Pietro Fanna: la malinconia dell’ala destra

«Giocare larghi sulle fasce è da sempre il segreto delle squadre vincenti. Io godevo a saltare l’uomo in quel preciso punto del campo…»


«Guarda che io all’anagrafe mi chiamo Piero, anzi meglio: Pierino. Non capisco perché Wikipedia si riferisca a me come ‘Pietro’. Risalirà ancora ai tempi in cui giocavo con Petruzzo Anastasi o Pietro Paolo Virdis…». Piero (pardon: Pierino) Fanna si presenta e mi accoglie così. Gli ho mandato un SMS (chiamandolo ‘Pietro’) per accordarci sull’intervista e lui, rapido e gentilissimo, mi dà appuntamento per sbugiardare anni di figurine Panini o refusi nel web. Pierino la peste è al massimo della forma: asciutto nel fisico, sereno nella vita di tutti i giorni, felice che una intera città lo stia celebrando (assieme ai suoi compagni) proprio in questi giorni per una certa impresa epocale andata in scena nel 1985. E desideroso di confidarsi riguardo ai suoi Tempi Supplementari. Lo guardo e ripenso a quando sprintava lungo il campo, indifferentemente di qua o di là, anche se lui nasce “ala destra” nell’Atalanta. Come in seguito Roberto Donadoni.

Lo guardo e l’ammiro, percependo pure un pizzico di languore malinconico in ciò che racconta. Perché è grazie a gente come Fanna se il calcio, per un lungo decennio della mia infanzia, è stato regno della fantasia piuttosto che plafond finanziario dai mille buchi, con il centrocampo perennamente intasato e gli allenatori in piedi a gesticolare come coach invasati del basket NBA. Hey, l’avete mai notato che i mister in giacca e cravatta non stanno più seduti? Osvaldo Bagnoli, in compenso, in panchina ci andava col giaccone a vento color grigio chiaro e, quando si alzava, era per suonare la carica con poche ed essenziali parole. Altro calcio, altro stile.

Nelle foto attuali sembri ancora un ragazzino…
«Grazie, ma la carta d’identità non mente visto che a fine giugno compirò 57 anni. Diciamo che mi tengo ancora in forma con qualche corsetta e le partite benefiche dell’ASD Ex Calciatori Hellas Verona Onlus. Il mondo del pallone professionista? L’ho lasciato da tempo ormai, ovvero da quando è finità la mia vicenda da allenatore, ma sono sereno lo stesso.»

A cavallo del terzo millennio hai fatto da vice a Cesare Prandelli sia a Verona che a Venezia. L’hai più sentito da allora?
«No, il nostro rapporto si è chiuso nel 2002 quando Cesare si è trasferito al Parma. Poteva consolidarsi meglio, la nostra partnership professionale, ma non è andata così. Diciamo che Verona ci ha unito e Venezia ci ha diviso. Come succede a tanti colleghi nel nostro ambiente…»

Parliamo d’altro: sono giorni festosi di ricorrenza, questi di fine maggio, per te…
«Già, il trentennale dello scudetto del Verona mi sta portando ad uscire quasi tutte le sere per cene o festeggiamenti vari. Uno scudetto che, mi duole ammetterlo, non ricapiterà mai più a nessuna squadra di provincia. L’ultima, d’altronde, fu la Sampdoria nel 1991 che non stava neppure in provincia. Ed era pur sempre un grande team formato negli anni da quel nobile presidente chiamato Paolo Mantovani.»

Perché tanto scetticismo?
«Perché di mezzo ci sono stati gli anni ’90 e l’ingresso in massa nel calcio di Berlusconi e di tutti i suoi seguaci. La poesia, per me, è finita lì.»

Lo hai già letto il bel libro di Furio Zara (‘Ma è successo davvero?’) dedicato a quell’incredibile impresa gialloblu?
«Solo delle parti, ma devo dire che mi è piaciuto tantissimo. Quando Zara parla di me e della mia infanzia in particolare, ha davvero centrato il punto e ancora mi chiedo come sia entrato in possesso di certe informazioni… Ha fatto un lavoro giornalistico ragguardevole. Mi prometto di terminare il libro al più presto.»

Un aneddotto ex novo risalente al 1985 ce l’hai in testa?
«Più che un aneddoto, un nome. Uno solo: quello di Osvaldo Bagnoli. Lo scudetto veronese fu il parto della sua bravura mostruosa, del suo essere un po’ mister e un po’ psicologo. E poi avevamo due soli stranieri da gestire: i grandissimi Elkjaer e Briegel. Al giorno d’oggi te ne ritrovi minimo dieci/dodici per squadra e la faccenda si complica terribilmente…»

Fu dura andarsene da quel Verona con lo scudetto ancora caldo sul petto? Non godersi quella sensazione un po’ più a lungo?
«Facile parlarne adesso a trent’anni di distanza… (sospira) Il mio addio, comunque, fu molto difficile e meditato. Da una parte avevo l’Inter, la squadra per cui facevo il tifo da bambino, dall’altra la possibilità di giocare la Coppa dei Campioni col mio Verona; da una parte sapevo cosa lasciavo, dall’altro ero ignaro di cosa avrei trovato. Scelsi i nerazzurri e (in parte) sbagliai. Un po’ perché non potei più esprimermi ai miei livelli, un po’ perché in quell’Inter non c’era traccia dello spirito di gruppo veronese, ma solo dei campioni più affermati.»

