ROBERTO ROSATO – Intervista ottobre 1973

“Picchio, se sono costretto, ma mai con cattiveria” (e prega prima di ogni partita) – “A Marassi ho ritrovato l’entusiasmo dei tempi del Filadelfia, i tifosi mi hanno persino cercato l’appartamento” – “Juventus e Milan favorite, ma attenzione alla Lazio e al Torino”

Rosato, un lottatore (ma con sentimento)

Gli amici lo chiamano faccia d’angelo, perché anche se ha trent’anni ed è diventato un po’ capellone il volto è rimasto quello di un bambino. Un bambino che picchia, però, dicono in tanti: provate a portargli via la caramella (che in campo si chiama pallone) e lui vi stenderà senza troppi complimenti, e senza neanche chiedervi scusa. Così i suoi nemici — tutti i giocatori ne hanno, specie nelle squadre avversarie — gli hanno appioppato per anni il soprannome di «killer», che è tutto un programma. E Rosato, a ripensarci, ci si arrabbia ancora: «Killer, assassino, o nelle migliori delle ipotesi pericolo pubblico, se vogliamo essere generosi». Proprio un bel biglietto di presentazione. «No, non sono uno stinco di santo: se un avversario mi va via cerco di fermarlo, mi pagano per questo; e se non ci riesco con le belle maniere, dato che non sono una signorina vedo di arrangiarmi come posso, faccio un fallo Se c’è da mettere la gamba, insomma, io la metto. Lo faccio per necessità, non per far male».

E racconta due episodi: «Nelle partite di Coppa, all’estero, per difendersi a volte bisognava mirare più alle gambe che al pallone: gli altri picchiavano duro, non si poteva stare a guardare. Contro il Manchester, in Coppa dei Campioni, anni fa Denis Law mi rifilò un cazzotto proprio in mezzo ai denti. Quella volta vidi rosso, e non soltanto per il sangue che mi riempiva la faccia: se non fossi stato costretto ad uscire, non sarei stato cattivo per necessità, ma per convinzione. A Sofia, invece, da quel gentiluomo di Asparukov (poveraccio è morto) ricevetti un grosso schiaffo morale. Lo avevo maltrattato per tutta la partita, lo avevo esasperato, le sue gambe erano tutto un livido: verso la fine, non potendone più, fece un fallo di reazione. E negli spogliatoi fu lui a venire a chiedere scusa a me, e mi sentii piccolo così».

Lo hanno chiamato anche pirata («Perché dicevano che con i miei “uncini” arrivavo dappertutto») e, nell’ambiente della Nazionale, martello («Secondo gli altri azzurri, agli attaccanti avversari facevo questo effetto»). Ma a parte la faccenda del «killer» — che per anni è stato un rospo in gola, che non andava né su né giù — ciò che gli altri dicono o dicevano di lui, a Rosato entrava da un orecchio ed usciva dall’altro: «Vede, alla coscienza non si può mentire, sarebbe come tradire se stessi. Così, io ho imparato a dar retta solo a lei. Se mi dicono che ho giocato bene ed io penso che non sia vero, non sono contento; se invece mi accusano di colpe che non penso di avere, sono critiche che lasciano il tempo che trovano. E poi, gli elogi durano poco, la partita dopo si riparte da zero: ti senti dire che sei un mezzo brocco e pochi giorni dopo un fuoriclasse, e tu invece sai che sei sempre te stesso».

