Senegal 2002: la fantasia al potere

Il Senegal ai Mondiali 2002: un messaggio di speranza per chi crede che ancora oggi nel calcio si possa ancora prendere a pedate un pallone con spensieratezza, istinto, coraggio, allegria. Per poi vedere l’effetto che fa.


Il Senegal che elimina con il golden gol la Svezia e arriva ai quarti del Mondiale, seconda squadra africana dopo il Camerun 1990, non è stato soltanto una grande pagina di storia del calcio africano. E’ stato soprattutto uno schiaffo al calcio dei musi lunghi, dei silenzi-stampa, dei ritiri-bunker, dei tatticismi esasperati. E’ stato un messaggio di speranza per chi crede che ancora oggi nel calcio si possa ancora prendere a pedate un pallone con spensieratezza, istinto, coraggio, allegria. Per poi vedere l’effetto che fa.

Il Senegal delle meraviglie comincia il Mondiale 2002 dal 42″ posto della classifica Fifa: delle 32 in campo in Corea/Giappone peggio soltanto la Cina. Un anno e mezzo prima, però, a fatica entrava nelle prime 100 posizioni. Colpa di una federazione senza soldi né idee e di un ct, il tedesco Peter Schnittger, che facendo il sergente di ferro era riuscito a perdere uno dopo l’altro tutti o quasi i migliori «Leoni», talentuosi ma poco disciplinati. Rigido nella disciplina, nella tattica e nei costumi, mpediva ai giocatori capelli lunghi e perline, ne frustrava il talento con un gioco ultradifensivo e, bestemmia, vietava le cuffie stereo che sono una protesi di ogni senegalese che si rispetti. «Raus», fuori, pretesero i giocatori minacciando di boicottare il Mondiale.

Cambia tutto nel novembre del 2000. Addio a Schnittger, avanti con Bruno Metsu, segni particolari: mentalità aperta. Un tipo che ricorda un po’, alla lontana, il Menotti del 1978. Capello lungo e ondulato, occhi azzurri, chiarissimi, fisico da culturista, il classico tipo che ti aspetti sia maestro di sci d’inverno e skipper d’ estate. Nato a Koudekerque, in Francia, nel 1954, ha giocato nel Dunkerque e poi nel Lilla, nel Valencienne, nel Nizza, nel Beauvois e, per un breve periodo, anche nell’ Anderlecht.

Prima di salire in sella al Senegal aveva allenato il Sedan, il Valencienne e la Guinea. Si definisce «un bianco col cuore da nero», uno che l’Africa del calcio l’aveva appena conosciuta guidando nei 5 mesi precedenti la Guinea. Costava poco (20 mila euro al mese), darà tantissimo. Lui, francese, sa subito parlare al cuore dei Leoni, tutti in campo in Francia. Riallaccia il dialogo con i club che li stipendiavano e che si erano stufati di mandare i loro gioielli neri a prendere bastonate in Africa. Lui, uomo di mondo semplice e pure un bel po’ ruffiano, capisce che con certi tipetti sarebbe stato meglio fare il compagnone più che il ct.

Bruno Metsu, il profeta del Senegal

«Non avevamo bisogno di un poliziotto bensì di uno come noi – ricordano Cissé, Diouf ed eroica compagnia – Di uno che desse consigli, non ordini; che sapesse motivarci». Metsu si cala al volo nel ruolo. Impara a parlare il wolof, sposa una senegalese, si converte all’Islam (adesso per i Leoni è Abdul Karim) e, con una buona dose di pragmatismo e un’infinità di «Amoul solo» («Non c’è problema»), di un gruppo moribondo ne fa una solida famiglia, una squadra vera che comincia a vincere a ripetizione: qualificazione al Mondiale, finale di Coppa d’Africa persa soltanto ai rigori contro il Camerun, e poi lo storico ingresso nei quarti del Mondiale.

Nel mezzo, il primo ricco contratto (6,2 milioni di euro) con la ditta francese che fornisce le divise da gioco. Tutto con grande naturalezza. Senza stress, sdrammatizzando, ridendo, pure improvvisando. Un simbolo? Innanzi tutto, il ritiro mondiale. Prima in Corea e poi in Giappone, un hotel sempre aperto, a tutto e a tutti. Mogli, fidanzate e parenti dei giocatori, ma anche giornalisti e fans. Autogestione totale, massima responsabilizzazione.

