ROCCO Nereo: l’epopea del Paron

Su di lui e sulle sue origini mitteleuropee c’è stato chi ha scritto pagine su pagine dicendo tutto. Noi vogliamo solo dire che in una Trieste da poco tornata all’Italia, verso la metà degli Anni Venti, lui ci stava come un’anatra nello stagno. In casa sua non volevano che lui giocasse al calcio: la macelleria di famiglia, infatti, assorbiva le energie di tutti ma lui, più di ogni altra cosa, amava il football. Che era ancora pionieristico ma con l’Unione in A.

Nereo esordì a 17 anni: oddio, non era un fuoriclasse ma andava benino al punto tale che cinque anni più tardi avrebbe vestito la maglia azzurra. Per la prima ed unica volta. Di quella vicenda, Rocco ha sempre dato una versione assolutamente insolita: «Mi sposai troppo presto – ha detto – e quando mi ripresi da quella “bambola” era troppo tardi: il mio posto era occupato dai Ferrari e dai Meazza». Ma qui Rocco forse esagera: che fosse un giocatore degno nessuno lo mette in dubbio, ma che potesse far concorrenza al «Balilla» e al «Gioann» è un po’ troppo. Ad ogni modo, glissiamo, e arriviamo al ’37-’38 quando Achille Lauro – già allora presidente del Napoli – sborsa 160 mila lire per portarlo sotto il Vesuvio.

In quell’anno, il futuro «Paron» ha sei campionati con la maglia alabardata alle spalle ed arriva per la prima volta nella sua carriera in una squadra grande o presunta tale dai suoi tifosi. Con lui approdano a Napoli anche Germano Mian – un altro «mulo» – e il torinese Prato: in tutto, Lauro spende oltre 350.000 lire che non sono poche se dà a Payer tre signori giocatori che contribuiscono a far piazzare gli azzurri al decimo posto. L’anno dopo, però, succede il finimondo in società e Rocco, dopo aver mandato tutti quanti «in mona», torna a Trieste e poi rientra al Napoli quando il peggio è passato e dove resta sino al ’40 quando, tornato a casa, accetta di giocare per il Padova iniziando in tal modo un sodalizio che, anni più tardi, gli avrebbe dato non poche soddisfazioni sia sul piano tecnico sia su quello morale.

Ed è proprio all’Appiani, il vecchio Appiani con le tribune di legno, che Rocco… fa conoscenza con il catenaccio. O «vianema». O «verrou». Alla guida della squadra biancoscudata c’è il cecoslovacco Banas, uno dei tanti mitteleuropei allora così di moda. Come tecnico Banas, non è un fuoriclasse ma è un uomo di grande buonsenso e che sa benissimo come dalle rape non si possa cavare vino. Ecco quindi che dice sì a Rocco e a Bortoletti quando gli propongono di giocare con un uomo in più in difesa dietro a tutti. E questo uomo è Passalacqua, futuro interista nel dopoguerra al fianco di Marchi. Rocco – che gioca mezzala – arretra a fare il mediano mentre il mediano retrocede terzino. E Passalacqua dietro a tutti a spazzare e a buttare il pallone il più lontano possibile.

Conclusa la parentesi padovana, Rocco torna a casa. Trieste sta vivendo uno dei suoi periodi più difficili: tedeschi e miliziani titini si combattono e, come se questo non bastasse, dal mare e dal cielo piovono bombe. Il calcio, però, è più forte di tutti e – pare impossibile – a Trieste si gioca ancora: come macellaio, per Rocco (la carne è assente o quasi) non c’è lavoro ed ecco che lui scende ancora in campo: «Cacciatore» e «Triestina 1918» si chiamano le sue due ultime squadre e a 33 anni chiude. Come atleta, però, giacché come tecnico comincia subito dopo col «Cacciatore» cui fa vincere il campionato!