roberto-rosato-intervista1-wp Arrivare in alto: Rosato c’è riuscito, prima nel Torino e poi nel Milan. E’ stato protagonista di tante battaglie in maglia azzurra, ha avuto tutto. Ma adesso è al Genoa, una squadra che non può puntare a grossi traguardi. Rimpianti? «No, guardi, io mi ritengo fortunato: e se tornassi indietro, rifarei tutto. Non ho rancori col Milan, anche se forse qualcuno non ci crede. E’ stata una trattativa amichevole, tra gente che guarda dritto negli occhi e dice la verità. Buticchi voleva 140 milioni, è sceso a cento quando gli ho detto che a Genova sarei andato volentieri, perché ho messo su casa a Pino Torinese e mi interessava non allontanarmi troppo. Mi è parso di fare un salto indietro nel tempo, di tornare ragazzo: a Marassi ho ritrovato l’entusiasmo del vecchio Filadelfia, quando i tifosi erano talmente vicini che sembrava ti soffiassero sul collo. Proprio i tifosi si sono dati da fare per trovarmi un appartamento: mi hanno scritto, telefonato, incoraggiato, una cosa incredibile. Ne avevo bisogno, quel ginocchio non metteva giudizio. Avevo paura: Roberto, mi dicevo, l’anno scorso eri in Nazionale e adesso magari devi smettere. Possibile? Roba da non chiudere occhio la notte».

Invece era solo una forma di artrosi, conseguenza di un’operazione al menisco subita circa dieci anni fa. «A Genova — prosegue Rosato — non ci sono galli nel pollaio, l’unico gallo è Silvestri, che è un tipo alla Rocco, un burbero buono che sa tenere la disciplina. Anche Corso si è adeguato, ha cambiato mentalità, corre più degli altri. Mi aspettavano come un messìa, per la difesa, ed io, che sono apprensivo di natura, ero preoccupato: fallirò? mi beccherò dei fischi! I compagni dicono che ho dato sicurezza a loro e li ringrazio, ma io so che sono stati loro a darla a me. Della partita di San Siro si parlava da un mese, eravamo tesi, poteva essere un disastro, il rendimento della squadra era un enigma per i tifosi, ma soprattutto per noi. Per me, poi, si trattava quasi di un esordio: nuova squadra, occhi e magari fucili puntati su di me. Avevo Boninsegna e pensavo: magari lo tieni a bada per 89 minuti, poi quello inventa un gol e tutti dicono che la colpa è tua, perché un colpevole si cerca sempre».

Ma era proprio soltanto un incubo, perché Rosato domenica è stato impeccabile, e non ha neppure picchiato tanto: «Eravamo felici come bambini, negli spogliatoi. Silvestri ci ha detto di non montarci la testa, perché avevamo fatto soltanto un trentesimo di quel che bisognava fare, nelle altre 29 partite si ricomincia da capo. Ed era proprio quello che ci aspettavamo che dicesse. Ma Corso, chi lo teneva? Aveva vinto una grossa battaglia personale, in un certo senso era stato l’eroe di San Siro». Quel pareggio per lui — e per tutti i rossoblu — valeva una grossa vittoria, era un punto veramente grosso.

Si parla del campionato e Rosato dice: «Una volta lottavo per lo scudetto, adesso lotterò per la salvezza: ma sempre lotta è, e mi piace, in fondo non cambia nulla. Vedo bene Milan e Juve, con la Lazio o l’Inter nel ruolo di terzo incomodo. E anche il Torino potrà dire la sua. Noi vorremmo ottenere la certezza di non finire in B con qualche domenica d’anticipo, perché quando hai l’acqua alla gola basta un’ondata imprevista a farti affogare, e così finisce che si gioca tesi, e che si dorme male. Ma io ho fiducia, perché la domenica in campo si vede anche la vita che hai condotto durante la settimana, e al Genoa non ci sono ribelli».

Rosato dice di essere fortunato perché ha potuto guadagnare molto di più di tanti altri della sua età; ammette di essere un risparmiatore («perché penso al domani, il futuro è sconosciuto e tutte le cose che non conosco mi spaventano, sono piemontese fino all’osso e vado con i piedi di piombo; e poi getta via i soldi soltanto chi non se li è sudati, e calcio non vuol dire Totocàlcio»). Tutte le domeniche, prima della partita, va i in chiesa: «Sono religioso, prego e chiedo di fare una buona partita». E forse chiede anche di non farsi male, e di non far male a nessuno. Stinco di santo no, ma neppure killer.