SEELER Uwe: una vita nell’Amburgo

Lo hanno sempre chiamato così “Uns Uwe”, “il nostro Uwe”. Da ragazzino, quando prese il posto in Nazionale ad uno del campioni del Mondo del 1954, Ottmar Walter, fratello del grande Fritz , e da campione maturo quando spendeva gli ultimi spiccioli di una grande carriera nell’Amburgo. “Uns Uwe” per tutti. Per i suoi tifosi e per quelli avversari; in un calcio, quello tedesco, nel quale le divisioni sono sempre state nette quasi quanto da noi, Uwe Seeler ha rappresentato un’eccezione.

Per lui solo applausi su tutti i campi di Germania, un amore assoluto da Amburgo a Monaco di Baviera, da Norimberga a Dortmund, da Stoccarda a Dusseldorff, da Gelsenkirchen a Colonia, per “Uns Uwe” le divisioni di maglia scomparivano. La sua popolarità era così grande che quando giocava la Nazionale, della quale divenne presto il giocatore più rappresentativo un “trait d’union” fra Fritz Walter e Beckenbauer i due capitani Campioni del Mondo, i tifosi in qualunque stadio tedesco si giocasse incitavano la squadra scandendo il grido “Uwe ! Uwe !”.

Se a fine carriera il testimone di “leader” nel “Nationalmannschaft” passò naturalmente nelle mani di Beckenbauer, nessuno ne ha mai ereditato l’amore incondizionato che gli riservavano i tifosi.
Non l’ha fatto Beckenbauer, fischiatissimo in molti stadi della Germania che è diventato “Kaiser Franz” , non “Uns Franz”, e anche questa è un’indicativa differenza. Uno, Beckenbauer, era un calciatore fortissimo ed ammiratissimo, ma distante; e veniva ” identificato come un superiore, un simbolo del potere.

L’altro, Uwe, era stato amato come un fratello maggiore, uno di loro che giocava a calcio per loro. Con questa particolare caratteristica Uwe Seeler ha rappresentato un’epoca del calcio tedesco, l’epoca nella quale il calcio non era ancora quello sport “che si gioca con un pallone in undici contro undici ed alla fine vincono sempre i tedeschi” come avrebbe detto trent’anni dopo Gary Lineker.

In quegli anni, dal 1958 al 1970, in campo internazionale il calcio tedesco è un calcio “che perde”, ed oltretutto Uwe gioca in una squadra, l’Amburgo, che non vince molto neanche in campo nazionale. A fine carriera il suo palmarès sarà molto risicato in confronto a quello dei campioni con cui viene spesso affiancato: un titolo nazionale, nel 1960, una Coppa di Germania tre anni dopo.

Anche in campo internazionale una lunga collana di sconfitte, talvolta anche mortificanti: una finale Mondiale persa a Wembley nel 1966, in un modo che la dice lunga anche sul “peso politico” della Federazione tedesca che non è ancora una delle potenze calcistiche mondiali ed una finale di Coppa Coppe persa col Milan di Rocco, a Rotterdam, nel 1968. Non bastasse questo, chiude la carriera in Nazionale con la sconfitta più amara nella semifinale dell’Azteca ai Mondiali di Messico 1970. La partita contro gli azzurri chiude amaramente il suo quarto ed ultimo Mondiale a quasi trentaquattro anni .

In mezzo poca fortuna, grandissime prestazioni, addirittura leggendarie, ma più sconfitte che vittorie. Eppure “Uns Uwe” è il simbolo del calcio tedesco e lo rimane anche dopo aver attaccato le scarpe al chiodo . Nel 1974, da ex-calciatore, è il tedesco più applaudito. Quando durante la cerimonia inaugurale dei Mondiali tedeschi si presenta assieme a Pelè, che tiene in mano la Coppa Rimet, con la nuova Coppa FIFA per una simbolica staffetta fra i due trofei, il pubblico non resiste e sale al cielo il grido “Uwe! Uwe!”. Un grido che qualche giorno dopo riempirà anche lo stadio di Amburgo che fischia Beckenbauer e Muller, amati solo per le vittorie.

