MANCINI Roberto: una vita sempre davanti

Del destino di Roberto Mancini la gioventù è sempre stata, e continua a essere, il tratto distintivo. Aveva 13 anni quando i genitori, acconsentirono a portarlo da Jesi a Casteldebole, il centro di allenamento del Bologna, per assecondare il desiderio del loro bambino di provare a fare il calciatore; ne aveva 16 quando l’allora allenatore del Bologna, Tarcisio Burgnich decise che quel ragazzino poteva debuttare in serie A.

E ne aveva 17 quando Paolo Mantovani firmò un assegno record per eleggerlo trave portante del nascente progetto-Samp; ne aveva 20 quando si precluse una storia azzurra più consistente di quella che sarebbe stata litigando con Bearzot per una notte di libera uscita a New York; ne aveva 36 quando un’ indubbia forzatura regolamentare lo depositò sulla sua prima panchina – ovviamente di serie A – a Firenze

Quando nel 1978, a quattordici anni ancora da compiere, arrivò a Bologna per un provino incantò tutti: lo presero al volo, versando all’Aurora di Jesi cinquecentomila lire. Era tra i bam­bini del Bologna il più bambino di tutti: giocava con compagni più vecchi di lui di due anni, cosa che gli valse un soprannome difficile da smaltire (Bimbo) e le attenzioni interessate degli os­servatori. Il prezzo della precoce scalata? Gli scherzacci da caserma dei più grandi, mica roba di poco conto: «Passavo le mie serate chiuso in camera a elaborare piani di fuga. Poi però, quando sentivo i miei al telefono, mi sforzavo di non lasciare trasparire nulla: ero arrivato fin lì e avrei sopportato di tutto pur di giocarmi le mie carte».

A tirarlo fuori dalla caserma fu Tarcisio Burgnich. Che nel 1981 aveva preso il posto di Gigi Radice sulla panchina del Bologna. Alle porte una stagione difficile: il presidente Fabbretti aveva pochi soldi da spendere e la squadra che aveva messo in mano al suo allenatore non lasciava presagire giornate radiose. Mancini avrebbe dovuto esordire con la Primavera: stava per compiere 17 anni. Ma il 12 settembre, alla vigilia della prima giornata di campionato, non parte coi compagni per Rimini: «Tu resti a Bologna» gli dice Burgnich, con una faccia che non c’entra niente con le parole che gli escono di bocca. «Sei a disposizione della prima squadra per il match contro il Ca gliari». Bella mossa, vecchio Tarcisio. Aveva capito subito che con quei chiari di luna il Bimbo avrebbe potuto tornargli utile, molto utile.
«Mancini doveva andare in prestito al Forlì. Io mi opposi, lo tenevo d’occhio fin da prima dell’estate. “Tratteniamo lo”, dissi al presidente. Davanti avevo Chiorri e Fiorini, ma quel ragazzo avrebbe potuto contendere il posto a entrambi».
Il giorno dopo – a 16 anni, 9 mesi e 17 giorni – Roberto Mancini esordisce in Serie A. Il padre, Aldo, che era andato a Rimini per vederlo giocare con la Primavera, sgomma verso Bologna e arriva appena in tempo per vedere il pargolo muovere i primi passi nel grande circo.

Diciassette minuti, appena. Quanto basta a Burgnich per capire che il Bimbo tra i grandi non sfigura affatto. Saranno dodici la domenica successiva, ventotto quella dopo. A fine campionato Mancini avrà giocato 30 partite su 30: come debutto, niente male. In che ruolo gioca il piccolo genio? Ha sempre giocato sulla trequarti, da rifinitore. Ma Burgnich ha soprattutto bisogno di attaccanti e lo schiera da seconda punta, anche perché il ragazzo ha fiuto da attaccante: nove gol a fine torneo fanno convergere su Roberto le attenzioni di tutte le grandi.

