BERGOMI Giuseppe: l’Inter-Nazionale

E’ diventato famoso vincendo il Mondiale di calcio all’età di diciotto anni, quando di solito i ragazzi i campioni li guardano in televisione o li incrociano sgambettando nelle giovanili. All’epoca il fatto non suscitò poi tanto clamore, per via dei baffoni neri da carabiniere, che facevano apparire Beppe Bergomi come uno dei più maturi tra gli azzurri. Tanto più che, nonostante non fosse ancora stato sotto le armi, nell’ambiente per tutti lui era “lo zio”, perché, ai tempi della sua precoce apparizione in prima squadra, il mediano Marini, della vecchia guardia dell’Inter, dopo averlo squadrato da baffi a fondo aveva sentenziato: «E tu avresti solo diciassette anni? Ma se sembri mio zio…».

Il suo aspetto precocemente adulto, d’altronde, aveva sempre creato qualche problema, come ha ricordato Arcadio Venturi, allenatore delle giovanili dell’Inter quando vi approdò Bergomi: «La cosa sconvolgente di quel ragazzino è che non era un ragazzino. Io me lo trovai di fronte quando aveva quattordici anni e vi assicuro che ogni domenica di campionato passavo mezz’ora a convincere i dirigenti della squadra avversaria che il nostro numero 6 era effettivamente un Allievo: ma puntualmente nessuno mi credeva, nemmeno di fronte alla carta d’identità di Beppe. I suoi compagni neppure portavano le tessere al campo, però guai se lui ne era sprovvisto, non lo avrebbero fatto giocare».

Con quei baffoni, gli avversari sospettavano che l’Inter per barare cercasse di schierare anche lo zio di uno dei giocatori. A forza di essere considerato vecchio pur trovandosi ancora praticamente in età scolare, Bergomi finì col calarsi completamente nella parte, rovesciando le categorie tradizionali e cominciando dopo i vent’anni, lentamente ma inesorabilmente, a ringiovanire. E, tanto per dimostrare che faceva sul serio, eliminò i baffi che l’avevano reso celebre e si acconciò i capelli a spazzola, in versione marine. Tanto per assomigliare di più alla propria carta d’identità e farsi chiedere dalla gente come mai lo chiamassero zio mentre al più poteva sembrare un nipote.

Tutto quanto precede c’entra poco con il calcio (anzi, quasi nulla) ed è un peccato perché in realtà Beppe Bergomi è stato un campione autentico. Un difensore della scuola italiana, cioè un marcatore di stampo antico, capace di giocare praticamente in ogni ruolo della difesa. Difatti cominciò da libero, poi si specializzò come terzino di fascia destra e all’occorrenza stopper. Hodgson lo schierò da terzino sinistro e lui, dopo un breve rodaggio, si calò talmente bene nella parte da tornare più pimpante (e applaudito) che mai. Simoni, che coltiva meno l’hobby della fantasia, pensò bene di farlo tornare alle origini, secondo quello che un tempo era il tramonto obbligato della carriera dei grandi difensori: il ruolo di libero. Senonché lo “zio” lo prese talmente sul serio da meritarsi la convocazione in azzurro dopo ben sette anni di digiuno (1991-1998) e la partecipazione ai Mondiali francesi del 98 sotto la guida di Cesare Maldini.

In realtà, l’approccio dello “zio” col pallone non fu subito felice. Da bambino era innamorato della sfera di cuoio e tifoso del Milan, per cui quando a undici anni un osservatore del club rossonero, Trezzi, lo convocò per un provino, gli sembrò di toccare il cielo con un dito. Invece il firmamento prese la forma imbarazzante di un fiasco, ma non per motivi tecnici. Dopo essersi congratulati con lui per l’ingaggio imminente, lo avvertirono che gli eami clinici gli avevano diagnosticato i reumatismi nel sangue, per cui poteva tornarsene a casa per una lunga convalescenza. Doveva star fermo per un pezzo, casomai in futuro se ne sarebbe riparlato.

A quel tempo Bergomi giocava nella squadra di Settala, il suo paese; a dispetto delle infauste previsioni, guarì in fretta e, per dimostrare cosa avrebbero potuto fare i medici delle giovanili li rossonere col consiglio prodigatogli dopo il provino, approfittò della propria precocità per giocare in due categorie diverse: il sabato con i Giovanissimi e la domenica con gli Allievi. Oltre alla faccia da ventenne poteva vantare anche la classe superiore e infatti giocava da terzino o da libero, ma in pratica era il trascinatore e si faceva sentire pesantemente sotto porta: 24 reti nella prima stagione, 30 in quella successiva. Invece dei reumatismi, ora nel sangue aveva il gol.