«Prima di giocare contro la Francia sono andato a dormire alle 4 di mattina – confessava candidamente Diouf -. Non avevo sonno: cosa avrei dovuto fare?». Era festa continua, in casa Senegal. Sono i tifosi a preparare da mangiare, a suonare i tamburi per i balli tribali che scatenano i giocatori. Vivono tutti insieme. Anche i 20 giornalisti, che hanno finito i 20 mila dollari concessi dal presidente Abdoulaye Wade per raccontare a 9 milioni di compatrioti la prima avventura mondiale dei Leoni. Pure i medici che avevano esaurito il materiale sanitario (pensavano di rincasare prima…) e che possono continuare a lavorare grazie alle scorte inutilizzate avute in regalo dai colleghi francesi (loro sì già rientrati…).

Persino Linguel Ngoy Mbaye, il «marabout» capo, lo stregone ufficiale che, sussurra qualcuno, all’inizio dei supplementari contro la Svezia ha messo del suo per deviare sul palo il tiro a botta sicura di Anders Svensson. Il golden gol, invece, lo ha segnato al 104′ Henri Camara, 25enne nuovo eroe nazionale, un fulmine che gioca nella B francese, a Sedan. Aveva già bucato Hedman nel 1″ tempo. Dopo la sua storica doppietta dice: «La dedico a mia mamma e al popolo senegalese». Ed è volato in hotel, a far festa con il resto della banda. Con un altro eroe quasi per caso: Tony Silva, 27enne portiere rivelazione. Dal 1993 al Monaco, che continuava a prestarlo in giro. Nell’ultimo campionato prima del mondiale nippo-coreano, Deschamps lo teneva per fare il vice del vice. Morale: due sole presenze nel finale. Poi, un Mondiale da favola.

El Hadji Diouf nello sfortunato match contro la Turchia

I CAMPIONI DI BRUNO METSU

El Hadji Diouf
Genio e sregolatezza, testa calda e gambe alla dinamite. I suoi gol hanno portato i Leoni di Metsu al Mondiale e alla finale della Coppa d’Africa, e il Lens a un soffio dallo scudetto francese, perso all’ultima giornata a Lione. In cambio, lui, bimbo prodigio musulmano, ha incassato il Pallone d’Oro 2001 del Continente Nero. Il suo carattere ribelle e la lingua fin troppo sciolta, in compenso, qualche problemino gliel’hanno causato. Sui campetti polverosi dì Saint-Louis, la sua città che sta 270 km a Nord di Dakar, se non vinceva, menava. A Rennes, stanchi delle sue notti brave (discotecaro fisso, un crash in auto senza patente), lo hanno scaricato. A Lens, ammaliati dal suo talento cristallino, ne hanno sopportato gli eccessi, puniti di tanto in tanto con una multa.

Persino in Senegal, dov’è un mito e tutto o quasi gli è concesso, c’è chi ha osato contestagli il suo comportamento perlomeno disinvolto: «Per il tuo bene, ti devi calmare – gli hanno consigliato i suoi tifosi in un’affollatissima chat premondiale -. Cerca di essere più modesto, dì fare una vita più normale, di non protestare continuamente con gli arbitri». La replica, in perfetto stile Diouf. Franca, diretta: «Rassegnatevi: dovete prendermi come sono. E giudicarmi soltanto per quel che combino in campo». E poi ancora: «Sì, è vero, non sempre seguo le regole dell’Islam. Ma sono giovane e prego molto: so che il buon Dio mi perdonerà».

Non cambierà mai, il «piccolo ribelle»: «Ero un teppista, sono un idolo». In Francia ha imparato in fretta a omologarsi agli altri calciatori di grido: look giusto con un filo dì capelli platinati e il brillante al lobo sinistro; la fidanzata-bellona (Valerle, ex Miss Senegal) da mettere in vetrina. Nessuno, però, è ancora riuscito a insegnargli a rimanere allineato e coperto quando apre bocca, come fan tutti ì colleghi. Giusto un mese prima del mondiale, ad esempio, sparò un siluro contro la sua federazione : «Ci ha preparato un pre-Mondiale che è una farsa, non è stata capace di trovarci avversari seri. La verità è che noi siamo una Nazionale di professionisti, ma troppi nostri dirigenti sono dilettanti allo sbaraglio».

Lo splendido mondiale gli servì per cancellare una macchia che sembrava indelebile: fu lui, l’11 febbraio 2002, a sbagliare uno dei due rigori che fecero perdere ai Leoni la finale dì Coppa d’Africa contro il Camerun. Per preparare l’exploit nippocoreano, andò a caricarsi a casa. Un pomeriggio a Saint-Louis, una toccata e fuga in elicottero, accompagnato da allenatore e fidanzata. La città si fermò: tutti a festeggiare il loro eroe. Che nell’occasione ha rivisto gli amici dei suoi primi 14 anni, che ha riabbracciato la sua grande famiglia: tre fratelli, due sorelle, tanti zii e nipoti ma più dì tutti nonna Fagueye Fall che lo ha cresciuto in assenza dì mamma Seynadou (lavorava in Mauritania) e del papà ex calciatore (vive in Portogallo).