L’uomo del destino si chiama Paolo Borea, è ferrarese ed è arrivato a fare il direttore sportivo del Bologna dopo qualche anno di inevitabile gavetta: Prato, Modena, Parma. Ora ha l’occasione della vita: il petroliere Paolo Mantovani gli offre un posto alla Sampdoria e lui ricambia con la dritta giusta: «Se vi interessa Mancini è il momento di chiudere. La Juve si è già fatta sotto». Buono a sapersi: la Sampdoria non perde tempo e chiude la trattativa con Fabbretti, che ha un disperato bisogno di denaro contante. Due miliardi e mezzo più Galdiolo, Roselli e Logozzo, cifra astronomica per un ragazzino di diciotto anni. Che ancora non sa nulla: è in campeggio, coi suoi, a Senigallia e proprio lì lo raggiunge Borea al suo primo giorno da direttore sportivo della Samp. Borea conosce bene il Bimbo, lo ha vi sto crescere e sa quali corde toccare: «Mantovani vuole costruire una grande squadra. E tu puoi diventarne la bandiera».

Aldo Mancini firma per il figlio ancora minorenne un contratto quadriennale a scalare: 40 milioni per la prima stagione, poi 60, 80 e 100. Non male per uno che al Bologna guadagnava novanta mila lire al mese come rimborso spese. Il giorno dopo si presenta a Senigallia un uomo della Juventus. Ha un contratto da far firmare a un ragazzino che promette bene. Non sa di essere arrivato troppo tardi. Tutti quei soldi per un ragazzo sono una follia – sentenziarono i soloni del mercato, che non avevano firmato un assegno del genere solo perché Mantovani e Borea non gliene avevano la­sciato il tempo. Quando Mancini arriva a Genova, si sente addosso gli occhi di tutti: stiamo a vedere se li vale davvero – pensano e dicono un po’ tutti. Peso enorme per le spalle di uno che fino a un anno prima sognava l’evasione dalla clausura di Casteldebole. E il signor allenatore come accoglie l’ultimo arrivato?

Il signor allenatore è Renzo Ulivieri, uno che detesta le prime­donne come solo le primedonne sanno fare. «Tu, bimbo, in che ruolo giochi?», gli fa il giorno del raduno.
«Mi piace stare dietro le punte, partire da lontano». Risata: «E tu al Bologna avresti fatto nove gol partendo da lontano? Ma va… Tu sei un attaccante centrale e con me giocherai là davanti».
Insomma, non c’è il cosiddetto colpo di fulmine, mettiamola così. Anche per ché il ragazzino è introverso e orgoglioso quanto basta. Renzo Ulivieri che a distanza di tempo ricorda: «Ai miei tempi, Roberto era un ragazzo, un calciatore in formazione. Il ruolo? Sì, ci fu qualche problema: io lo vedevo prima punta, lui non ci ha mai creduto. So che la carriera che ha poi fatto sembra dargli ragione, ma io resto con vinto che da attaccante puro avrebbe potuto fare di più».
Prima ancora che lo diventasse, Ulivieri aveva già bocciato anche il Mancini allenatore: «Gli manca la paraculaggine, è troppo spontaneo. E in questo mestiere bisogna saper fingere».

Fortuna che a Genova c’è Paolo Mantovani: il presidente si innamora dal primo momento di quel ragazzino con un broncio troppo più grande di lui. Lo tratta come un figlio, al punto che Mancini arriverà a chiedere proprio a lui – al suo datore di lavoro – di amministrargli i guadagni. È l’unico che riesce a riprenderlo senza trovarsi di fronte un muro. Negli anni, gli inviti a pranzo diventano sempre più fitti e le prediche hanno un finale scontato: «Roberto, ma vaffffanculo», così, alla romana. Poi però, quando c’è da parlare di soldi, Mantovani spara più alto della cosiddetta controparte, che si può permettere anche il bel gesto: «Presidente, facciamo un po’ meno». Scenari ai confini della realtà che diverranno abituali più tardi, quando la Samp diventerà il club esclusivo e surreale dei “sette nani”, con Vialli e Mancini felici e vincenti.