Frattanto — se Dio vuole — la guerra finisce e, con la pace, torna il campionato «vero», quello di serie A: nel ’46, vince il Torino e la Triestina, con 18 punti, si piazza ultima: è la B ma tutti, sotto San Giusto, sperano nel miracolo. E puntualmente il miracolo avviene: la Federazione, a Perugia, la ripesca e così, nel ’47-’48, le squadre che giocano in A sono 21. E tra queste c’è anche la Triestina che — ma come dubitarlo? — viene affidata proprio al «Paron». Che accetta senza contratto: per due mesi lavora gratis, poi si vedrà. Ma è matto costui? si chiedono tutti. No, non è matto: è solo un uomo che crede in certi valori e che, quando è necessario, è anche capace di rischiare in proprio. E con ottimi risultati, visto che, alla fine, la Triestina è seconda e Rocco è il più popolare personaggio di Trieste tanto è vero che nel 1949 viene eletto consigliere comunale nelle liste della D.C.

Rocco al «Castello», però, solleva polemiche su polemiche che l’andamento claudicante della Triestina rinfocolano per cui, «smonato» come direbbe lui, si ritira promettendo che col calcio ha chiuso definitivamente. Ma siccome Nereo è un uomo di mare, anche le sue promesse sono da marinaio per cui, quando il Treviso gli offre la squadra, lui dice di sì. E a Treviso, Rocco trova da «rugare» con Viani che abita a Nervesa: e tra lui e il Gipo, le discussioni sul catenaccio (o meglio il «cadenasso» come dice il «Paron» si sprecano). Nella Marca però, Rocco si sente come in esilio per cui quando la Triestina gli offre la panchina, ecco che accetta immediatamente. E’ l’inverno del ’53 e a Trieste Rocco ci resta poco più di un anno: nel marzo del ’54, infatti, se ne va definitivamente dicendo all’avv. Villucci, presidente alabardato: «Me ne vado senza rancore».

Un Rocco senza calcio, però, è inimmaginabile esattamente come un pesce con i reumatismi: logico, quindi, che accetti l’offerta di Pollazzi, presidente del Padova. Nella città del Santo trova una squadra che lettera-lmente perde i pezzi per la strada: armato di pazienza, però, Rocco si rimbocca le maniche e l’anno dopo il Padova arriva in A. E in biancoscudato, Rocco ci resterà otto anni diventando il tecnico forse più popolare degli Anni Cinquanta. Ma come dare torto a quelli che stravedono per lui? Nel Padova, con gente come Rosa (uno scarto della Sampdoria). Hamrin (uno in cui la Juve non ha mai creduto), Blason (ex-Inter ma scartato dai nerazzurri per… raggiunti limiti di età), Azzini e Scagnellato (una jena che però è terziario francescano) Brighenti (un modenese che arriva dalla Triestina), Rocco «inventa» una squadra che batterla è poco meno che impossibile. L’Appiani diventa una specie di inespugnabile Alcazar dove cadono un po’ tutte, compresa la grande Juve di Charles, Boniperti e Sivori.

Mentre Rocco è al Padova, stabilisce il suo quartier generale da Cavalca, un ristorante dove si mangia bene e si beve meglio: è qui, infatti, che il «paron» elabora le sue tattiche ed è qui che lo folgora l’intuizione forse decisiva per i successi della sua squadra. Oggetto di questa folgorazione è Kurt Hamrin, lo svedese detto «uccellino» per le sue… dimensioni e che ha un piede che gli si rompe solo a guardarlo. Ceduto dalla Juve dopo due infortuni assolutamente identici, appena arriva a Padova, Hamrin finisce in una delle tante buche dell’Appiani e si rompe un’altra volta. Tutti si mettono le mani nei capelli ma Rocco no; lui va da Cavalca a pensare. Poi si alza di scatto e corre da un suo amico specializzato in scarpe ortopediche cui espone il suo problema. Quello lo guarda, fa di sì col capo e, di lì a qualche giorno, il «paron» arriva al campo con un pacco sotto il braccio: lo apre e ne tira fuori una scarpa di tipo speciale; una specie di vero e proprio guscio per il piede «matto» di Hamrin. Nereo chiama lo svedese, gli dà la scarpa e quello se la infila: a correre non avverte nessun fastidio, ma come se la caverà quando dovrà sottostare alle «torchiate» degli avversari? Niente paura: Rocco crede in quello che il suo amico ha fatto e chiama Blason. Ivano è una specie di corazziere che entra sull’uomo con la forza di un panzer: Rocco gli ordina di torchiare al meglio il suo uomo e Blason ubbidisce: tutto okay. Poi il mister chiama Azzini e Scannellato che fanno lo stesso con i medesimi risultati. Ed è a questo punto che il Padova ha la certezza matematica di avere nelle sue file un fuoriclasse ed un match-winner.