All’Inter, nel 1987, ritrovi in panca Giovanni Trapattoni. Che ti aveva già avuto alla Juventus per cinque lunghe e contradditorie stagioni.
«Il mio col Trap fu un rapporto di odio/rispetto reciproco. Io gli ho sempre dato tutto me stesso come giocatore, ma lui aveva la sua mentalità. Il suo ‘vestito giusto’ per ogni occasione. Dalla Juve non potevo muovermi per ragioni contrattuali ma, quando Trapattoni firmò per l’Inter, io diedi subito alla società milanese la mia disponibilità a trasferirmi altrove. Il Trap si oppose, mi disse che avrei giocato a lungo con lui. Solo che quando eravamo in vantaggio durante le partite, il primo che faceva uscire – per mettere dentro un mediano o un difensore aggiunto – ero sempre io!»

Una situazione tesa…
«Sì, ma il rispetto tra me e lui non è mai mancato, Neanche per un giorno.»

Con Bagnoli invece tutt’altra musica. Gran bella musica: quasi un valzer viennese.
«Osvaldo fu un secondo padre per me; anche perché mi rigenerò nel periodo più difficile della mia carriera (1982 circa) e – con lui – vinsi per tre volte di fila il titolo di ‘miglior ala italiana’. E conta che in quel periodo c’erano anche Causio, Bruno Conti, il primo Donadoni, ecc. Un Mister così me lo sarei tenuto stretto tutta la vita. Invece mi accordai con l’Inter e, fin da allora, continuo a prendermi le mie responsabilità in tale operazione di mercato.»

Nel 1986 l’elastico Tricella-Fanna non c’era più…
«Vedo che hai studiato bene la nostra tattica. (sorride) Sì, durante le ripartenze Roberto si staccava ed io gli creavo spazi portando via i marcatori, su entrambi i lati del campo. A quel punto la difesa avversaria convergeva su di un libero così alto a centrocampo ed io potevo tranquillamente lanciare in porta Elkjaer o Galderisi. Oppure Sacchetti e Di Gennaro pensavano alla soluzione personale. Agendo così, segnavamo con una certa frequenza un po’ a tutte le squadre. Avevamo un signor gioco.»

Mettiamo che l’elastico non si fosse ‘strappato’…
«Eh, bella domanda! Forse ci si poteva divertire un po’ di più, ma la storia non si fa con i se e i ma… (riflette) La sai una cosa? Anche in quel caso ebbe ragione Bagnoli quando (in quel 1985) disse che ormai la bicicletta la guidavamo noi. E avremmo dovuto avere buoni freni per la successiva discesa. Il Mister ce la fece in quanto, dopo un torneo di transizione, il Verona nel 1987 si piazzò quarto conquistando un ragguardevole piazzamento UEFA.»

Bella metafora quella della bicicletta. Ne hai un’altra per descrivere il tuo addio al calcio a 35 anni?
«No, quello fu solo un momento malinconico come succedde ad ogni calciatore di questa Terra. Io erano vent’anni esatti che vedevo lo spogliatoio come una famiglia e l’allenatore come un parente stretto. Quando questo finisce di botto, uno si sente sempre un po’ giù. I primi ventiquattro mesi senza pallone sono stati molto tristi per me, però mettermi ad allenare le giovanili del Verona mi ha aiutato ad uscire dal quel vuoto.»

I Piero Fanna – queste benedette ali che saltano l’uomo e creano assist al bacio – esistono ancora nel calcio moderno?
«Forse stanno lentamente tornando visto che oggi abbiamo gli Iturbe, i Candreva, i Cuadrado ecc. Gente che di suo apre le maglie avversarie ma che, per me, non sa giocare larga sulle fasce laterali. Saltare l’uomo lungo la riga bianca era una libidine in quegli anni ’80. Io, ad esempio, mi divertivo da matti…»

Anche il Barcellona di questi tempi pare divertirsi molto. E segnare caterve di gol.
«Giocare al Camp Nou, su quel terreno così ampio e maestoso, è un vantaggio non da tutti. Il Barcellona fa bene ad interpretare le gare in quella maniera. Ripeto: giocare larghi è da sempre il segreto delle squadre vincenti. Come fu appunto il Verona di Bagnoli.»

Fonte: Redazione CalcioNews24 

LA SCHEDA
Pietro Fanna (Grimacco, 23 giugno 1958)

StagioneClubPres (Reti)
1975-1977 Atalanta55 (6)
1977-1982 Juventus101 (13)
1982-1985 Verona85 (14)
1985-1989 Inter97 (4)
1989-1993 Verona103 (6)