La sua fama si sparse nel circondario e un giorno un altro osservatore, tale Bussi da Crema, uomo di fiducia di Sandro Mazzola, lo convocò a un provino per l’Inter. Era l’1 settembre del 1977 e questa volta non ci furono problemi per il tesseramento. Per la Settalese fu un grande colpo: tre milioni subito e due rate di cinque milioni ciascuna se Bergomi avesse proseguito la scalata nelle giovanili dell’Inter. Le rate vennero riscosse prima del previsto, perché lo “zio” bruciò letteralmente le tappe e presto diede la scalata alla prima squadra. Grazie al suo gioco coi baffi.

Nel novembre del 1980 venne convocato nella Nazionale Juniores per il Torneo di Montecarlo, allora uno dei più prestigiosi del mondo, e dimostrò subito la propria predisposizione vincente, conquistando il trofeo in una squadra che annoverava tra gli altri Galderisi ed Evani. La vittoria suscitò l’attenzione del tecnico nerazzurro Bersellini, che decise di aggregarlo alla prima squadra. E in men che non si dica, il 22 febbraio del 1981, lo mandò in campo contro il Como al posto di Oriali, che poi avrebbe vinto con lui il Mondiale.

Dieci giorni dopo esordì in Coppa dei Campioni contro la Stella Rossa a San Siro e quando in aprile contro il Real Madrid in semifinale fallì di un soffio il gol che avrebbe potuto portare l’Inter in finale, ormai la gente lo considerava un veterano. Anche perché, rendimento dell’Inter alla mano, sbagliava già come i grandi. Infatti l’anno dopo, il 14 aprile 1982 a Lipsia, debuttava in Nazionale sotto la guida di Bearzot contro la Germania Est (sconfitta azzurra per 1-0), a dimostrazione che a diciotto armi era ormai entrato tra i big del calcio. E i reumatismi, al più, li faceva prendere agli attaccanti avversari.

L’11 luglio 1982, a Madrid, Beppe Bergomi diventava campione del mondo e per i tifosi ebbe un posto speciale tra gli “eroi” della finale perché proprio a lui il Ct Bearzot affidò il compito di marcare Kalle Rummenigge, l’asso d’attacco della Germania Ovest che poi avrebbe giocato assieme a lui nell’Inter. Anzi, quella storia di Rummenigge per qualche tempo divenne una specie di etichetta, per un giocatore che ammetteva la propria timidezza fuori dal campo. «Sono timido» confessò nella prima intervista da campione del Mondo, «tremendamente timido. Già con i tifosi o con i giornalisti faccio fatica, figuriamoci con le ragazze. Certe volte mi capita che qualcuna si avvicini per chiedermi l’autografo, forse un altro se ne approfitterebbe: “stasera cosa fai?”, “come ti chiami?” eccetera. Io no, io resto lì a firmare autografi e magari ci faccio una brutta figura». Così i cronisti scrivevano che quel bel ragazzo col fisico da granatiere che non era stato intimidito dal grande Rummenigge diventava rosso e si impappinava quando si trattava di “marcare” qualche bella figliola.

Qualche anno dopo, la madre avrebbe ammesso: «Io dico che il vero punto debole, nella sua grande maturità precoce, sono i rapporti con le ragazze. Non voglio dire che sia un ragazzo poco serio, tutt’altro. Ma insomma, io il mio Beppe sposato proprio non riesco a immaginarmelo». Invece a un certo punto anche il campione timido che aveva fatto la faccia feroce con Rummenigge dovette capitolare. Capitò il 26 novembre 1989, l’anno magico, pochi mesi dopo la vittoria in quello che è passato alla storia come lo scudetto dei record: durante una festa sportiva in un locale di Milano conobbe Daniela, una splendida ragazza di Cusano Milanino, il paese diventato famoso per aver dato i natali a Trapattoni; e portandola all’altare nel 1993, dimostrando cosi che non era capace di chiudere all’angolo solo i rudi attaccanti del pallone.

