SERGIO CLERICI – aprile 1976

Sergio Clerici, un professionista serio, un uomo in gamba un «vecio» giovanissimo che vuole giocare a Bologna fino a far dimenticare tutti i centravanti che lo hanno preceduto. Vediamo come…

Intervista Guerin Sportivo aprile 1976


BOLOGNA – Sabato scorso, mentre tutti i suoi compagni erano al cinema in gruppo, Sergio Clerici detto «Gringo», solo soletto, era a vedere «Apache» in una sala del centro bolognese. Ed è stato forse assistendo alla storia contestatrice di un bianco che viene ucciso per aver salvato una donna indiana, che il «gringo» si è caricato in vista del match della verità contro il Napoli nei cui confronti, se non acredine, certamente il giocatore brasiliano nutriva un deciso desiderio di vendetta. Bisogna infatti sapere che quando Ferlaino lo cedette al Bologna quasi come contentino per condurre in porto l’acquisto di Savoldi, Clerici era in vacanza a casa sua, a San Paolo.

«E quando seppi di essere stato venduto ai rossoblu — dice — mi arrabbiai e non poco perché di tornare a Bologna non ne avevo proprio voglia. A Napoli, infatti, mi trovavo benissimo; con Vinicio e Canè avevamo dato vita a un trio-Brasil tutto samba e poi, sotto le Due Torri, avevo vissuto uno degli anni peggiori della mia vita, sempre alle prese con il fantasma di Nielsen e con un pubblico che mi vedeva come il fumo negli occhi».
Adesso invece, questo stesso pubblico per lui stravede e la domenica allo stadio, si spella le mani per applaudirlo.
«Sinceramente — dice adesso che è diventato un beniamino del pubblico rossoblu e che a Bologna si è ambientato ai meglio — l’inizio è stato duro. A una certa età, infatti, sbagliare non è più possibile: non se ne ha più voglia e poi il tempo che resta per eventuali recuperi è sempre minore. Ad ogni modo, ho stretto i denti e i risultati, mi pare, sono arrivati».

Clerici quindi (o Clerice come c’era scritto sui documenti brasiliani: ma di questo parleremo più avanti) a Bologna sta vivendo la sua seconda giovinezza: «E voglio che duri — aggiunge — perché non mi sono mai sentito bene come adesso»; una seconda giovinezza che lo ha riportato alla ribalta del nostro calcio.
«E’ vero. E di questo debbo dire grazie un po’ a tutti, prima di tutti a Pesaola in cui ho trovato non solo un ottimo tecnico ma anche un vero amico, come Vinicio d’altro canto».
— A proposito di Vinicio e Pesaola: ci sono differenze tra i due?
«Una soprattutto: mentre Luis è uno che lavora, lavora e ancora lavora, Pesaola è uno che lavora si, ma che cerca anche di divertirsi per cui, alla fine, si diverte anche chi è alle sue dipendenze».

— Senta Clerici, in fondo al suo nome, c’è sempre stata una “i” oppure prima che lei arrivasse in Italia c’era una e come a suo tempo sostenne chi dubitava sulla sua origine italiana?
«Prima di tutto una precisazione: sono nato in Brasile ma i miei nonni sono di origine italiana: milanese quello da parte di mio padre; toscana quello da parte di mia madre. Solo che quando mio padre chiese la cittadinanza brasiliana, l’impiegato dello stato civile fece diventare Clerice il suo cognome. E quindi anche il mio».

— Per quale ragione?
«Questo poi non lo so: so solo che andò così».


— Ma lei dove è nato esattamente?
«A San Paolo ed è stato lì che ho cominciato la mia carriera di calciatore nella squadra ragazzi del National ACI. A 17 anni, dopo il mio debutto in A, passai al Palmeiras per disputare il campionato paulista. La mia milizia nel Palmeiras, però, fu molto breve in quanto andai militare e qui mi capitò un grosso colpo di fortuna: il mio comandante era il generale Mauricio Cardoso che contemporaneamente era anche l’allenatore della Portuguesa Santista. in tale sua seconda veste, Cardoso mi chiese in prestito per la sua squadra al Palmeiras e così, mentre da un lato feci un militare di… pacchia, dall’altro mi feci conoscere preparando il mio “espatrio” in Italia».

— Dove arrivò…
«Nel ’60 al Lecco di Ceppi che per me fu una specie di secondo padre. Con la maglia nerazzurra disputai sei campionati e mezzo di cui 4 in B. Da Lecco passai a Bologna e poi a Bergamo, Verona, Firenze, Napoli e adesso di nuovo Bologna».

— Sette trasferimenti non sono pochi tanto più che, tolta la (unga parentesi col Lecco, non è che lei si sia mai fermato molto nella stessa squadra. Perché?
«E chi lo sa! Forse perché tutti sono convinti che io, dopo un paio di campionati, ho bisogno di cambiare aria mentre invece non è assolutamente vero».

— Questo vuoi dire forse che lei spera di restare a Bologna ancora per molto…
«Visto come vanno le cose, se stesse in me, vorrei restare dove sono sino a quando smetterò».

— E cioè?
«Per altri due o tre anni come minimo».

— E se dovesse smettere prima, che cosa le piacerebbe fare?
«L’allenatore di squadre giovanili. A Napoli, ad esempio, dove un posto per me c’è sempre».

— Come tecnico o come giocatore?
«Come tecnico! Come giocatore, infatti, loro hanno Savoldi e scusate se è poco!».

— Da quello che si è visto durante tutto il campionato ed anche domenica scorsa, diremmo che il Napoli, a fare il cambio, ci abbia rimesso…
«Indubbiamente entrare negli schemi di Vinicio è difficile soprattutto per uno come Beppe che è un rapinatore di gol e non un giocatore di manovra. D’altro canto, però, giudicare un giocatore nuovo per quello che fa nel primo campionato è sempre sbagliato».

— Lei però, negli schemi del Bologna c’è entrato subito.
«E’ vero: però diciamo che sono più semplici di quelli del Napoli».

— Ma non sarà piuttosto perché lei sa giocare meglio di Savoldi?
«Io e Beppe siamo troppo diversi perché si possa fare un paragone, lo gioco di più la palla; lui è più pericoloso sottorete».

— Anche quest’anno?
«Bé, forse quest’anno no. Aspettiamo, però, prima di giudicare definitivamente».

— Lo sa che a Napoli quelli che la rimpiangono sono in larghissima maggioranza?
«Gran bella città, Napoli, io mi ci sono trovato benissimo e tra i tifosi avevo i miei migliori amici. Anche per Beppe, però, sarà così. Quest’anno forse no; più avanti certamente».

— A condizione che faccia gol, però.
«Ne farà, ne farà: aspettiamo, quindi, prima di dirgli che è un brocco».

— Un brocco no, ma nemmeno uno in grado di sostituire Clerici facendolo, dimenticare. Lei, invece, in questo ci è riuscito: per merito di chi?
«Del mio allenatore prima di tutti e poi dei miei compagni».

— Nessun merito, dunque, da parte sua?
«Soltanto uno: l’applicazione e la serietà».

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