Nello Saltutti e la pozione magica

”Se avessi saputo che per tutta quella roba avrei perso amici, e rischiato di morire anch’io, non credo che potendo tornare indietro, rifarei tutto da capo. E mi domando, se valga ancora la pena che un giovane sacrifichi tutta la sua vita per un calcio del genere”.

Si chiude così l’ultima intervista a Nello Saltutti pubblicata su ‘Palla avvelenata’, volume che corre parallelo all’indagine Guariniello (a sua volta ‘lanciata’ dalle famose dichiarazioni di Zeman nell’agosto 1998) sulle malattie e le morti sospette nel calcio. Fulcro del volume è la raccolta di interviste ai giocatori colpiti o ai loro familiari, ritratti personali e drammatici che costituiscono spesso un significativo j’accuse nei confronti del mondo pallonaro.

Nello Saltutti, già colpito da infarto alcuni anni or sono, risultava fra i più tenaci, espliciti e dettagliati accusatori del presunto fenomeno doping. Lo si evince dal testo dell’intervista.”È tornato Nello”, dicono i pensionati in adunata quotidiana davanti alla rotonda della Rocca Flea (Gualdo Tadino), quando lui imbocca la salita di casa. È tornato per sempre, la gloria gualdese, Nello Saltutti. L’eterno bomber baffuto oggi ha qualche capello in meno, raccolto in un codino da guerriero tartaro, ultima traccia di una gioventù sfumata. Ma lo spirito, quello resta giovane nonostante gli acciacchi di un cinquantenne cardiopatico che cerca di godersi la meritata pensione di calciatore. Il riposo del “Levriero”, sdraiato nel salotto di una casa enorme, dopo la solita corsa del pomeriggio: “12-13 km, giusto per tenermi in forma”. Footing leggero in compagnia di Rosalba, da 38 anni al suo fianco e consigliato dal dott. Coletti, il medico di fiducia: ”La maratona serve a smaltire i grassi e grazie ai suoi consigli ho evitato il bypass”.

Una scelta di cuore, come sempre, quella di Nello. Tornare a passeggiare tra gli orti e gli ulivi dove aveva mosso i primi passi nel 1947, per poi andar via. Agli inizi degli anni ‘50, suo padre Giuseppe, per sfuggire alla fame che a quei tempi circolava anche nell’odierna fiorente “ceramista” Gualdo Tadino, emigrò con la famiglia in Lussemburgo. Fatica nera di minatore, a sputare silicosi sul carbone, mentre il piccolo Nello si divertiva a giocare a calcio. ”Ho cominciato lassù, nei giovani dell’Esch-Sur-Alzette, la Juventus lussemburghese. Mi allenava un belga, un certo Berry, che appena presa la licenza media mi disse: ‘Nello che ci stai a fare qui? Prova a diventare un calciatore sul serio. Tornatene in Italia”’.
Quattordici anni e il cuore pieno di paura, come il Nino della “leva calcistica” di De Gregori, Nello convinse il padre a mandarlo un anno a provare a Firenze. ”Papà mi mandava 30 mila lire al mese per farmi mantenere in casa dello zio Aldo, guardia forestale, che mi incoraggiò nei vari provini che sostenni con il Prato e poi alla Fiorentina. Ma finì che mi scartarono“.

Bruciò quella bocciatura al piccolo Nello, ma lui aveva sette vite e si rimise in sella. Lavoro al mattino e allenamenti al pomeriggio nel Club Sportivo Le Cascine. Non era la Fiorentina, però, e in famiglia cominciarono a temere che con il calcio forse era meglio lasciar perdere. Quando una mattina, ecco avverarsi il primo miracolo della sua vita: un talent-scout della zona che stava per partire con il solito “carico” di belle speranze, da sottoporre all’attenzione degli osservatori del Milan. Nello finì tra i 400 aspiranti, ma non si smarrì. Sotto gli occhi vigili dei tecnici rossoneri si giocò fino all’ultima goccia di sudore tutte le sue chance di restare in Italia, ed evitare di finire in fabbrica o nelle miniere di Lussemburgo. “Ebbi la fortuna di giocare proprio sul campo dove stava Liedholm, che prendeva appunti su un taccuino“. Era l’inizio di un sogno, e dopo tanta gavetta nella formazione Primavera finalmente il 15 gennaio del 1967, l’esordio in serie A spodestando addirittura Sormani.