Soprattutto, Diouf è tornato dal suo «marabout», dal suo stregone personale. Lo aveva «curato» dopo il rigore sbagliato contro il Camerun; lo aveva benedetto prima del volo in Corea. Diouf è sempre stato generoso con tutti. Lo è sempre stato. Con i primi soldi, una casa a due piani per i suoi, l’auto e il pellegrinaggio alla Mecca per l’adorata nonna. Con i prossimi, anche il «Museo Diouf»: la slabbrata casa natia, di tufo e latta, dove oggi vìve lo zio Abou Diallo, trasformata in una metà per fans è turisti. Perché tutti possano sapere dove e come è iniziata la travolgente storia del «piccolo ribelle» che sognava in grande.

Henri Camara realizza la rete che regala al Senegal i quarti di finale

Henri Camara
Nasce a Dakar e cresce calcisticamente in Senegal prima di essere «scoperto» dai francesi dello Strasburgo. Dirottato in Svizzera, fa bene nel Neuchatel e benissimo nel Grasshopper, col quale vicne lo scudetto. Poi, torna in Francia, al Sedan, squadra di calciatori-operai, nella quale tanti giocano per passione, dove ha lavorato anche Bruno Metsu, l’allenatore del Senegal, e dove gioca anche Diao, suo compagno in nazionale. Nel campionato premondiale Camara si era visto poco, 21 partite, 7 gol. Ma costante era stata la sua presenza in nazionale.

Dicono che quando ha il pallone fra i piedi corre come una motocicletta. Lo chiamano il «missile del Senegal». E contro la Svezia dimostra che è tutto vero. Lo amano molto, anche se lui non fa molto per farsi amare, a parte i gol. Appena arrivato in Giappone, aveva pure lui qualche perplessità: «Dobbiamo aspettare per confrontarci con gli altri – aveva detto – Noi ci siamo preparati… un po’ così, come sappiamo fare, a modo nostro. Non abbiamo giocato neppure una vera amichevole impegnativa…». Poi, quando c’ è stato da fare sul serio, hanno cominciato battendo la Francia campione uscente e la Svezia negli ottavi. E pensare che al Mondiale, lui, non voleva nemmeno venire, dopo i fischi dei suoi tifosi alla Coppa d’ Africa. «Poi mi ha convinto mia madre. Mi ha detto: guarda figlio mio, non è sempre domenica, queste opportunità non arrivano ogni giorno…».

Dopo i due gol alla Svezia negli ottavi di finale, Camara diventa una gloria nazionale come Amy Mbackè Thiam, la prima donna senegalese medaglia d’oro a un Mondiale di atletica leggera (400 metri), o come il presidente della Federazione internazionale di atletica leggera Lamine Diack, ex giocatore di calcio e volley, campione francese di salto in lungo nel 1958, persino allenatore della nazionale di calcio dal ’66 al ’69: «I nostri giocatori sono forza e agilità, perché tutta la nostra vita è stare in equilibrio tra deserto e foresta».

LA STORIA: Dentro il miracolo Senegal

La scuola calcio di Dakar: tre tecnici, una cuoca, letti a castello e un pullman rotto Tra gli ex allievi del centro fondato nel 1992 sei nazionali. Appena 120 mila euro all’ anno per formare i giovani calciatori

Estratto dalla Gazzetta dello Sport, edizione del 18 giugno 2002

DAKAR (Senegal) – Alle spalle del quartiere popolare della Medina, della città universitaria e ad un tiro di schioppo dalla passeggiata dei «Leoni» dove da due settimane ormai, giorno e notte, migliaia di senegalesi davanti allo schermo gigante messo a disposizione dalla presidenza della Repubblica seguono in diretta e differita gli exploit dei loro idoli, al numero 15 del Boulevard du Sud c’è una palazzina di due piani con un piccolo giardino, dove il telefono squilla in continuazione. A tutte le ore del giorno e della notte, per via della differenza del fuso orario con l’Asia, Abdoulaye Atta Ndyae, riceve le chiamate di Tony Silva, Salif Diao, Moussa Ndiaje, Papa B. Thiaw, Amdy Faye e Souleymane Camara, i sei nazionali che hanno frequentato il modesto centro di formazione dei giovani calciatori africani, fondato, in collaborazione con il club del Monaco nel 1992, dall’italiano Aldo Gentina e di cui Abdoulaye Atta Ndyae è il direttore da qualche anno.