Ma all’alba degli anni Ottanta, in una Samp da costruire, Mancini non è ancora Mancini e deve fare i conti con le scelte di Ulivieri che lo vede prima punta e con i rancorosi silenzi del sergente Bersellini, che non ne apprezza gli svolazzi di fantasia e glielo fa capire in maniera fin troppo brusca. Figurarsi la reazione. Come la racconta oggi, il tecnico? Così: «Che Mancini avesse rare qualità dal punto di vista della tecnica, non l’ho mai messo in dubbio. Ma sostenevo che andasse incanalato dal punto di vista tattico. Per capirci: volevo che tornasse, quando il pallone l’avevano gli altri. Ho fatto di tutto per scuoterlo e ho usato anche le maniere forti: non sono riuscito a ottenere granché. Lui faceva resistenza e si chiudeva sempre di più».

Storia di reciproche incomprensioni, che oggi Mancini rilegge con relativo distacco: «Con lui ho perso due anni. Alla fine arrivai a chiedere a Mantovani di prestarmi al Bologna, in B. Un allenatore deve dare alla squadra un’impronta, ci mancherebbe. Ma non può ingabbiare la fantasia di certi giocatori. Se c’era una cosa che Bersellini non mi perdonava era il colpo di tacco. Non importava che mi riuscisse o meno, era l’idea che lo infastidiva. Ma se sono di spalle – gli dicevo io — perché devo fare la fatica di girarmi?».

Eugenio Bersellini, che probabilmente sbagliò nei modi, forse non aveva tutti i torti: quanto fosse difficile da gestire il giovane Mancini lo capii subito anche Bearzot. Che, dopo averlo preso in consi­derazione per i Mondiali dell’82 (Mancio faceva parte della rosa dei quaranta), lo fece esordire durante la tournée americana del maggio 1984. Un tempo contro il Canada, un tempo contro gli Stati Uniti, a New York. La sera, Mancini, con Tardelli e Gentile, abbandona il ritiro per tuffarsi nella Grande Mela. «Andammo allo Studio 54, in altri locali alla moda. Avevo vent’anni e vedevo l’America per la prima volta. Il giorno dopo saremmo tornati a casa e insomma pensai che un giro per il centro non avrebbe fatto male a nessuno. Ma Bearzot non la prese al trettanto bene: ero l’ultimo arrivato e forse da me si aspettava il rispetto delle regole più elementari. Il giorno dopo mi fece una scenata e se ne andò con queste parole: “Tu con me hai chiuso “. Testuale. Fu proprio così: non mi richiamò mai più in Nazionale. Con una telefonata magari avrei sistemato tutto, ma allora mi rodeva il pensiero di essere stato l’unico a pagare».

Mancini giocherà la sua terza partita in Nazionale solo nel 1986 quando Vicini prenderà il posto di Bearzot. Nel frattempo si era guadagnato il ritorno in azzurro guidando la fantastica Under 21 di Azeglio in un sontuoso campionato europeo chiuso a un passo dal trionfo. Rapporto complesso, quello tra Vicini e il Mancio. Fu amore a prima vista: la felice esperienza dell’Under convince il neo Ct, appena salito al soglio, a richiamare il reprobo. E tanto ci tiene l’Azeglio al suo gioiello da arrivare a disattendere le norme di comportamento fissate da Carraro. Succede nel gennaio del 1987: la domenica Mancini se ne esce con una sparata sconcertante, al termine di Atalanta-Sampdoria. Rimprovera all’ar­bitro Boschi di non averne azzeccata una e conclude: «I tifosi invece che picchiarsi tra loro, dovrebbero invadere il campo e suonarle a certi arbitri». Boom. Ora, visto che il commissario federale Carraro aveva aperto il nuovo corso azzurro dicendosi contrario alla convocazione in Nazionale di giocatori squalificati, nessuno si aspettava la chiamata di Mancini, destinato a sicura sanzione disciplinare.