La famiglia rappresenta da sempre uno dei cardini della vita di Giuseppe Bergomi, ragazzo all’antica. Che subi la perdita del padre, Giovanni, suo grande tifoso, due anni prima di diventare campione del mondo. «Beppe» raccontò ancora la madre Franca, cui è legatissimo «è sempre stato molto più maturo dei suoi coetanei, e probabilmente la scomparsa di mio marito ha accentuato il suo atteggiamento da grande. Quando successe, mio figlio aveva sedici anni. Si trovava con la Nazionale Juniores a Lipsia, mi telefonò appena arrivato: “Mamma, come è andata l’operazione?'”. “Bene, bene, stai tranquillo. I medici dicono che procede tutto nel verso giusto”. Dopo poche ore, mio marito Giovanni si spense. E dovemmo telefonare a Beppe per farlo tornare subito a casa. Beppe ha reagito da ometto alla mancanza del papà. Ma dentro ha sofferto tanto. Del padre non parla mai, nè vuol sentirne parlare… Io so perché: si emoziona. Il Giovanni era molto legato ai suoi figlioli».

E lui ha sempre ammesso uno dei suoi grandi crucci: «Come persona penso di essere maturato poco a poco; non ho mai fatto il giovanotto, non ne ho avuto il tempo. Avevo 16 anni quando morì mio padre, il calcio doveva diventare in fretta un futuro. Ogni tanto ripenso a papà, l’unico rimpianto della mia vita è che non sia riuscito a vedermi campione del mondo. Ma a sedici anni, chi ci pensava?». Se come difensore Bergomi è sempre stato corretto ma duro, come uomo ha sempre avuto il cuore tenero.

Non tutti hanno sempre apprezzato l’aplomb della “bandiera” nerazzurra. Anzi, a un certo punto Bergomi fu protagonista di un paio di episodi piuttosto discussi nel nostro campionato: una plateale protesta a Udine contro un guardalinee e un pugno al veronese Pacione immortalato dalla tivù. In questo secondo caso si difese strenuamente: «Arriva il signor Sassi alla moviola e presenta Pacione come un martire. Vorrei che vedeste le mie braccia tutte coperte di graffi, di unghiate. E i segni delle gomitate di Pacione che mi porto sulla schiena. Quello è uno che farebbe perdere la pazienza anche ai santi, figuratevi a me che santo non sono! lo ho commesso il fallo, lo ammetto, ma perché non si fanno vedere le provocazioni che ho dovuto subire da Pacione? Quando mai mi sono comportato così con altri attaccanti?».

Però qualche anno dopo commentava, in linea col proprio personaggio: «Un aspetto della mia carriera che vorrei cancellare sono quei due anni, 1983 e 1984, in cui il nervosismo mi portò a subire due espulsioni e a dar vita a quella scenata di Udine. Ero effettivamente un po fuori di testa, dopo mi sono sempre comportato bene e si tratta di una pagella di correttezza cui tengo moltissimo». Infatti la sua serietà e la sua professionalità sono state sempre proverbiali.

Per questo un altro dei suoi grandi crucci è legato al modo in cui si esaurì la prima, consistente parte della sua avventura in Nazionale. Era il 5 giugno del 1991, l’era Vicini era al tramonto, dopo il titolo mondiale fallito l’anno prima. A Oslo si giocava una partita decisiva per le qualificazioni europee, l’Italia perse contro la Norvegia per 2-1 e giusto all’ultimo minuto Bergomi venne espulso, per la prima volta nella sua lunga carriera in azzurro. Un cartellino rosso per una manata a un avversario: «Era uno schiaffetto» ricostruì lui «a un avversario che cercava di aggredirmi. Non è una cosa gravissima come si vuol far credere. Si cercano sempre le cose brutte, non si vanno a vedere quelle belle. Per esempio, il fatto che ho giocato oltre settanta partite in Nazionale e ho subito una sola ammonizione. Queste cose non contano più niente nella carriera di un calciatore?».

Tanto per mettere le cose in chiaro, il presidente federale Matarrese gli dedicò una dura reprimenda: i princìpi contano più dei risultati, chi sgarrava in azzurro disonorava la patria. Una settimana dopo, Vicini fece in tempo a mandarlo in campo contro la Danimarca nel torneo Scania a Malmò, così facendogli raggiungere la presenza numero 77. Poi, come una mannaia, arrivò la squalifica internazionale: sei giornate, un’esagerazione. Qualche mese dopo, il collega Vialli subì un’espulsione per un cazzotto a un avversario contro la Bulgaria e lo stesso Matarrese organizzò un’amichevole contro San Marino per fargli scontare la squalifica (un solo turno) in modo indolore.