I risultati di Rocco al Padova lo fanno appetire da altre squadre: Viani lo vorrebbe al Milan ma lui rifiuta anche se accetta un primo incontro con la Roma. Non se ne fa però niente perché a Rocco, basta poco per capire che in giallorosso avrebbe fatto la figura del «mona» e basta! Nel ’60, però, Viani e Rocco si trovano finalmente a lavorare fianco a fianco: ai due, infatti, è affidata la Nazionale olimpica che si piazza quarta con gente come Bulgarelli, Rivera, Noletti, Burgnich, Salvatore, tutti giocatori che vestiranno l’azzurro anche in seguito. Concluse le Olimpiadi, Rocco torna a Padova per il suo ultimo anno: ormai lui e l’«odiato» Viani capiscono che è arrivato il momento per unire i loro sforzi ed infatti, dopo un Padova-Milan 4-1 che è il miglior biglietto di presentazione per Rocco, i due si trovano a cena e il Paron accetta le proposte di Gipo: il contratto, orale, è tutto… scritto in veneto in omaggio alla lingua che i due conoscono meglio.

Quando Rocco arriva al Milan, si trova subito senza Viani: il buon Gipo, infatti, ha avuto un coccolone che lo terrà lontano dai campi per circa sei mesi per cui deve lavorare da solo. La campagna acquisti, però, l’ha fatta il Gipo e così Rocco si trova tra i piedi quel Jimmy Greaves che è senz’altro un fuoriclasse, ma che è anche assolu- tamente incapace di lavorare e di sacrificarsi. Ecco quindi che Rocco, quando Greaves torna a casa, cerca di prendere Rosa dal Padova: ma siccome Humberto è incedibile, al suo posto arriva un altro «cervellone» brasileiro a nome Dino Sani. E con Sani là in mezzo, il Milan comincia ad assumere le sue giuste dimensioni.

Gli inizi di Rocco in rossonero sono decisamente faticosi: d’altro canto, bisogna riconoscere che si trova a lavorare su una squadra fatta da Viani; una squadra, oltre tutto, cui viene a mancare Greaves. Il «Paron», però, si rimbocca le maniche una volta di più e alla fine della stagione lo scudetto milanista numero otto è un fatto compiuto: Rocco tocca il cielo con un dito e, siccome guadagna meno di tutti, Rizzoli gli regala una macchina nuova di zecca con un assegno di cinque milioni infilato a mo’ di contravvenzione sotto il tergicristallo!

Lo scudetto del Milan, se da un lato sottolinea la validità di Viani come general manager, dall’altro esalta la grande capacità tecnica di Rocco che, l’anno successivo, riesce a vincere a Wembley la Coppa dei Campioni portando in tal modo in Italia per la prima volta l’ambito trofeo. Il «Paron» riesce ad avere ragione su tutta la linea sul suo «adorato nemico» Gipo Viani. Eroe della serata è José Altafini, leone in Brasile ma spesso coniglio per definizione dello stesso Rocco in Italia. Alla fine – scrisse Palumbo sul «Corriere della Sera» – «…Rocco, che conclude nel trionfo di Wembley il suo legame con il Milan, cerca Altafini, il discolo che lui ha sempre protetto e difeso; Altafini cerca Viani: l’abbraccio suggella una pace conquis- tata con i due gol che hanno dato al Milan la Coppa dei Campioni». Nonostante il successo in Coppa, però, l’avventura rossonera di Rocco finisce: Rizzoli sta per passare la mano a Felice Riva e lui, in «questo» Milan non si riconosce più.

