ROBERTO BETTEGA – Intervista agosto 1981

«Penna-Bianca» a cuore aperto: dal passato al presente al futuro, col tono del leader, non del padrino. Il personale inserito nel collettivo: come vincere lo scudetto e vivere felici. L’unico rimpianto? La Coppa dei Campioni

Parola di Faraone

TORINO. L’ultimo dei faraoni assiste con l’aria tipica di «chi sa» allo svolgersi delle cose. «II calcio è vita e la vita è un sacco di roba: bella e brutta. Mi pare che questa frase la disse un tizio…». In realtà a dirla è Roberto Bettega, uno fra i pochi rimasti a rappresentare quella fetta di pedata domenicale che non è solamente elasticità muscolare, scatto, prepotenza fisica. Gli piaccia o no, Bettega deve per forza di cose sopportare un fardello carico di tutti quei sentimenti generati da una concreta popolarità: simpatia, antipatia, elogi, critiche. Bene o male lui è status symbol di un qualche cosa che supera di gran lunga il dato puramente agonistico. E non si tratta di un’immagine costruita ad arte, neppure di una rappresentazione filosofica. Forse neppure lui avrebbe mai immaginato di arrivare a tanto: prima leone dell’area, poi leone di tutto dentro e fuori dal campo.

Predestinato? Neppure. Soltanto un tizio che possedendo quel pizzico di «surplus» intellettivo rispetto alla media di un mondo assai avaro di cervelli e unendo questo alla innata capacità di lavorar bene con i piedi almeno quanto con la testa, doveva, per forza, iscriversi al club esclusivo di coloro i quali erroneamente (o per mancanza di termini adeguati) vennero definiti «padrini» della domenica.

NON PADRINO MA PROTAGONISTA
Con tutto ciò che comporta il vivere una simile situazione. Bersaglio grosso, cioè e come tale individuabile più di ogni altro: roba facile da colpire. Come i Rivera, i Mazzola, i Riva, Bettega è destinato a sopravvivere anche a se stesso. Come giocatore, cioè. La sua immagine, o il suo poster, durerà oltre ai calci anche se lui non vorrà che avvenga. Una operazione già stabilita dall’evolversi di quelle «cose» verso le quali Bettega ha il coraggio di guardare non come pedatore puro e semplice, bensì come uomo in generale. Chiaro che, però, il dato sportivo oggi sia ancora preminente rispetto a tutto il resto. I faraoni fan parlare di sé, specie se è possibile intravedere una caduta della dinastia, un logorio della potenza dichiarata ed esemplificata in passato. E’ il destino dei grandi personaggi, in ogni campo. Raggiunto il vertice, si riesce a guadagnare l’immortalità soltanto se si muore: come James Dean o Marylin. Se si diventa mito. Altrimenti è dura preservare se stessi dalla impietosita di una lucida critica. E c’è più crudeltà che pena nei fischi piovuti addosso ad un vecchio e importante marpione come Peter O’Toole, sorpreso tremante e un poco etilico a tentare un Macbeth su quel palco londinese che, un tempo, lo consacrò il migliore. Bettega sa tutto questo. Ma non se ne cura. Perlomeno finge di non preoccuparsi eccessivamente dell’esterno. Però se gli fai notare che i suoi capelli diventano sempre più bianchi si stizzisce: «Un giorno o l’altro mi tingo per davvero. E non è una battuta». Come il vecchio attore che, spaventato dalle rughe svelate dallo specchio del camerino, pretende interventi di specialissima chirurgia plastica e, nascondendosi dietro il mito, invoca giovinezze trascorse.

roberto-bettega-intervista4-1981-wp MA BETTEGA NON E’ VECCHIO
«Trentun anni, mio Dio. Anzi, trenta e mezzo. Non sono un parruccone con la mania del tirare avanti per forza». Ed è vero. Ma sarà che lui, in campo da dodici anni e soprattutto paladino di una squadra sempre sollecitata molto ad ogni livello, appare antico come Abakuk per via del suo essere sempre stato in copertina: anche qui, nel male di un’infiammazione polmonare che poteva costargli tutto quanto e nel bene di giornate radiose di gol e pallone. E ora la piazza sta lì a chiedersi e a chiedere; ce la farà ancora Bettega a ruggire il giusto? Una domanda che, per alcuni, vorrebbe risposta negativa: per quel sottile gusto di dar sepoltura a ceneri importanti. Di celebrare un rito alla memoria. Quel famoso «massi, io c’ero…». Il bello è che dai piedi di Bettega ancora possono partire segnali condizionanti: per la Juve, per la Nazionale, per lui stesso. E il faraone ha il coraggio di non mollare. Di dire che il declino è da venire. Che l’impero dura e non soltanto per tradizione. Ha una forza dentro di se’: «Quella di saper voltare pagina. Di ricominciare ogni volta come se mai fosse accaduto nulla: di brutto e di bello, non importa. Dimenticare è il mio segreto. Dimenticare per ricominciare. Ma attenzione questo è il sistema della Juve in generale, non soltanto il mio». Boniperti, ad esempio, è il capostipite della regola: «è sempre anno zero». Lo scudetto se lo scorda il giorno dopo averlo vinto. Almeno si impone questa operazione. Bettega anche: «Dicono che è difficile conquistare due titoli in fila. Tre addirittura impossibile. Facile capire il perché. Si vive di ricordi l’anno successivo al successo. E ci si frega con le proprie mani. Il narcisismo è il peggior nemico di un giocatore, di una squadra. Questo intendo quando dico: voltar pagina».