Convocazione che invece arriva puntuale il giorno dopo. Solo la reazione sdegnata dei commentatori convincerà il Ct a fare marcia indietro, mentre Mancio pentito si straccia le vesti: «È stata una follia, a freddo non avrei mai detto certe cose. Ma mettetevi nei miei panni, voi che ora mi dipingete come un terrorista. A tredici anni sono stato preso e portato a Bologna, dove il calcio mi obbligava a essere già grande. Ho studiato fino al quarto geometri, ho letto, ma poco, perchè il calcio non ti dà respiro: uno o due allenamenti al giorno, mangiare, dormire, il ritiro, non rimane mai un pò ‘ di tempo per pensare e vivere come quelli della tua età. E ogni giorno in testa c’è la partita, la partita che non si può perdere… Poi la perdi, in quel modo, e per una volta nella vita si esplode. Ho fatto la parte del grande fino a domenica, poi non ce l’ho fatta più». Chi parla è un ragazzo di 23 anni che tutti chiamano il Bimbo e che ha il riampianto di non esserlo mai stato davvero.

Mantovani non gli risparmierà una delle sue tirate bonarie (con la solita, inevitavile, conclusione) e anche Vicini aspetterà la quiete dopo la tempesta. Ma continuerà a puntare su di lui in vista degli Europei del 1988 che infatti il Mancio gioca da titolare. I guai vengono dopo: Vicini comincia a studiare nuove soluzioni e ai Mondiali del 1990 non concede nemmeno un minuto al suo ex pupillo. Che sul momento non la prende bene: «Giocare in una squadra come la Samp può essere uno svantaggio: godi di meno considerazione da parte della stampa nazionale».

Alla quale del resto aveva già riservato inequivoca bili apprezzamenti dopo l’unico gol segnato agli Europei tedeschi, coronando la sua esultanza con una serie di gesti all’indirizzo dei giornalisti presenti allo stadio. Ma Vicini? «Io non pretendo niente. Chiedo solo che mi si offra la possibilità di competere con gli altri. Se mi convocherà ancora, bene; altrimenti me ne farò una ragione».

La delusione mondiale di Mancini – e anche di Vialli escluso proprio sul più bello – fa bene alla Samp, che dopo l’arrivo di Boskov (nel 1986) era andata lievitando: dopo due coppe Italia e una Coppa delle Coppe, nel 1991 arriva lo scudetto. Il vecchio Vujadin è uomo di mondo e sa come gestire i suoi galletti. Lascia sfogare Mancio in campo e fuori delegando a papà Mantovani il ruolo del “fustigatore”.
All’epoca Mancini la raccontava così: «Eravamo abituati alla caserma del sergente Bersellini: durante gli allenamenti non doveva volare una mosca. Quando è arrivato Boskov ci è sembrato di rinascere: adesso non vedo l’ora di cominciare l’allenamento perché ci divertiamo, scherziamo e quella vecchia volpe trova ogni giorno il modo di farci sorprendere, di farci sudare in allegria».

Non sempre le storie d’amore finiscono di colpo. Spesso si trascinano nel ricordo e vanno avanti per anni, tra crisi e apparenti ritorni di fiamma. La stessa cosa è successa a Mancini e alla Samp. Quando è cominciata la fine? Il 20 maggio 1992, quando Mancini abbandonò Wembley in lacrime dopo aver lasciato al Barcellona la Coppa dei Campioni? «Avessimo vinto quella sera, sarebbero cambiate molte cose», dirà. Oppure un mese dopo, quando Vialli si trasferirà alla Juventus e anche zio Vujadin lascerà a Eriksson la sua panchina? Più facile collocare l’inizio della fine in quel tragico – tragico per davvero stavolta – 14 ottobre 1993, il giorno della morte di Paolo Mantovani. Al quale Mancini dedicherà parole cariche di nostalgia e gratitudine nella sua autobiografia: «Caro Presidente, grazie ancora e sempre per avermi trattato come un quinto figlio e per avermi fatto il com plimento più bello che io abbia mai ricevuto in vita mìa, quando disse: “Spero che tu possa avere un figlio uguale a te”. Grazie per avermi capito più a fondo di tutti».