Ecco quindi che passa al Torino di Lucio Orfeo Pianelli dopo aver chiesto – e ottenuto l’assenso che Gipo Viani gli dà dal letto dell’ospedale dove era stato ricoverato dopo un pauroso incidente automobilistico. Il soggiorno di Rocco al Torino dura quattro anni, quattro campionati nel corso dei quali, però, il buon Nereo non va al di là di un onesto anonimato. D’altro canto, la squadra non ha fuoriclasse per cui non può fare miracoli. Malgrado tutto, però, Rocco trova il modo di «inventare» qualcosa: cede Cella e trasforma Puja in stopper, asseconda la sregolatezza (ma soprattutto il genio) di Gigi Meroni, un microgiocatore hippy ante litteram la cui partenza da Genoa aveva suscitato una mezza rivoluzione e ricostruisce Nestor Combin, un argentino di Francia che, dopo aver fallito alla Juve e al Varese, approda al Torino come una delle gatte più ardue da pelare. Rocco però si arma di pazienza e, poco alla volta, lo fa tornare quello che era.

Nel 1967, ad ogni modo, Rocco torna a casa: nel Milan non c’è più Felice Riva e al suo posto c’è Luigi Carraro. Le consegne gliele passa Silvestri, che guida la squadra sino alla finale di Coppa Italia quando il Milan – con Rocco in tribuna – affronta il Padova allenato da Humberto Rosa. Il «Paron», in quella partita, soffre le pene dell’inferno: il cuore gli dice Padova, il cervello gli dice Milan. Ed alla fine è il primo ad abbracciare sia Silvestri – il vincitore grazie ad un gol di «Garoto» Amarildo – sia Rosa – lo sconfitto – che nel cuor gli sta sin dai tempi dell’«Alcazar» padovano. Al Milan Rocco ritrova molti della sua conventicola: ci sono infatti Rosato e Rivera; il Trap e Schnellinger e c’è, soprattutto, «Uccellino» Hamrin, questa volta senza scarpa ortopedica.

Ma ci sono anche dei giovani che si chiamano Prati e Belli, Vecchi e Maldera e Anquilletti, unito al «Paron» dal comune amore per il vino d’annata giusta e di gusto piacevole. Il ritorno di Rocco al Milan coincide con il nono scudetto rossonero: l’anno successivo, poi, c’è il boom con la seconda vittoria in Coppa dei Campioni (4-1 all’Ajax e Madrid) e nella Coppa Intercontinentale (3-0 e 1-2 con l’Estudiantes di La Plata vincitore della Taca Libertadores in Sudamerica). La sera del trionfo, Rocco si guarda attorno e dice: «Adesso ci manca solo la stella del decimo scudetto» e sin da quel momento si dà da fare per raggiungerla. Ma invano: come l’araba fenice, il più ambito riconoscimento continua a sfuggirgli malgrado per due volte i rossoneri finiscano ad un solo punto dalla Juve.

Con l’arrivo di Buticchi, Rocco si accorge per la seconda volta che non è più il «suo» Milan: con il petroliere non va d’accordo come non ci andava col cotoniere Felice Riva per cui dà le dimissioni. In panchina, per le ultime partite, ci manda Maldini e quando finisce il campionato, partendo per Trieste, quest’inguaribile romantico chiama in causa Garibaldi: «Sono come Garibaldi» – dice – subito aggiungendo: «quando è il momento so che è ora di andare a Caprera».