Con la freddezza del veterano, entrò nel tempio di San Siro al fianco di Rivera. Quel giorno il Milan affrontava il Bologna, e lui, come tutti i talenti baciati dalla buona stella, andò subito in gol. “Mi ricordo che Amarildo fece un tiro che attraversò tutta l’area piccola e io mi avventai più veloce dei terzini bolognesi e misi dentro. Poi loro pareggiarono, ma quel debutto con tanto di rete, fece talmente rumore che alla sera Enzo Tortora mi volle ospite alla Domenica Sportiva. Tanti complimenti e persino un autoradio in regalo, quando non avevo neppure la macchina… Sarebbe stata una serata fantastica, se non mi fosse ingenuamente scappata una frase in diretta: ‘Sorpreso? Beh io veramente sono uno abituato a fare gol’. Non l’avessi mai detto, Silvestri, arrivato nel frattempo al posto di Liedholm, mi aspettò al varco a Milanello e mi prese a calci nel sedere. Ai tempi, i giovani in prima squadra li trattavano così, mica come adesso. E poi inseguendomi minaccioso mi gridò: ‘Tu sei un montato, da adesso in poi non giocherai più”’. Minaccia mantenuta, perché poi quell’anno disputò solo un’altra partita. Pessima replica. Alla fine lasciava Milano con tanti rimpianti, ma anche con un gol in serie A. E 15 centimetri in più, per via di quelle prime “pozioni magiche” che imparò a sorseggiare in fretta.

Quando ero ancora nella Primavera già mi davano di tutto, l’infermeria del Milan era una cosa impressionante, e non so se sarà stato un caso, ma io da un metro e sessanta, in un anno ero passato ai miei 175 centimetri.. Strano no? All’epoca però non ho mai riflettuto su quella strana crescita. Mi infastidiva di più ripensare a Silvestri che mi mandò in prestito a Lecco, in serie B”.
Fece 8 gol che poi è rimasta la media di una vita, quella giusta di una punta guizzante che a Foggia venne valorizzata da un grande maestro del calcio italiano, mai troppo rimpianto. ”Al Foggia furono quattro anni meravigliosi, con quello che considero un secondo padre: Tommaso Maestrelli. Segnavo e giocavo bene e ricordo con tanta nostalgia mia madre Rotilia, tifosa scatenata in tribuna, che scendeva spesso dal Lussemburgo per venirmi a vedere. Tanti momenti di estrema complicità con Maestrelli e le sue lacrime sincere, quando con la sua Lazio nel sottopassaggio dello stadio di Firenze gli annunciai che mia madre stava morendo di un cancro al fegato a soli 55 anni. Qualche anno dopo, lo stesso male avrebbe ucciso anche lui…”.

Coincidenze maledette della vita. Eppure piacevoli casualità, come quel suo ritorno da giocatore nella Firenze in cui pensavano che non andasse bene per il calcio. Un trasferimento imposto da Liedholm, che lo riabbracciava uomo fatto. ”Cominciai male e le prime partite non c’era verso di vedere la porta. Allora una sera il mister mi chiama a casa e mi dice: ‘Nello preparati che ti passo a prendere con la macchina’. Una telefonata strana, e ancor più sospetto fu quando ad un certo punto si fermò in uno di quei ponti isolati di Firenze. Mi disse: ‘Scendi, che ci sta aspettando’. Non potevo credere ai miei occhi quando arrivammo. Mi aveva portato da una fattucchiera, per togliermi il malocchio. Poi seppi che quella era una pratica che faceva spesso, ma per me fu la prima e l’unica volta”.

Incantesimo sciolto. A partire dalla domenica seguente, fece sei gol in sette partite. Non aveva più segnato da quella partita amichevole in terra inglese, la gara più bella della sua carriera. Una prestazione da incorniciare, favorita forse, anche da un ‘caffè speciale’ bevuto prima di entrare in campo. ”Passò un thermos. Dovevamo bere, ci dissero, perché era un caffè e ci avrebbe fatto bene. Io non lo prendevo mai il caffè e non vedevo la ragione di cominciare proprio quella sera che giocavamo una partita così prestigiosa contro il Manchester United”.
E impresa fu. Saltutti con quel caffè bevuto a strozzo, diventò ancora più veloce del solito. Praticamente immarcabile. Fece il gol dell’1-1 e incantò persino i tifosi dei ‘Red Devils’ al punto che i tabloid britannici all’indomani titolarono il pari come la vittoria del ‘Levriero italiano’.
Quel caffè ci aveva fatto bene in campo, correvamo tutti il doppio. Il mattino dopo però all’aeroporto mi ricordo che avevamo certe facce. Le tenevamo tra le mani, distrutti, e non so se fosse solo per la fatica della gara. Quel caffè speciale, negli anni in cui poi sulla panchina viola arrivarono Gigi Radice e Nereo Rocco, si trovava tranquillamente sulla tavola imbandita, in bella vista con i flaconi delle pillole, le boccette con le gocce, flebo modello damigiane e punture a volontà. Tutta merce a necessaria disposizione dei giocatori, che si sottoponevano ad ogni trattamento per quieto vivere. Ma qualcuno, inconsapevole, ne abusava. Ero sempre in camera con Bruno Beatrice, amici inseparabili in campo e fuori, un fratello. Glielo dicevo sempre, Bruno non esagerare con quelle punture. Io non so quante se ne facesse fare, durante il ritiro era sempre sotto flebo, dal venerdì sera alla domenica; lo avevano convinto che con quelle avrebbe corso il doppio. Bruno, tanto per capirci, era uno che al naturale andava molto più forte di Davids, perciò gli chiedevo: ‘Ma che bisogno hai di farti iniettare tutte quelle schifezze?’ A noi dicevano: sono solo vitamine, prendetele e starete meglio. Ma chissà che ci davano invece…