Così Bergomi si convinse che in alto lo avevano scaricato, non ritenendolo più utile alla causa azzurra, visto che tanto stava per arrivare Arrigo Sacchi, il profeta della zona. Cioè il rigore morale valeva meno di quello dagli undici metri: perché anche nel calcio la politica è l’arte di servirsi degli ideali fingendo di servirli. Salvo poi accorgersi sette anni dopo, un’era geologica in termini calcistici, che la difesa azzurra per i mondiali francesi del 1998 aveva tremendamente bisogno di lui. Assente nei match contro Cile e Camerun, Maldini lo rispolvera contro l’Austria per poi confermarlo contro Norvegia e Francia, il suo ultimo gettone azzurro reso opaco dal rigore finale di Di Biagio che imperdià a Bergomi di accarezzare l’illusione di una finale mondiale 16 anni dopo il trionfo di Spagna 82.

Beppe Bergomi è considerato un caso più unico che raro, nel moderno calcio italiano, visto che ha incarnato una delle ultime “bandiere” di un club, quei giocatori cioè che trascorrono tutta la carriera con la stessa maglia, finendo col diventare dei simboli anche per la tifoseria. E anche se troppo spesso e finito ingiustamente nel mirino della critica («A forza di vedermi in campo, mi consideravano vecchio a ventisette anni, addebitando invariabilmente le crisi dell’Inter alla “vecchia guardia” della difesa, che invece era un caposaldo della squadra»), è rimasto una bandiera dell’Inter.

A proposito di primati. Nel gennaio del 1993 fa toccò il traguardo delle 500 partite ufficiali con la maglia dell’Inter; nell’aprile del 1996 superò il record dello juventino Giampiero Boniperti, 444 presenze in campionato con la stessa maglia; nel dicembre 1997 ha battuto Giacinto Facchetti e poi è diventato il primatista assoluto di Coppe europee. E pensare che nel 1996, nei primi mesi della seconda stagione di Hodgson, aveva seriamente meditato di ammainare la famosa bandiera. Si era fatto vivo nientemeno che Giovanni Trapattoni, suo antico estimatore dello scudetto dei record: al Bayern di Monaco aveva giusto bisogno di un terzino destro coi controfiocchi e siccome all’Inter il suo ruolo sembrava ormai quello della panchina o, tutt’al più, limitato a qualche comparsata sulla fascia sinistra, perché non pensarci?

Sulla sua stima per il Trap, non c’erano dubbi: «Gli do il voto massimo tra gli allenatori e non per piaggeria» aveva detto in tempi non sospetti; «ha una dote che per me conta più d’ogni altra: non porta rancore, mai. Con lui si possono avere discussioni, come capita sul lavoro, si può anche litigare, ma quando è finita, lui ha già dimenticato. Non la fa mai “pagare”, ogni volta tutto torna come prima. Il Trap è uno psicologo sensibilissimo: per chi gioca va sempre tutto bene, meno facile è mantenere tranquilli e caricati i destinati alla panchina. In questo è un maestro». Poi, sappiamo come è andata. Beppe Bergomi fini col ritagliarsi l’ennesima stagione da titolare aggiunto: un po’ terzino (destro, ma soprattutto sinistro: ormai funzionava benone anche lì), un po’ stopper, anzi, “centrale” nella zona allegra di mister Hodgson, la panchina lo “zio” la lasciò soprattutto agli altri.

Sicché nell’estate 1997, nel nuovo corso di Simoni e Ronaldo, il buon Bergomi sembrava perfetto nel ruolo di chioccia dei tanti “nuovi” e soprattutto del girovago libero Fresi, oltre a rappresentare un decorativo trait d’union con l’ultima Inter vincente del passato. Ma Gigi Simoni, che appartiene alla vecchia scuola, cercava un libero come si deve per costruirci sopra una nuova Grande Inter e non gradiva del tutto gli svolazzi eleganti di Fresi. E allora ecco il “nuovo” Bergomi, impegnato a ringiovanire ancora, sfoderando uno scatto e una brillantezza atletica da ventenne.

L’ultima stagione è la 1998/99, la disgraziata stagione dei quattro allenatori nerazzurri. Bergomi svolazza ancora con 23 presenze in campionato e 9 in Champions League. L’imprevisto stop arriva da Marcello Lippi, nuovo tecnico dell’Inter nella stagione che accompagnerà lo Zio nel nuovo millennio: Giuseppe, non rientra nei miei piani tecnici dell’allenatore viareggino. Beppe esce di scena entrando per sempre nella leggenda.