La sua Caprera è la macelleria di Trieste dove ad ogni modo resta pochissimo: Ugolino Ugolini, a Firenze, ha una bella nidiata di giovani da affidargli e Rocco attraversa, per la prima volta nella sua carriera, la «Linea Gotica»: in riva all’Arno, però, non trova l’ambiente giusto per cui non fa nemmeno la Coppa Italia. Prima di andarsene, saluta e abbraccia Carlo Mazzone cui fa tanti auguri. Lasciata Firenze dove poteva finire Rocco se non a Milano?

Ed infatti torna al Milan dove però, poco alla volta, lo enucleano. In rossonero, il «paron» assiste al «golpe» di Rivera e al successivo sfaldamento della società e della squadra. Lui, da quel santone che è, cerca di metterci una pezza ma inutilmente: gli eventi lo travolgono ed anche se gli offrono una barca di soldi (dicono 35 milioni l’anno) per fare il consigliere tecnico del presidente, non abdica alla sua dignità e se ne va, questa volta per sempre, a Trieste. La Triestina è in C e a lui è stato affidato il settore giovanile: con tanti «muleti», Rocco avrà la possibilità di «mandare in mona» chi vorrà ma anche l’opportunità di tornare a vivere gli anni suoi più ruggenti. Un lento declino, anche fisico, che lo porterà alla sua scomparsa, il 20 febbraio 1979, 3 mesi prima del trionfo dell Milan di Rivera che conquista la Stella, il suo decimo scudetto… dedicato al Paron…

rocco-monografie-wp12

32 modi per dire ROCCO

1. “Noi semo de Cecco Beppe”. Il nonno era scappato da Vienna con una cavallerizza spagnola, il padre a Trieste aveva avviato una macelleria che serviva le grandi navi.

2. “Tuto quel che se movi su l’erba déghe, se xe ‘l balon pazienza” è una frase attribuita a Rocco, ma non sua. Di Memo Trevisan, giocatore triestino e poi allenatore (anche di Haiti, mondiale ’74, gol di Sanon, infranto il record di Zoff).

3. Rocco è stato il primo triestino a indossare la maglia azzurra, nel ’34 a Milano: Italia-Grecia 4-0. All’inizio del secondo tempo fu sostituito da Giovanni Ferrari. Prima e unica presenza. Emozionato, giocò maluccio.

4. Era affezionato al numero 10, per sé. E ai numeri 10 in generale.

5. Allenata da lui, la Triestina concluse al secondo posto (stessi punti di Juve e Milan, 49) il campionato 47/48, vinto dal Grande Torino (65 punti).

6. Era mancino, aveva un gran tiro di collo sinistro.

7. Pin; Blason, Scagnellato; Pison, Azzini, Moro; Hamrin, Rosa, Brighenti, Mari, Boscolo. Anche il suo Padova lo si è imparato a memoria. Questa è la formazione che arrivò terza nel ’58, perdendo il secondo posto all’ultima giornata con la Fiorentina.

8. “Se la stampa avesse protetto decentemente il Padova, il Padova avrebbe vinto di sicuro uno o due scudetti” (Gianni Brera).

9. Nella sua permanenza al Padova, Rocco ottenne nell’ordine questi piazzementi: quinto, undicesimo, terzo, settimo, quinto, sesto.

10. “Un giocatore invecchia precocemente se si sente abbandonato” (Nereo Rocco).

11. A Padova, famose cene da Cavalca. Sul baccalà, vino rosso (Merlot).

12. “Ci alleniamo tutti i giorni dalle 9 alle 12 e dalle 14.30 alle 18. C’è chi si spoglia e chi no. L’allenamento è tecnico, fisico e morale, sono per me tutti e tre alla pari. Non uso tabelle e non faccio lezioni teoriche, la mia tabella è il campo e lì, con esempi pratici, al martedì rivediamo gli sbagli fatti alla domenica”. Sull’uomo in più in difesa: “La sostanza è quella: che si chiami uomo libero, ala tornante, mezzala fluttuante. Tutte le squadre hanno quest’uomo in più in difesa, e ciò per valorizzare l’estro, l’indole, la facoltà d’improvvisazione del giocatore italiano”.
I due brani sono tratti da un’intervista di Luigi Montobbio apparsa sulla Gazzetta dello Sport il 4 marzo 1958.

