversario, non poteva che essere così, l’Internacional di Porto Alegre, la sua squadra di un tempo, quella dalla quale prese le mosse la sua vicenda di campione. Falcão gioca bene, il San Paolo vince. Non sarà sempre così.

Il calcio brasiliano vive un periodo di crisi, stadi deserti, pochi soldi. Falcão era abituato ad altro, ma si adatta pur di arrivare ai Mondiali in Messico. Telé Santana lo convoca, ma in tutta la manifestazione, causa anche i malanni fisici al ginocchio, gioca due scampoli di partita e finisce presto in tribuna. Dopo la delusione, non accettando di diventare un vecchio campione in disarmo, lascia il calcio giocato e si ritira in Brasile a curare i suoi affari ed a fare il tecnico. Dopo l’eliminazione del Brasile ai Mondiali di Italia ’90, guida addirittura la Seleçao per un anno circa, poi lascia.

Il pubblico romanista, tuttavia, non lo dimentica. Quando, anni dopo, torna all’Olimpico per vedere una partita della Roma lo stadio gli dedica un lungo caloroso applauso. Meritato perché, al netto della brutta serata con il Liverpool, è stato grazie alla sua personalità, al suo carisma, al suo calcio chiaro e privo di orpelli se la Roma è entrata fra le grandi del calcio italiano. i lui si ricorda un aneddoto che inquadra quello che è stato il suo calcio. a Roma lo presenta in un’amichevole con l’Internacional di Porto Alegre, all’Olimpico. Il Presidente Viola, prima della partita, gli si avvicina e gli chiede “qualche numero”. ”Da un brasiliano”- dice Viola – “il pubblico si aspetta qualcosa di spettacolare, un colpo ad effetto. Spero non li deluderà e non mi deluderà”-

Verso la fine della partita Falcão decide di accontentarlo. Controlla la palla col tacco, fa passare la palla sulla testa di un avversario (“el sombrero” lo chiamano in sudamerica) poi la raccoglie e al volo calcia verso la porta avversaria sfiorando il gol. L’Olimpico si scioglie in un applauso estasiato. Dopo la partita, incontrando il presidente negli spogliatoi, gli dirà –“L’ho fatto, ma non mi chieda più di fare una cosa simile. Sono cose da foca ammaestrata, io sono un calciatore professionista”.
E lo avrebbe dimostrato.