Punture sgradite ma ingoiate, come le infiltrazioni di Voltaren potenziato o le pillole di Micoren. “l Micoren lo hanno tolto dal mercato nell’85, perché risultò estremamente nocivo, ma intanto noi ne avevamo fatte scorpacciate per vent’anni, senza che nessun medico ci dicesse niente, e con nessun tipo di problema per le analisi del dopopartita. I controlli antidoping, poi. A ripensarci quelli erano una barzelletta: sorteggi già preparati, con le urine messe in botticelle dove si allungava la pipì con tantissima acqua e la cosa finiva lì”.
Loro, i calciatori, complici di un gioco di cui non discutevano neanche e ignari di tutto. “Me le faccio per la carriera, per far star bene la famiglia un domani”, mi diceva il povero Beatrice. Io ci stavo più attento, ma più per punto preso che per effettiva convinzione”.

Intanto poi, lui c’è morto di leucemia, e io a 50 anni, per poco non ci resto secco con un infarto”. Una pratica lunga, quanto la sua carriera di calciatore che dopo la Fiorentina sarebbe proseguita alla Sampdoria, squadra costantemente in lotta per non retrocedere, quindi alla Pistoiese, compagno di squadra di Giorgio Rognoni, che sarebbe morto prematuramente di SLA. Ultima tappa nella carriera di Saltutti il Rimini, dove con 540 presenze tra A e B e 160 gol segnati, chiuse con il professionismo a 35 anni. Una pratica selvaggia, ma consentita e accettata da tutti, senza discussioni, e tanto meno atti di ribellione. “A dirla tutta, una volta quando ormai ero a fine carriera, nel Rimini, mi sono rifiutato di fare una puntura. Allora l’allenatore venne da me e mi disse a brutto muso: ‘Vorrà dire che oggi non giochi’. Finii a soffrire in panchina, in uno scontro decisivo per la salvezza contro il Palermo. Visto però che dopo 45’ eravamo sotto di due gol nel secondo tempo mi mandarono ugualmente in campo. Ero pulito, eppure corsi ugualmente e sfiorai più volte il gol. Questo a dimostrazione che anche senza punture si poteva giocare bene“.

Saltutti finito con il professionismo ha continuato a giocare fino a 44 anni. “L’ultima partita è stata con il Nocera Umbra, dove ero partito come allenatore“. Stupiva il vecchio Levriero e gli toccava correre ancora dietro ad un pallone per mantenere una famiglia, moglie e tre figli, sfoderando tutto il repertorio di gol a tuffo d’angelo o le rovesciate che dopo quelle di Parola, divennero “alla Saltutti”. Ma l’ultima rovesciata, quella decisiva gli è toccata farla al suo cuore: “Ho fatto sempre una vita da atleta scrupoloso. Mai bevuto o fumato, solo tanto allenamento, una alimentazione attenta e controllata, e quindi l’infarto di quattro anni fa fu veramente un fulmine a ciel sereno, ed ho temuto fortemente di morire. Ce l’ho fatta a scamparla e adesso sono convinto che gran parte della responsabilità del mio cuore sfasciato sia dipesa da quelle porcherie che ci hanno somministrato in tutti quegli anni. Quello che fa male è vedere che la situazione oggi è peggiorata e ci troviamo davanti ad una realtà che è diventata insostenibile e sulla quale è tempo di fare chiarezza. Occorre andare alla fonte. Cominciare a controllare quello che circola nelle infermerie delle società, perché è lì che parte tutto il marcio. Credetemi, i calciatori sono quasi sempre delle vittime, l’ultimo anello di una catena che parte dai dirigenti e qualche volta anche gli allenatori, che concordano il da farsi con lo staff medico. Personalmente continuo ad avere molta fiducia in Guariniello, ma ho anche il timore che gli interessi troppo alti che ci sono in gioco possano far insabbiare la verità. Io ho l’unica consolazione di poterla raccontare ancora, la mia storia“.

Una brutta storia, quella di uomini come Saltutti che hanno perso il sonno, un amico e molto di quell’entusiasmo di un tempo. “A volte la notte mi sveglio e non riesco più a dormire. Allora vengo in sala, mi siedo su questo divano e penso per ore a tante cose: a come è finito Bruno, al fatto che non so come andrà a finire questa mia vita. Se avessi saputo che per tutte quella roba avrei perso amici, e rischiato di morire anch’io, non credo che potendo tornare indietro, rifarei tutto da capo. E mi domando, se valga ancora la pena che un giovane sacrifichi tutta la sua vita per un calcio del genere”.
(Tratto da Palla avvelenata – morti misteriose, doping e sospetti nel mondo del calcio di Fabrizio Calzia e Massimiliano Castellani – Bradipolibri)

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