SCIFO Vincenzo: storia di un quasi-campione

Troppo italiano per essere belga, troppo belga per essere italiano, troppo bravo per essere normale, troppo incompleto per essere fuoriclasse. Il destino di Vincenzo Scifo è fermarsi a due passi da qualcosa di definitivo in una strana atmosfera di incompiutezza. Queste poche righe servono per raccontare una storia perennemente in sospeso, fatta di rimandi e promesse non mantenute. La storia di un ragazzo con sangue siciliano nelle vene che per almeno tre volte ha perso il treno per sfondare nel calcio italiano.

La prima, nel giugno del 1984, quando si presenta al tribunale civile di Mons e rinuncia definitivamente alla nostra cittadinanza per giocare nella nazionale belga. Poi, tre anni più tardi, soppiantato dal peso delle responsabilità (e da un Matteoli stratosferico) durante il breve soggiorno neroazzurro. L’ ultima, nel 1993 appunto, quando persino i caldi tifosi del Toro lo ripudiano sentendolo un “corpo estraneo” ai colori granata. Triste destino quello di Vincenzino Scifo, uno che aveva tutti i numeri per diventare un leader ma che, ovunque sia andato, non è mai riuscito a farsi amare.

«Ho giocato quattro campionati del mondo, sono il calciatore belga con più presenze in questa manifestazione (17 n.d.r.), ho sfiorato la finale nel 1986 e chi dice che in Italia ho fallito dimentica che nel Torino ho conquistato un prestigioso terzo posto segnando anche sedici gol. Che, per un centrocampista, non sono certo pochi». E forse ha ragione Vincenzino. I numeri sono dalla sua parte ma per uno che da junior segnava 432 gol in quattro stagioni e che era stato soprannominato il piccolo Pelè, ci si aspettava sicuramente di più. Soprattutto da un punto di vista caratteriale, vero e proprio tallone di Achille per questo ragazzo «troppo italiano per essere belga e troppo bravo per essere normale» .

Scifo nasce a La Louvriere, Belgio Vallone, il 19 febbraio 1966. Qui Agostino e Alfonsa arrivarono nel lontano 1952. Una vita nera, da “facce nere”, come vengono definiti con disprezzo i minatori. Bruxelles è lontana una cinquantina di chilometri che diventano il doppio, il triplo, quando sei costretto a svegliarti all’ alba per andare a scuola e inseguire un sogno. Vincenzino, poi, è italiano: negli anni Settanta è un handicap non da poco. Sei un “diverso”, un “mezzo sangue”, difficile che i ragazzi belgi ti accettino.

Ma la natura ha regalato a Scifo il talento: accarezza il pallone come nessun altro, passeggia in mezzo al campo con la grazia di un ballerino e la classe di un principe. Segna gol a grappoli e l’ Anderlecht si accorge di lui. A sedici anni papà Agostino gli telefona a scuola: «La squadra ti ha convocato per una tournée in Italia». Vincenzino parte assieme a mostri sacri come Lozano e Coeck, fa qualche timida apparizione in campo e i giornalisti fanno la coda per parlare con lui. Troppo suggestiva la storia del figlio del minatore che sogna di sfondare nella sua terra. E così Scifo firma persino i primi autografi e capisce che ce l’ha fatta.

Nel 1983, ad appena diciassette anni e mezzo, Van Himst gli dà fiducia e lo lancia in prima squadra. Con l’Anderlecht vince due scudetti, Thys lo porta in nazionale. Ha un bel destro, tiene la testa alta, sembra un veterano. Qualcuno azzarda: «Somiglia in modo impressionante ad Antognoni» . Nel 1984, agli Europei, la consacrazione definitiva. Scifo è il migliore in campo contro la Jugoslavia, poi affronta con il suo Belgio la Francia di Platini: «Non mi rivolse la parola ma l’ emozione per me fu grandissima. Giocavo contro il mio mito». Per la cronaca il Belgio perse 5-0 ma Hidalgo, tecnico dei blues si lasciò andare: «Quel ragazzo è già una grandissima realtà del calcio».

Sarà, ma nel suo Paese, quello che scelse dimenticando le origini italiane, Scifo fa sempre discutere. Ai suoi compagni non vanno giù le troppe coccole. Si ironizza sulle lozioni e le acque di colonia nell’ armadietto dello spogliatoio. Pfaff, il mitico portierone che all’ inizio della carriera lo trattava come un figlio, commenta: «Non mi va di giocare con uno che in campo ha paura di spettinarsi». Vincenzino ora sorride: «Dai, queste sono battute. In fondo qualcuno mi voleva bene. Magari molto in fondo». Sta di fatto che nel 1986, in Messico, Scifo gioca il suo primo mondiale: a vent’anni è il leader della squadra, gioca sette partite e segna due gol. Il Belgio è quarto, miglior risultato della storia per i “rossi”. Si avvicina il sospirato ritorno in Italia.