13. Va detto, a questo punto, che ogni intervista a Rocco, sui giornali, perdeva la metà del vigore e della bellezza. Rocco si è sempre espresso in italo-triestino, un grammelot molto efficace, appoggiato dalla mimica e dalle occhiate. Anche chi era da pochi giorni in Italia (Altafini, Greaves, Sani) si abituava. Altafini, anche a sentirsi chiamare, regolarmente, Josè. Alla Domenica Sportiva, costretto a esprimersi in italiano, Rocco era un uomo in gabbia, si capiva il lavorio interno per tradurre il pensiero, o più spesso le battute. Era un uomo in gabbia.

14. Ricordo personale. Rocco: “Ciò, fino a che no se taja la barba no podo darghe del ti, me pari un profesor”. Ne sarei stato lietissimo, del tu. Ma la barba non l’ho tagliata (pur pensando di essere un po’ stupido).

15. Al nuovo arrivato in una squadra di Rocco, la commissione interna (gli anziani) consigliava di rivolgersi all’allenatore chiamandolo Mister. Questo scatenava la solita reazione: “Mister a chi, muso de mona? Mi son il signor Rocco”.

16. Non capitava spesso, ma la domenica qualcuno che sperava di giocare e non giocava andava da Rocco a chiedergli perché. Risposta fissa: “Decision de la siora Maria” (sua moglie).

17. Il 15 maggio 1960 l’Alessandria di Rivera gioca all’Appiani di Padova, Finisce 1-1, il pareggio su rigore (fallo di Blason su Rivera) non basta ad evitare la retrocessione. Impressioni di Blason in spogliatoio: “Grande attor quel magretto. No lo g’ho gnanca tocà”. E Rocco, grattandosi la bazza: “Meio de lui g’ho visto solo Meazza”.

18. Si continua a discutere sull’inventore del libero: Viani a Salerno, Rocco a Trieste, l’austriaco Rappan, Ottavio Barbieri nel ’44 coi Vigili del Fuoco spezzini? Rocco non ha mai preteso di essere stato il primo.

19. “Viani ordinava, Rocco parlava” (Josè Altafini)

20. “Si dice che la metropoli bruci gli uomini. Va bene, vuol dire che brucerà anche me, ma che mi lascino tentare. E poi che io sia un duro è una favola raccontata dai giornalisti. Esigo un po’ di disciplina e basta. Più va male la baracca più sono vicino ai giocatori”. Nereo Rocco, intervista a Franco Mentana, Gazzetta dello Sport del 20 maggio 1960.

21. Avete presente la foto di Rocco che scende dalla scaletta dell’aereo con la Coppa dei campioni in mano? Ride, ma sapeva già che avrebbe lasciato il Milan per il Torino. Niente di scritto, aveva dato la sua parola al presidente Pianelli, la mantenne.

22. “Se non capisco Torino, capitemi”. Rocco intervistato da Gian Paolo Ormezzano, Tuttosport, 13 novembre 1963.

23. Ogni tanto si rivede uno spezzone, in bianco e nero, di un lungo servizio di Gianni Minà a Trieste. Anno 1974: al tavolo, sotto il pergolato della casa di via D’Angeli, Rocco e Brera. Sul tavolo una quantità impressionante di bottiglie, qualcuna se ne vede anche adagiata tra l’erba. E’ un esempio di come si trattava (e non si tratta più) lo sport. E non serve dire che è normale, è morto Rocco, è morto Brera. E’ morta anche la voglia di fare bene le cose, di dare gli spazi giusti. E comunque questo fu il commento di Rocco alla fine: “Ciò, me gavé fa un danno de mezzo milion”.