– Un poco come dire che se fosse stato narcisista sei scudetti li avrebbe vinti con il cavolo.
«Sai come mi sento? Un ragazzo che ogni anno deve dare l’esame di maturità. Perché non è vero che nel calcio si arriva e si vive di rendita. Se non stai attento, scivoli giù che manco te ne accorgi. E sei fatto».

– Bisogna aver la voglia di dar continuamente esami, però.
«Già. E io questa voglia ce l’ho. Me la faccio venire. Ad ogni avvio di stagione».

– Però si cambia. La vita lo dice. Dal nascere alla pensione, un continuo divenire, evolversi e svolgersi. Il lavoro, ad esempio. Il tuo lavoro che è quello dì menar calci. Prima in un modo, poi in un altro. Che Bettega c’è oggi sotto il sole del calcio?
«A questo proposito sono cambiato poco o niente. Voglio dire, mai ho pensato che la squadra potesse adattarsi alle mie esigenze. Il contrario, semmai. Ricordo Gori che diceva: con Bettega ci sto bene perché gioca prima per gli altri poi per se stesso. Io credo fosse vero, io credo sia vero».

– Ti compiaci?
«No, analizzo: sono realista. Tant’è che l’etichetta di bomber mi è andata sempre un poco stretta. Una definizione atipica, se vogliamo. Il gol è il mio mestiere, non la mia droga. Se arriva, bene. L’importante è che arrivi: Bettega o non Bettega».

– La Juve ha bisogno ancora delle tue reti. Aspettando Rossi, almeno.
«Lo aspetto anche io, Rossi. Speriamo si sbrighi ad arrivare, altrimenti mica Io vedo più. La Juve ha bisogno di tutti. Di gente esperta e dei giovani. Ma non c’è chi porta per mano un altro. E’ un amalgama perfetto».

– E tu ti diverti…
«La domenica non più. Gli altri giorni. Quelli dell’allenamento, delle partitelle in famiglia. Il campionato è una, roba da guerra mondiale, invece. Come fai a star sereno? E già ma il calcio è vita…».

-E la vita?
«E la vita non è granché. Penso ai miei figli e ho un poco di paura. Come si fa a non averne in questo mondo strano?».

– Un mondo rotondo, come un pallone…
«Quello si è riscattato. Mai pensato, in verità, che potesse affondare. Forse tutto il casino dello scandalo ci voleva. Non fraintendermi. Dico che una operazione di pulizia è necessaria ad un certo punto. Per il calcio c’è stata. Ora siamo nuovamente in alto. Si gioca meglio, sono arrivati gli stranieri a dar nuovo vigore a livello di spettacolo. La gente ci crede. Noi anche. Insomma: calcio è bello, come slogan».

– E Bettega com’è?
«Vuoi che dica: son cotto? Non lo dico. Perché non lo penso. Una cosa mi auguro: di capire quando sarà arrivato il momento di smettere. Non è facile intuire il momento».

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NAZIONALE
Anche Bearzot dice di essere fortunato. Perché ci sono i Mondiali e questa cosa provocherà una escalation delle volontà da parte dei pedatori tutti. Cioè anche Bettega, fuori di metafora, si rifarà leone pur di arrivare in Spagna con tutti i crismi necessari. «Discorso assurdo. Io la vedo al contrario. La Nazionale altro non è che il frutto di un certo lavoro fatto bene durante l’anno. Quando sei in campo, specie con la Juve, mica hai tempo di pensare all’azzurro. Se fai il tuo dovere magari viene, ma non per altro».

– E con Rossi, ai Mondiali, sai che pacchia. Tu e lui a…
«Stessa cosa che per la Juve: arriva in fretta, Paolino!».

– Che razza di campionato vedi?
«Molto più difficile dello scorso anno. Sarà dura vincerlo, per noi. L’Inter sarà protagonista. E poi la Fiorentina, il Milan, oltre naturalmente a quelle della passata stagione, cioè Roma e Napoli».

– Però con i tuoi gol…
«Prego, con i gol di tutti. Anche quelli della difesa: un reparto che, a mio avviso, può garantirci almeno quindici reti».

– Una difesa che desta perplessità, senza Cuccureddu, non maritata a Vierchowod.
«Una difesa che, se Osti e Brio funzionano come ritengo possano fare, sarà insuperabile».

– Anche in Coppa Campioni?
«Se non ci sbrighiamo a vincerla mi sa che devo rinunciare a questo blasone».

L’ultimo dei faraoni si guarda intorno. Vede movimenti e sente voci strane. Non se ne cura. Ha ancora un paio di cosucce da mettere in ordine prima di lasciare. Soprattutto deciderà lui, da solo, quando sarò ora di farlo. Al massimo, se proprio la platea lo vorrà, si tingerà i capelli. Perchè l’occhio è strano, proprio come il mondo.