L’Inter lo acquista per ben 4 miliardi e 700 milioni di lire. Michel Platini, intervistato dalla “Gazzetta dello Sport”, dice testualmente: «È lui l’ unico calciatore europeo che può definirsi il mio erede». La squadra nerazzurra già da un paio di stagioni l’aveva opzionato. Il mister è Trapattoni mentre, fra i suoi compagni d’avventura, ci sono Zenga, “Spillo” Altobelli e Zio Bergomi. Vincenzino è troppo giovane e inesperto per il nostro campionato e la sua stagione è purtroppo deludente, con la dirigenza nerazzurra che decide di mandarlo a maturare altrove. Vincenzino preferisce ricominciare dalla Francia, che lo ha sempre venerato. Gli va male a Bordeaux, qualcuno lo dà già per finito. Ma Guy Roux, tecnico dell’Auxerre, capisce che Scifo è ancora un campione.

Gioca una stagione fantastica, medita la “vendetta” ai mondiali del ’90 quando segna un gol spettacolare all’ Uruguay. Nei quarti, però, all’ultimo minuto dei supplementari l’Inghilterra spegne il sogno di Scifo che qualche tempo dopo ritorna nel nostro campionato con la maglia del Torino, un club emergente e pieno di giovani di talento. Oltre alla qualità, nella capitale sabauda Scifo dà prova anche di tanta quantità. Ormai è un giocatore maturo. Con i Granata sfiora la vittoria della Coppa Uefa nella prima stagione, perdendo in finale contro l’Ajax e si toglie la soddisfazione di vincere la Coppa Italia contro la Roma l’anno successivo. Il centrocampista dei Diavoli Rossi si guadagna anche le chiavi del centrocampo di Mondonico, ma purtroppo “nemo propheta in patria”, anche se legalmente la sua nazione è il Belgio. I debiti del Torino impongono di vendere i gioielli di casa. Tra i primi ad essere ceduti proprio Enzo.

E’ l’addio definitivo al calcio italiano. Le sue frasi di commiato sono molto amare. Scifo si sente un incompreso: «Non mi avete capito: chi mi compra, deve costruire una squadra su di me. Non sono io a dovermi adattare». Mondonico, il suo allenatore dell’epoca, però lo gela: «Non è mai stato decisivo. Rende quando la squadra gioca bene, gioca malissimo quando accade il contrario. Tipico di uno con scarsa personalità». Vincenzino chiude per sempre con l’Italia, trova a Monaco il suo ambiente ideale e gioca altre stagioni ad altissimo livello. Perché il talento c’è, questo non si discute. Tanto che trova spazio ai campionati del mondo del 1994 negli Stati Uniti e anche a quelli del 1998 in Francia. Non sono partecipazioni memorabili per Scifo e compagni, ma resta il record: quattro mondiali (sono in tutto 14 i calciatori che possono vantare lo stesso palmares), che potevano anche diventare cinque se il destino non avesse deciso il contrario.

Nel 1999 rischia la vita dopo un banale intervento chirurgico per una lussazione alla spalla. Emergono gravi problemi di respirazione con un edema polmonare. Ricoverato d’urgenza ad Anversa, i medici escludono un suo rientro in campo. E invece lui smentisce tutti tornando come allenatore-giocatore del Charleroi. Ma un anno più tardi deve arrendersi. Il 5 dicembre del 2000 Vincenzino chiama i giornalisti. «Vi annuncio il mio ritiro dal calcio giocato. Soffro di artrosi all’anca sinistra, riesco a giocare soltanto grazie alle infiltrazioni ma i medici mi hanno consigliato di smettere. Rischio troppo, non ne vale la pena» .

E così Scifo chiude la carriera con ben 84 presenze in nazionale e più di 500 partite giocate nei campionati di Belgio, Francia e Italia. «Peccato, senza questi acciacchi ce l’ avrei fatta a disputare il mio quinto mondiale in Giappone. Sarebbe stato un risultato strabiliante, la degna conclusione di una carriera meravigliosa. Dite che sono sempre stato a un passo dai traguardi e non li ho mai raggiunti? Un calciatore incompleto? Trovatemi altri che possono vantare i miei stessi record. Ci sono, certo, ma mica sono tanti. Io sono contento così». E se avesse ragione lui?