Perso il suo secondo padre, Mancini non sarebbe più stato lo stesso. Il 5 novembre 1995, quando Nicchi lo ammonisce per simulazione dopo uno scontro in area con Pagliuca, l’Italia scopre che il Mancio è un campione coi nervi a fior di pelle. Si toglie la maglia, si butta a terra, chiede a Eriksson di essere sosti tuito e quando inevitabilmente Nicchi lo espelle, lui abbandona il campo gridando a squarciagola di aver chiuso col calcio e con gli arbitri. Pochi mesi dopo una scena analoga con Bettin. Anche Eriksson resta senza parole: «Bisogna accettare il fatto che qualcosa in lui si è rotto».

Enrico Mantovani, che ha rilevato il posto del padre, non è d’accordo: quando Moratti fa un’offerta delle sue a Mancini per portarlo all’Inter (novembre ’96), il nuovo presi­dente fa valere il contratto in essere e il Mancio si presenta alla stampa con un foglietto spiegazzato sul quale ha scritto: «Resto, ma sono deluso».
A 32 anni, Mancini è un uomo in fuga da un passato troppo ingombrante. Ha rinunciato da un pezzo anche alla Nazionale, forse per risparmiarsi l’ennesi ma disillusione. Le ultime comparsate gliele aveva concesse Sacchi prima dei Mondiali americani: «Ma dopo dieci anni di tentativi avevo capito che in azzurro non avrei mai sfondato. Colpa mia, del mio carattere particolare, della fiducia incondizionata che ho bisogno di sentire. Mi resta il rimpianto di non aver trovato un tecnico che mi dicesse “punto su di te a prescindere, per dieci partite sarai titolare”. Sacchi? Con me è stato corretto, e lo stesso discorso vale per Vicini. Non ho rancori. Arrigo mi ha insegnato molte cose: trovo che sia il miglior tecnico del mondo nel fronteggiare il possesso di palla avversario. Quando la palla è nostra, invece, sono meno d’accordo con la sua impostazione: un copione toglie agli attaccanti la libertà mentale che crea il passaggio inatteso o il tiro improvviso».

L’addio alla Sampdoria è ormai un passo inevitabile: nell’estate del ’97 Mancini segue Eriksson alla Lazio ed Enrico Mantovani stavolta ammaina la bandiera blucerchiata senza troppi rimpianti:
«Il nostro rapporto è andato in crisi quando ho iniziato a trattare Mancini da persona adulta, dopo anni di esagerato trattamento paterno. Mancini è un ragazzo viziato a cui tutto era dovuto. Pretendeva di scegliere i giocatori, voleva il pullman da mezzo miliardo e tante altre cose che io non sono in grado di garantire».

Mancini non replica. Pensa alla Lazio e soprattutto al futuro: Cragnotti gli promette un posto in società, ma il Mancio non sa resistere al richiamo del campo. Meglio la panchina della scrivania. Eriksson sa come prenderlo. Lo lascia sfogare, poi lo convin ce biascicando con la sua impagabile flemma poche parole. Il loro rapporto è tutto in una parti ta di tennis, appuntamento fisso di ogni settimana. Sven è un terribile pallettaro: si piazza sul fondo e fa correre l’avversario. Che si fa prendere dalla foga e attacca. «Calma, Roberto, ci vuole calma», ripete Eriksson dopo averlo mortificato con un passante dei suoi.
«Se davvero vuoi fare l’allenatore, devi essere freddo e saper gestire la situazione. Impara a stare a fondo campo».