24. Lo voleva Fellini per “Amarcord”. Sotto sotto era lusingato, ma rispose che aveva dei nipotini, non poteva fare il pagliaccio.

25. Sulla Gazzetta dello Sport, 1934: “Rocco giocatore è per temperamento un animatore mentre personalmente deve considerarsi uno dei più modesti militanti sui campi da gioco della Divisione Nazionale. Per sincerarsi di questo basta osservarlo quando ha segnato un goal: se ne torna verso il centro del campo a passi lunghi, scuotendo il capo basso, insensibile e quasi vergognoso per gli applausi che scoppiano da ogni parte”.

26. Nella Triestina che finì terza Rocco utilizzò 15 giocatori in tutto il campionato.

27. Aveva bisogno di una tana, di un posto sicuro. A Trieste era una trattoriola vicino a casa, Jeti. A Padova e a Milano un ristorante, Cavalca e l’Assassino. A Torino e a Firenze il baretto interno del Filadelfia e quello del Comunale.

28. Quattro delle “Cinque poesie per il gioco del calcio” Umberto Saba le scrisse sull’onda emozionale di una sola partite: Triestina- Ambrosiana, 6 ottobre 1933, finita 0-0. “Appena vide i rossoalabardati uscire di corsa tra il delirante entusiasmo della folla, il poeta si sentì perduto” (è Saba che scrive in terza persona). Meazza sbagliò un rigore, Rocco si scalciò con Pitto che lo sfotteva. Rocco, ha conosciuto Saba? “Lo vedevo spesso al caffè Tommaseo con Virgilio Giotti ma non ci siamo mai parlati”.

29. Rocco fece la fortuna di Herrera, e viceversa. Prima di loro, gli allenatori erano meno pubblici, più appartati. Come personaggi della commedia dell’arte i due compari se ne dicevano di tutti i colori. HH era il Matamoros un po’ spaccone, Rocco una specie di Bertoldo che lo rimetteva coi piedi per terra. Provocazioni, frecciate, polemiche, ma senza volgarità. Nel marzo del ’75 Rocco a Firenze soffriva di solitudine e incomprensioni varie. Gli arrivò una cartolina: “Coraggio caro amico, quante mone ci sono in questo mondo”. La firma: Helenio Herrera.

30. Una delle massime incomprensioni fu con l’attaccante Speggiorin. Arrivava la Juve di Bettega, a Rocco mancava l’amato stopper Galdiolo più un altro difensore. Giovedì, amichevole a Pontassieve, propose a Speggiorin di stare in difesa per poi giocare, una tantum, in marcatura su Bettega, e Speggiorin abbandonò lo stadio e poi telefonò protestando a Campana, presidente dell’Associazione calciatori. Commento di Rocco: “Posso prendere un terzino e metterlo all’ala e va tutto bene, ma se dico a un’ala di fare il terzino mi metto contro il sindacato”.
Per la cronaca, con la Juve Speggiorin non giocò e la Fiorentina vinse 4-1.

31. Per i rocchiani che non s’accontentano di questi crostini, segnalo “El Paron” di Giuliano Sadar (ed. Lint Ts, 1997) e “Nereo Rocco, la leggenda del paròn” di Gigi Garanzini (Baldini&Castoldi, 1999).

32. Su invito del Milan, dicembre ’78, Rocco segue la trasferta di Manchester. Una polmonite presa all’Old Trafford e una malattia epatica che indebolisce le difese dell’organismo lo portano in ospedale, a Trieste. Muore alle 11.47 del 20 febbraio, mattino freddo e luminoso. Ultime parole al figlio Tito, in un momento di lucidità: “Damme el tempo”. Come diceva in panchina, a Marino Bergamasco, a Maldini, a Mazzoni, agli sgoccioli delle partite.