Ma cosa ha portato questo giocatore a diventare un idolo così totale? Sicuramente le sue doti caratteriali oltre a quelle tecniche. Uwe è un lottatore indomabile, ma in campo è anche di una correttezza esemplare, è un trascinatore per natura e diventa uomo-squadra sin da giovanissimo. Sul piano agonistico non teme confronti; coraggioso al limite della temerarietà, è uno specialista in acrobazia e soprattutto nel colpo di testa, la sua specialità.

Dotato di un fisico compatto, non molto alto, ma di complessione tale da apparire addirittura tarchiato, Uwe Seeler ha due molle d’acciaio al posto delle gambe. I suoi stacchi da fermo sono impressionanti, la sua inconfondibile “pelata” (è praticamente calvo sin da giovane) svetta spesso nelle mischie, oppure sbuca ad incornare palloni impossibili in mezzo a selve di minacciosi tacchetti.

Il pubblico tedesco se ne innamora subito, nell’ottobre 1954, non ancora diciottenne, esordisce in Nazionale ad Hannover contro la Francia, poi esce di squadra. Vi ritorna nel 1958 per giocare i Mondiali di Svezia da titolare a soli ventidue anni nella Nazionale che difende la Rimet conquistata quattro anni prima a Berna e segna subito il suo primo gol nella gara d’esordio contro l’Argentina.
Fa coppia con “Der Torpedo”, Rahn l’eroe della finale con l’Ungheria, e si adatta perfettamente a fare da apripista. Alla fine del torneo segna due reti e risulta uno dei migliori della Germania che sfiora la finale col Brasile.

Ma la sua consacrazione arriva nella Coppa Campioni ’59-’60 quando guida l’Amburgo, dove gioca anche suo fratello Dieter, fino ad un drammatico spareggio col grande Barcellona di Suarez, Kocsis e Czibor per l’accesso alla finalissima col Benfica. Sono tre partite intensissime, drammatiche. Dopo una sconfitta per 0-1 a Barcellona, in un Volksparkstadion stracolmo di 70.000 tifosi entusiasti, proprio Uwe completa la rimonta quando mancano poco più di venti minuti alla fine coronando con il gol una prestazione maiuscola.

Il favoritissimo Barcellona, la squadra più potente d’Europa assieme al Real Madrid, vacilla sotto i colpi di un outsider come l’Amburgo guidato da quel centravanti tarchiato e coraggiosissimo che sembra capace di tutto infiammando il pubblico ed incoraggiando i compagni, lui, il più giovane. Sembra fatta, ma all’ultimo tuffo un gol di Kocsis, che precede di pochi secondi il fischio finale, manda le due squadre alla “bella” di Bruxelles dove, sette giorni dopo, la maggior esperienza blaugrana condanna i tedeschi all’eliminazione.

C’è chi racconta che, alcuni emissari dell’Inter che sono ad Amburgo per seguire Suarez in procinto di passare all’Inter, restino colpiti dalla potenza di quel centravanti e lo riferiscano a Moratti padre che ne dispone l’acquisto. L’offerta è di quelle che una società come l’Amburgo dell’epoca non può rifiutare, per non parlare poi dell’ingaggio “italiano”, nemmeno paragonabile con quello che Seeler percepiva in quei primissimi anni’60 nel calcio tedesco.

Ma “Uns Uwe” non vedrà mai San Siro; rifiuta l’offerta per amore della sua maglia e i tifosi non lo dimenticheranno mai. Resterà tutta la vita nell’Amburgo, unico Club professionistico del quale abbia mai vestito la maglia, regalandogli, in diciotto stagioni (dal 1954 al 1971), la cifra incredibile di 523 reti in 595 gare ufficiali. Nel solo campionato tedesco segna 444 reti in 519 partite, risultando il più prolifico goleador tedesco di tutti i tempi.

Anche in Nazionale non scherza: 72 presenze e 43 reti e può vantarsi di essere, assieme a Pelè, l’unico calciatore ad aver segnato in tutte e quattro le fasi finali dei Mondiali cui ha partecipato con un totale di 9 reti in 21 gare, un altro record, quello del maggior numero di partite nelle fasi finali dei Mondiali, sottrattogli solo recentemente dal Lothar Matthaus. Numeri (impressionanti) a parte Uwe Seeler è restato nella memoria e nel cuore dei suoi tifosi e di tutti gli sportivi tedeschi per il suo personaggio, la sua modestia, la sua schiettezza e la sua umanità.