Prima o poi Manini deve aver battuto Sven se è vero che un bel giorno, il 30 marzo 2000, lo svedese si è presentato a dirigere l’allenamento con un colla boratore in più. Poche ore più tardi un comunicato di Cragnotti ufficializzava «l’ingresso del calciatore Roberto Mancini nel lo staff tecnico della società. Mancini, pur continuando a pre stare la sua opera come calciatore, inizia da oggi a collaborare con lo staff tecnico alle dipendenze di Sven Goran Eriksson». Giocatore e allenatore: anche da tecnico Mancio brucia le tappe. Resterà in campo ancora per poco: giusto il tempo di vincere il secondo scudetto della carriera. Poi l’incarico come allenatore in seconda, che potrebbe diventare anche qualcosa di più dopo l’esonero di Eriksson. «Ma io non voglio fare il traghettatore», dice Mancio prima di andarsene.

Dove? In Inghilterra a giocare – sì giocare – le ultime partite di una carriera infinita. A Leicester però Roberto resta solo un mese: arriva la telefonata di Cecchi Gori. Può il signor Mancini (che peraltro non ha ancora il patentino di prima categoria) passare nell’arco della stessa stagione dalla panchina della Lazio a quella della Fiorentina? Gli allenatori, Vicini in testa, dicono che no, non può proprio. Ma un conto è fare l’allenatore un conto il secondo e insomma Petrucci partorisce la cosiddetta interpretazione estensiva che risolve i guai di Cecchi Gori e avvia la seconda vita del bambino prodigio. Sempre in anticipo, oggi come ieri. Un caso? Mica tanto. Intervista alla rivista ufficiale della Sampdoria, settembre ’96: «Cosa farò da grande? L’allenatore. E lo farò dove mi consentiranno di lavorare senza frequentare il corso. Se la Samp mi permetterà di allenare con un direttore tecnico vicino, resterò qui, altrimenti emigrerò all’estero».

Con la Fiorentina tanto per gradire vince subito la Coppa Italia ma l’avventura in riva all’Arno dura poco: nel gennaio del 2002, dopo 17 partite, si dimette dopo che alcuni tifosi viola lo minacciano per scarso impegno. In realtà il mancio sente aria di bruciato, e non a torto visto che a fine stagione i viola retrocedono e la società fallisce. Nel 2002/2003 ritorno alla Lazio con buoni risultati, sebbene la società è colpita da diverse vicissitudini finanziarie che culmineranno con le dimissioni del Presidente Sergio Cragnotti. Arriva quarto in campionato al suo primo anno, centrando la zona Champions. L’anno dopo vincerà la Coppa Italia contro la Juve, ma viene eliminato dalla coppa Uefa in semifinale con un sonoro 4 a 1 dal Porto di Josè Mourinho. In campionato giunge sesto dopo una lunga lotta a tre tra Inter, Parma e Lazio per il quarto posto.

Estate 2004: il matrimonio con l’Inter di Moratti, più volte annunciato da giocatore si corona nella veste di allenatore. E nella prima stagione arriva la prima vittoria in dieci anni per i nerazzurri: la Coppa Italia. Nel frattempo Calciopoli assegna virtualmente il primo scudetto dell’era Moratti, tricolore bissato nel biennio successivo nonostante il fuoco delle polemiche sia sempre pronto a soffiare sulla panchina più pagata d’Italia. Ma sono soprattutto gli scarsi risultati in Champions League (sempre fuori agli ottavi) a segnare il naturale divorzio con Moratti che si libera di uno degli allenatori più vincenti della storia nerazzurra per lasciare il posto allo Special One Mourinho.

Il fallimento Champions porta però alle dimissioni e alla scelta dell’estero, il City prima, con lo scudetto batticuore vinto all’extra time nel 2012 (oltre a una FA Cup e una Community Shield) e il Galatasaray dopo, con il quale archivia però una stagione con poche luci (una Coppa di Turchia) e molte ombre. Il ritorno all’Inter, per sostituire l’esonerato Walter Mazzarri, si rivela una scelta sbagliata che lo spingono un anno e mezzo dopo a volare in Russia, per guidare il ricchissimo Zenit che lascia dopo un anno (e un 5/o posto in classifica) per tornare in Italia e guidare la nazionale, un amore fino ad oggi mai sbocciato ma rimasto sempre nel cuore di ‘Mancio’.