La palazzina, poco più di 300 metri quadrati, è situata al centro del quartiere residenziale «Point E» dove abitano ambasciatori ed ex ministri, ospita una ventina di giovani calciatori ed assicura ogni stagione la formazione di altri quaranta giovani che frequentano i corsi da esterni. «Grazie ai risultati della nazionale senegalese, spiega Atta Ndyae, il nostro modesto centro di formazione che vivacchia grazie alla sovvenzione del club del Principato di Monaco al quale siamo legati da un accordo e che può esercitare a fine di ogni stagione il diritto di opzione sui nostri giovani elementi, è entrato a far parte del gotha mondiale. Come quello dei grandi club francesi. Certo i mezzi che abbiamo a disposizione sono ridicoli rispetto alle scuole dei club europei, ma nonostante tutto grazie al talento dei nostri ragazzi e dei nostri tecnici siamo riusciti dopo anni di anonimato a far sapere al mondo che esistiamo».

Effettivamente i mezzi a disposizione della scuola di calcio di Dakar sono ridicoli. Appena 120.000 euro all’ anno che permettono a mala pena di pagare l’ affitto della palazzina, il telefono, una piccola indennità a tre tecnici e alla cuoca Alima. «Per il resto ci arrangiamo, sottolinea il direttore. Abbiamo un vecchio autobus con il quale trasportiamo le tre squadre che partecipano alle competizioni regionali. E di tanto in tanto riceviamo delle piccole sovvenzioni che ci permettono di finire il mese. La nostra è una sfida giornaliera. Non abbiamo campi d’ allenamento né disponiamo di strutture tecniche ma solo di tanta buona volontà e della passione dei tanti che ci danno una mano e che mettono a disposizione le loro competenze per aiutare i nostri ragazzi a realizzare il sogno della loro vita. Quando ci invitano, partecipiamo a piccoli tornei interregionali ed internazionali e per il materiale tecnico ci arrangiamo. I ragazzi si allenano qui intorno, in strada, sui campetti di fortuna, con scarpette o senza. Dipende dai periodi. Ma non ci siamo mai sentiti inferiori a nessuno. Non viviamo nel lusso ma viviamo comunque bene e i ragazzi qui sono felici».

Atta Ndyae ci mostra prima una decina di album con centinaia di fotografie: l’inaugurazione ufficiale del centro, il viaggio premio a Montecarlo nel lussuoso centro di formazione che ha visto crescere Trezeguet e Henry, la partecipazione al Torneo di Romans, in Francia, dove la squadra dei cadetti di Dakar, nel 1999, ha vinto il trofeo degli Under 17 di fronte a squadre più ricche. Poi ci invita a visitare i locali. Un salottino con un vecchio televisore, due sofà, una minuscola biblioteca e una lunga mensola dove sono disposti i trofei conquistati. Le pareti sono tappezzate con le foto degli eroi della scuola. Di fianco al salottino c’è la cucina, il regno di mamma Alima, e il refettorio con tre modeste tavole ricoperte da una tela cerata. La zona notte è al primo piano. Le camerette sono minuscole e più che spartane e in ognuna sono disposti dei lettini a castello in modo da ospitare fino a cinque persone. Né tv, né radio, ne comodini. I servizi, naturalmente, sono in comune come la doccia.

«I ragazzi – precisa Atta Ndyae – stanno bene così. E quello che offriamo loro e più che sufficiente. Ma tra breve, quando verrà costruito a Ngor il nuovo centro di formazione, con liceo, campo sportivo e campetto per il basket sarà tutt’ altra cosa». Ma per il momento, lascia intendere il direttore della scuola, ci accontentiamo e sopravviviamo senza complessi. «Non riceviamo nessun finanziamento pubblico e forse è meglio così. Siamo poveri, ma indipendenti. E fieri di realizzare con il poco che abbiamo a disposizione qualche piccolo miracolo alla fine di ogni stagione. Ricevere le telefonate dei nostri ragazzi che sono in Giappone, sapere che si ricordano di noi e che continuano a guardare lontano ci fa un immenso piacere. E pensare che fino a qualche anno fa quei ragazzi che ora stanno scrivendo pagine straordinarie nella storia del calcio africano dormivano in queste modeste camerette e giocavano nel campetto di fortuna qui di fronte è per noi tutti un immenso riconoscimento».