I bianconeri finirono in fondo al girone piemontese nel campionato 1912-13. Ma si salvarono grazie a un «capolavoro di diplomazia»: la Federazione autorizzò l’iscrizione al gruppo… lombardo nella stagione successiva. Di qui partì la rinascita: nel torneo 1913-14, la squadra si sarebbe piazzata al quarto posto assoluto.
Riportiamoci dunque alla stagione 1912-13 che costituisce una pietra miliare nella storia del calcio italiano. Infatti anche il Centro-Sud, fino a Napoli, entra a far parte del torneo, che risulta così il primo in assoluto a respiro nazionale. Ovviamente, fra Nord e Sud il divario è abissale, per i vent’anni di ritardo accumulati dal calcio meridionale: ma, come diceva de Coubertin, l’importante è partecipare. La formula prevede gironi eliminatori a carattere regionale e – attenzione – per la prima volta è inserito il criterio delle retrocessioni, perché nuove forze urgono, il fenomeno si estende e occorre procedere a rotazioni di merito.
La Juventus partecipa al girone piemontese, quello di ferro, perché comprende Pro Vercelli e Casale, che ora stanno dominando la scena nazionale, dopo l’iniziale leadership genoana. È una Juventus indebolita, da quando è stata lacerata dalla scissione e da una sua costola è nato il Torino. Pure i granata sono ai nastri e il campo è completato da Piemonte e Novara. Con la Juventus fanno sei squadre.
La rosa bianconera comprende il portiere Pennano; i terzini Barberis e Arioni; i mediani Nevi, Bona e Garlanda; gli attaccanti Copasso, Besozzi, Varalda, Poggi e Fiamberti. La società è disgregata e addirittura si parla di scioglimento. Il comportamento della squadra ne è la logica conseguenza. Il derby, in campo amico, col Torino si chiude con un mortificante 0-8! 0-4 è la resa davanti alla Pro Vercelli.
In breve: la Pro Vercelli domina il raggruppamento, nove vittorie e un pari nei dieci incontri e si avvia a conquistare il titolo italiano. Casale e Torino le fanno da vallette, la Juventus chiude ingloriosamente ultima, una vittoria, un pareggio e otto sconfitte, tre punti appena, quattordici gol segnati e ben trentacinque subiti. Il suo solo momento di riscatto, si fa per dire, si è avuto nel derby di ritorno, quando in svantaggio per 2-6, i bianconeri rimontano sino al 6 pari, per poi cedere per 8-6, ma con tutti gli onori.
In una riunione dei soci vicino al Teatro Regio dilaga lo sconforto. La retrocessione porterebbe alla fine della società. I dirigenti Zambelli, detto Zambo, e Monateri vengono incaricati di affrontare la delicata situazione. In segreto contattano l’ingegner Malvano, ex giocatore juventino, in rapporti d’affari e di amicizia con l’ingegnere milanese Francesco Mauro. Questi, oltre a essere dirigente dell’Internazionale, è soprattutto fratello di Giovanni Mauro, potente dirigente federale e futuro presidente.
Bene, la soluzione è trovata. Il girone lombardo è zoppo, manca una squadra per completare lo schieramento. La Juventus deve lasciare il raggruppamento piemontese e, in barba alla geografia, fare domanda d’ammissione a quello lombardo. Questo avviene e la notizia dell’accordo arriva a Torino dove i soci sono in assemblea e provoca un trionfo.
Sullo slancio della Serie A ritrovata, o meglio non perduta, la Juventus riesce a dotarsi di un nuovo presidente, Giuseppe Hess, che la risolleva energicamente: nella successiva stagione la Juventus è seconda nel Gruppo lombardo alle spalle dell’Inter, con cui entra nel girone di semifinale settentrionale ed è quarta assoluta, alle spalle di Casale, poi campione italiano 1914, Genoa e Inter. Per questo Pino Hess, anche lui ex giocatore bianconero, merita il titolo di presidente della rinascita.